Da napolimonitor.it
Il
testo che segue è una raccolta di voci, una conversazione a distanza tra
cinque donne, mamme, compagne, mogli, sorelle di detenuti rinchiusi nel
carcere di Opera, a Milano.
A
Opera, da quasi due mesi la situazione è tesissima. Gli eventi sono
precipitati con la rivolta del 9 marzo scorso, ma sono tanti i familiari
che denunciano, fin da prima della rivolta, provocazioni, violenze,
atteggiamenti al di fuori delle regole da parte di agenti della
penitenziaria e un funzionamento farraginoso dell’intero sistema
carcerario.
Molte
delle donne che abbiamo intervistato avevano già da tempo costituito
delle reti informali di raccolta dati e informazioni. Noi non abbiamo
fatto altro che ascoltarle e mettere in ordine le loro storie. Il
collage che ne viene fuori risulta forse un po’ complesso da seguire, ci
sembrava però importante metterle in relazione, esattamente come stanno
facendo loro da mesi e come hanno continuato a fare in queste di
settimane di quarantena.
Oltre
alle denunce da loro direttamente effettuate, una parte consistente
delle notizie raccolte da Alfonsina, Angela, Beatrice, Federica e
Marika, ha contribuito alla formulazione di un esposto presentato alla
Procura di Milano dall’associazione Antigone e a denunce legali e a
mezzo stampa di altre realtà che si interessano dei diritti dei detenuti
come Yairaiha o Acad, Associazione contro gli abusi in divisa. In
bilico tra la paura per le ritorsioni che i loro cari potrebbero subire e
la voglia di giustizia, queste donne hanno trovato la forza di
denunciare quello che succede nel più grande carcere del nostro paese.
Ed è a loro che lasciamo la parola.
LA RIVOLTA
Beatrice – Mio
figlio mi aveva chiamato il 9 marzo, nel pomeriggio. Mi aveva detto che
la situazione era tesa già dal giorno prima, e poi a un certo punto:
«Mamma guarda, non so se hai già sentito le notizie dal carcere di
Modena (la morte di alcuni detenuti che, secondo le ricostruzioni
ufficiali, sarebbero deceduti per aver assunto dosi eccessive di farmaci
nel corso di un assalto all’infermeria, ndr). Se ti dovessero
chiamare per dirti che mi è successo qualcosa, sappi che io non ho
nessuna intenzione di suicidarmi e che non faccio uso di sostanze e
quindi mai mi avvicinerò al metadone». Dopo due o tre ore c’è stato un
giro di messaggi e telefonate, qualcuno aveva inviato un video girato
dalle case intorno al carcere, da cui si vedeva che da una finestra
uscivano fuoco e fumo. Io sono corsa lì fuori, ma quando sono arrivata
era già tutto blindato dalle forze dell’ordine. Per tutto il tempo che
siamo state lì continuavano ad arrivare camionette della polizia, dei
carabinieri e della penitenziaria. Da una camionetta è scesa una tornata
di agenti in tenuta antisommossa, ha fatto un giro del carcere e poi si
è avviata dal lato in cui noi non avevamo accesso.
Luca (da una telefonata registrata dalla moglie Angela)
A – Quando è successo il fatto c’erano degli ufficiali?
L – Certo, c’era il comandante in prima linea, e altri ispettori, c’erano loro in prima linea.
A – Quando è successo il fatto c’erano degli ufficiali?
L – Certo, c’era il comandante in prima linea, e altri ispettori, c’erano loro in prima linea.
Marika – Il
9 marzo ho sentito mio marito alle due del pomeriggio. Mi aveva detto
che c’era del malcontento, perché si vociferava di presunti contagi
all’interno del carcere. Dopo qualche ora delle ragazze mi dicono che
stavano andando davanti al carcere perché era scoppiato un incendio e
stavano picchiando i detenuti. Io abito a Torino, ed era appena uscita
l’ordinanza che non potevi muoverti da una regione all’altra. Mio marito
è detenuto nel primo reparto, al quarto piano, sezione A. Quello più
“caldo”.
RAPPRESAGLIE
Alfonsina – Nei
giorni dopo la rivolta li hanno massacrati di botte, mio marito aveva
segni rossi sulle braccia, sul corpo, non ha dormito per giorni dal
dolore, nessuno gli dava nulla. Gli agenti lo andavano a provocare. Un
caporeparto gli ha schiacciato lo stivale sulla gamba dicendo: «Sorridi,
sorridi alla telecamera!». Gli hanno tolto le lettere, poi quando hanno
cominciato a consegnargliele gliele davano aperte e riattaccate con lo
scotch, io non gli ho mai inviato una lettera attaccata con lo scotch in
tutto questo tempo.
Luca (da una telefonata registrata dalla moglie Angela)
L – La direzione ha messo agli indagati solo acqua, caffè, gas (due bombolette), zucchero e shampoo. Non ti puoi comprare brioche, nient’altro, neanche a Pasqua e questo non si può fare, non è consentito dalla legge. Se ci sono da pagare danni li paghi al processo, ti fanno colpevole e allora paghi, ma agli indagati non puoi. A parte che c’era gente che non c’entrava niente… Mi hanno detto che al telegiornale il direttore ha negato tutto. Io mi rifiuto di parlarci, sono persone sleali, scorrette. Ti incattiviscono soltanto. I loro colleghi li vedono che si comportano male però non fanno nulla, perché quello è un graduato e se gli fa rapporto il graduato, all’agente lo mettono sul muro di cinta, con turni di merda, e se deve diventare capoposto non lo diventerà mai, è una politica interna tra di loro… Se non ti fai i cazzi tuoi, tu rimani assistente, e allora hanno carta bianca sugli abusi.
A – Ci sono stati altri abusi sui detenuti durante questo mese? Dopo le rivolte…
L – Ma sì, di continuo. Hanno trovato il cellulare a uno nelle scale e lo hanno preso a calci. Tu non puoi prendere a calci uno. Gli trovi il cellulare? Gli fai il provvedimento disciplinare, non hai il diritto di picchiarlo.
L – La direzione ha messo agli indagati solo acqua, caffè, gas (due bombolette), zucchero e shampoo. Non ti puoi comprare brioche, nient’altro, neanche a Pasqua e questo non si può fare, non è consentito dalla legge. Se ci sono da pagare danni li paghi al processo, ti fanno colpevole e allora paghi, ma agli indagati non puoi. A parte che c’era gente che non c’entrava niente… Mi hanno detto che al telegiornale il direttore ha negato tutto. Io mi rifiuto di parlarci, sono persone sleali, scorrette. Ti incattiviscono soltanto. I loro colleghi li vedono che si comportano male però non fanno nulla, perché quello è un graduato e se gli fa rapporto il graduato, all’agente lo mettono sul muro di cinta, con turni di merda, e se deve diventare capoposto non lo diventerà mai, è una politica interna tra di loro… Se non ti fai i cazzi tuoi, tu rimani assistente, e allora hanno carta bianca sugli abusi.
A – Ci sono stati altri abusi sui detenuti durante questo mese? Dopo le rivolte…
L – Ma sì, di continuo. Hanno trovato il cellulare a uno nelle scale e lo hanno preso a calci. Tu non puoi prendere a calci uno. Gli trovi il cellulare? Gli fai il provvedimento disciplinare, non hai il diritto di picchiarlo.
Marika – Dal
9 l’ho sentito direttamente il 17 marzo, otto giorni dopo. Mi ha detto
che non poteva raccontarmi tutto perché gli staccavano la chiamata.
Aveva i segni delle manganellate dappertutto.
Beatrice – La
prima chiamata che ho ricevuto dopo gli episodi del 9 marzo è stata
circa dieci giorni dopo. Per dieci giorni non ho sentito mio figlio, non
sapevo come stava, cosa gli era successo. Su come è iniziata non so
dirlo bene. So che a un certo punto sono arrivati questi agenti armati
di manganelli e quando loro sono usciti in segno di resa con le braccia
sollevate, hanno cominciato a ricevere manganellate in faccia. Mio
figlio l’ha presa in fronte, un po’ sul naso, ma è riuscito a ripararsi.
Quando sono tornati in cella è stato picchiato una seconda volta. Gli
hanno portato via i boxer e le magliette, l’hanno lasciato senza
mutande. Dopo abbiamo saputo che sono stati lasciati per molte ore al
buio, senza televisione, per uno o due giorni senza mangiare. Tutt’ora
una buona parte di quelli che il carcere ritiene aver partecipato alla
rivolta non possono fare la spesa, mangiano al carrello. Riso bianco e
mozzarella, questo è stato il loro pranzo di Pasqua.
Angela – Stamattina
l’ho sentito l’ultima volta. Mi ha detto che la situazione è pesante,
che continuano a stargli addosso, a istigarli. Lui cerca di trattenersi,
ha già ricevuto la denuncia per la rivolta, dice che l’hanno messo in
mezzo. Lui in quel momento stava lavorando, era fuori in corridoio,
tanto che al consiglio disciplinare ha richiesto i filmati delle
telecamere ma gli hanno detto che non è possibile avere le
registrazioni. Il direttore, dato che mio marito li continuava ad
accusare, gli ha detto: «Guarda, quello che vi hanno fatto a voi io ce
l’ho nel cuore!». Poi mezz’ora dopo all’intervista ha detto di non
sapere niente di quello che è successo!
Gli
è stato detto che sono stati bloccati i soldi per il risarcimento dei
danni provocati al momento della rivolta. Io sono andata a rileggere e
ho visto che, se tu hai al di sotto dei duecento euro, non possono
bloccarti i soldi. Mio marito ne aveva sessanta. Naturalmente in un
periodo come questo oltre al mangiare parliamo di disinfettanti, guanti…
i guanti li stanno continuando a riciclare, li tengono su tutto il
giorno, le mascherine fanno pietà, le sciacquano e se le rimettono ogni
due tre giorni.
Alfonsina – Mio
marito è alla prima sezione, quarto piano. La Pasqua l’ho “festeggiata”
con una lettera in cui mi diceva che non gli facevano fare la spesa,
che li menavano di continuo, che salivano in otto con i manganelli. Ti
leggo dalla lettera: “Il direttore ha dato carta bianca di farcela
pagare, ci hanno levato le chiamate dei bambini, ci fanno fare a
malapena le ore d’aria, a volte ne facciamo una sola, perché siamo in
troppi e ci mandano cinque alla volta. Amore fammi trasferire da qui, mi
fanno dispetti e provocazioni giorno per giorno”.
Federica – Dopo
che ho rilasciato quell’intervista a Rai Tre, il capo è andato subito a
rompere le palle a mio fratello, perché io mi sono esposta. È risaputo
che il carcere di Opera funziona così, ma noi pensavamo che ci fosse una
linea che loro non oltrepassavano, invece con la scusa delle rivolte
l’hanno oltrepassata eccome. Li prendevano a manganellate in testa, ci
sono foto e video con questi detenuti pieni di ferite, e il direttore ha
il coraggio di dire alla Rai che non c’è stato nessun caso di
violenza.
PRIMAVERA NON BUSSA
Marika – Dopo
qualche giorno mi chiama un familiare di un detenuto: «Guarda che Alex
sta male, è stato picchiato, è messo malissimo». Io pensavo mi stesse
chiamando “a scoppio ritardato” e si stesse riferendo alle violenze
della rivolta. Invece chiedo meglio e mi confermano che stavano
continuando a picchiarli. Qualche ora dopo leggo che un detenuto di
Torino, nel carcere di Milano Opera, “è ridotto come Stefano Cucchi”.
Era il 21 marzo.
Beatrice – Per
quello che mi riferisce mio figlio, due settimane circa dopo la rivolta
c’è stato sicuramente quest’episodio, causato dal fatto che un detenuto
ha fatto un’obiezione alla guardia sulla questione della spesa
bloccata. La guardia gli si è rivolta male, lui ha risposto a tono e
qualche ora dopo sono tornati in quattro o cinque e l’hanno picchiato,
dice che gli hanno spaccato un sopracciglio, lividi in testa,
dappertutto…
Marika – Il
22 sento mio marito. Mi dice di far venire subito l’avvocato, che
l’hanno massacrato. Aveva chiesto spiegazioni a un agente sul fatto che
non gli venisse consegnata la spesa che aveva fatto, ed è scoppiata una
lite. Sono arrivati altri cinque agenti, dritti in cella da lui e hanno
iniziano a picchiarlo con calci e pugni. Lui ha voluto farsi refertare,
ma si sono rifiutati di fargli la tac, nonostante i bozzi e nonostante
il dolore alla testa. Abbiamo presentato denuncia alla Procura, al
magistrato e siamo in attesa della risposta. Ma la priorità ora è che
venga trasferito subito, perché lui è stato il primo a presentare
individualmente la denuncia, è pericoloso che stia lì, può succedere di
tutto. E infatti mi ha fatto registrare una telefonata in cui mi dice:
«Io non mi voglio ammazzare, registralo e avvisa tutti, avvisa gli
educatori, gli avvocati!», per farti capire cosa può succedere. Io la
notte mi sveglio con quelle parole nelle orecchie. Deve andare via di
lì, soprattutto da quando c’è la denuncia è incompatibile con quel
carcere. La denuncia è stata presentata il 3 aprile, a oggi non abbiamo
nessuna notizia.
VISTI DA FUORI
Beatrice – Mio
figlio ha un fine pena al 2024. È in carcere da cinque anni, ne ha
venticinque adesso. Fino a che non è finito a Opera stava facendo un
percorso che faceva ben sperare; prima era a San Vittore, ha fatto dei
corsi in carcere, adesso a Opera dovrebbe fare la maturità, mi ha detto
che quando finisce vuole iscriversi all’università, lui che aveva
lasciato la scuola prima dei diciott’anni. Sta studiando finanza e
marketing. Adesso non so come si evolverà la situazione, ma quest’anno
avrebbe dovuto fare la maturità.
Quella del
carcere era una realtà sconosciuta per me, anche se abito in una zona
come Quarto Oggiaro. Io ci sono nata, ma ho sempre avuto frequentazioni
con persone regolari. Così ho dovuto rivedere un po’ certe posizioni,
magari cinque anni fa sarei stata più dura, del tipo “chi sbaglia si
deve assumere le responsabilità delle sue azioni” e punto, credo che il
pensiero generale sia questo. Io non sono una di quelle “amnistia e
indulto” senza se e senza ma, però una condizione più dignitosa per
tutti… Mi sono scontrata con persone che conosco da anni e che partivano
da un pregiudizio del carcere. Per dire, il non poter fare la spesa,
sembra una cosa da nulla vista da fuori, tu dici “ma che problema c’è”, e
invece una volta che entri in questo circuito capisci quanto è
importante la spesa, crea rapporti, coinvolge persone. In tre fanno la
spesa e in cinque mangiano, perché magari quei due non hanno nemmeno chi
gli versa i soldi. Ho visto forme di solidarietà che non mi sarei mai
aspettata e ho dovuto rivedere certe idee. Invece è facile dire: “Eh
vabbè, tanto mangiano dal carrello”.
A San Vittore mio figlio ha incontrato degli educatori molto bravi. Non perché è core de mamma,
ma mio figlio ha delle potenzialità che io mi incazzo quando penso a
tutto quello che ha buttato via; però poi dico che c’è sempre tempo, uno
può sbagliare, però aiutalo, aiutalo a tornare una persona che può
essere inserita in un tessuto sociale. Da quando invece è in questo
reparto, al primo reparto a Opera, la situazione è molto peggiorata. Ha
avuto una serie di rapporti negli ultimi tempi per delle discussioni con
le guardie, mentre invece l’unico rapporto a San Vittore l’aveva preso
perché lavorava in cucina e aveva fatto col suo amico una guerra con la
farina e le uova, cioè, per farti capire, aveva vent’anni… In ogni caso
il magistrato non gli ha concesso l’affidamento, anche se ha scritto che
i rapporti erano stati tutti per futili motivi.
Con
l’arrivo del nuovo direttore è arrivato un nuovo entourage di guardie,
gli atteggiamenti sono stati molto diversi e a quel punto anche le
risposte da parte dei detenuti lo sono state. A Opera gli educatori
hanno un ruolo marginale, forse perché i detenuti sono moltissimi e loro
sono pochi, a San Vittore c’era una continuità diversa. Fatto sta che
l’ultimo anno l’ha indurito molto, perché se tu provi a impegnarti in
una cosa e poi invece…
Ormai ho
smesso di dirlo, ma è un’ingiustizia il motivo per cui mio figlio sta
dentro, un reato che non è mai esistito, un processo allucinante. Lui
faceva parte di un gruppetto di ragazzi che nel quartiere rompevano
veramente le palle, erano fastidiosi, ma la situazione del reato è stata
creata ad hoc, non c’è stata nessuna rapina, c’è stata una scazzottata
con il titolare di questa attività, un parrucchiere per uomo, fuori
l’attività, poi sono arrivati altri amici di mio figlio ma nessuno di
loro è mai entrato nel negozio, la discussione è avvenuta fuori, poi
dalle parole sono passati ai fatti. Anche il carabiniere ha testimoniato
che lui l’unica cosa che ha visto è stato un labbro leggermente
tumefatto, tanto è vero che l’ambulanza che è arrivata non l’ha nemmeno
soccorso. Insomma, una lite, lo hanno testimoniato anche gli altri
negozianti. Però lui ha detto che gli erano spariti trecentottanta euro
dalla cassa e si era trattato di una rapina.
Angela – Mio
marito è dentro per tentata rapina. Ha avuto una condanna di quattro
anni e due mesi, poi è arrivato a tre anni e sei. Prima di entrare a
Opera era al carcere di Como, ha lavorato per otto mesi, non ha mai
creato disturbi. È stato trasferito a Opera dove non gli hanno dato la
possibilità di lavorare, l’hanno messo in un reparto di nuovi giunti
dove doveva stare temporaneamente mentre è lì dallo scorso giugno, senza
nessuna motivazione. Dovrebbe essere seguito dal Sert, a Como era
seguito dall’assistente sociale con una relazione stra-positiva, ma a
tutte le domande ha avuto risposta negativa. Da quando è a Opera non ha
effettuato un solo colloquio con l’assistente sociale che si occupa di
dipendenze.
Io
faccio la cameriera in un ristorante e poi faccio servizio catering.
Quando ho le due cose nella stessa giornata tiro avanti anche per
diciotto-venti ore di seguito. Perché comunque sia, a fine mese
l’affitto da pagare c’è, le spese pure, la scuola costa. Poi ho paura di
mettermi in mano agli assistenti sociali, anche se ho la coscienza a
posto. Però, essendo una mamma sola, con tre figli, magari dicono
“questa sbatte i bambini a destra e a sinistra per andare a lavorare”.
Il papà è in galera, lei poco presente, si è vero il frigo non è vuoto,
ai bambini non manca niente, ma magari si possono aggrappare ad altre
cose. I bambini vanno una volta dai nonni materni, una volta da quelli
paterni. Certo non è facile, poi c’è il calcio, la ginnastica artistica,
la scuola, il catechismo, per una mamma sola diventa tutto più
difficile.
Da
quando ho avuto i figli non avevo mai lavorato. Lo facevo prima, poi ho
fatto la mamma a tempo pieno per nove anni, però l’anno scorso ho detto
basta, mi devo rimettere in piedi. Avevo ricevuto uno sfratto e ho
cambiato casa, siamo andati a Rozzano e un po’ alla volta…
Alfonsina – Abbiamo
due bambini, di uno e quattro anni. Quando mio marito è stato arrestato
mi sono trovata incinta di cinque mesi, con una bambina di tre anni, da
sola, tutti i parenti a Napoli, fuori dal mondo. Ho avuto la
depressione post-parto, ho fatto richiesta di aiuto perché da sola in
casa non riuscivo a gestire due bimbi, non me l’hanno accettata. Sono
stata dallo psicologo, ho fatto la richiesta di “Mammo”, ho dimostrato
che lavoro in una ditta di pulizie e che quello che prendo devo darlo a
una baby-sitter, così abbiamo chiesto che mio marito tornasse a casa per
guardare i suoi figli, con i domiciliari. Hanno rigettato anche quella.
Con mio
marito ci siamo sposati in carcere. È stato un giorno particolare, siamo
arrivati là alle 10, io potevo portare solo le fedi e il bouquet, lui
poteva prendere i pasticcini e le cose da mangiare. C’era una sala con
un divano, le cose da mangiare, ci hanno sposato e poi ci hanno fatto
stare tre ore da soli. Mia suocera ha fatto da testimone, la suora e gli
altri due sono andati via e siamo rimasti noi con i bimbi. Da lì sono
cominciati i problemi. Tutto è partito dal fatto che quando lui mi ha
salutato mi ha preso in braccio, la guardia è arrivata e ha fatto una
battutina. Mio marito non se l’è tenuta e ha risposto. Poi dopo, finito
tutto, gli fa: «Vi ho lasciato la torta, se la volete mangiare, la
mangiate». La guardia di nuovo non so cosa gli ha risposto e così mio
marito ha preso la torta e gliel’ha lanciata in faccia.
Gli hanno
fatto un rapporto, lo hanno messo in isolamento, gli facevano i
dispetti, lo lasciavano giorni interi senza mangiare… Ha fatto quindici
giorni di cella liscia, gli davano sempre il riso in bianco, io gli
portavo cose e loro non gliele facevano arrivare, neanche le lettere.
Dopo quindici giorni di cella liscia e otto mesi di isolamento è
rientrato in sezione, ma hanno continuato a fargli dispetti. Per avere
le foto del matrimonio ho aspettato un anno. Abbiamo richiesto la
ludoteca per i bambini ma non è mai stata accettata, chi ha bambini
piccoli ne ha diritto, è una stanza un po’ più grande delle altre con i
giochi dove noi potremmo essere presenti. Richieste su richieste, sempre
ignorate, non arrivano proprio perché quando lui le dà agli agenti
penitenziari, quelli strappano le domandine. Gli agenti non si sanno
comportare, gliel’ho detto al direttore, sono giovani e si sentono
superiori. Con quelli che hanno cinquanta o sessant’anni, con più
esperienza, già è diverso.
Federica – Io lavoro in una Rsa, quando
è tutto pieno sono ottantanove ospiti, adesso siamo arrivati a
sessantaquattro, abbiamo avuto cinque morti. Sperando che si fermi,
perché da noi è scoppiato tutto due settimane fa, ci sono arrivati
pochissimi tamponi, sono risultati quasi tutti positivi.
Io
ho finito il turno da poco, sono venuta da mia madre e subito mi sono
lavata, altrimenti non vedo nemmeno più i bambini. Se la mattina non
lavoro, riesco a venire qua senza problemi, mentre se lavoro, e il
pomeriggio devo rientrare, faccio una scappata. Mangio, mi lavo e vengo,
perché non posso venire senza lavarmi. Mia madre ha settant’anni e ha
la bronchite cronica, è per lei che mi preoccupo. Prima con lei viveva
mio fratello, ma dal 2008 è dentro per rapina e un’associazione per
spaccio. Lui non ha figli, ha trentasei anni, ne deve scontare ancora
quattro.
Marika – Ci
siamo sposati due anni fa, nel carcere. Siamo stati noi a dare il via,
poi altre coppie l’hanno fatto. Nel suo brutto è stata una giornata
bella, siamo stati insieme tante ore. Era importante sposarci, anche
perché come “compagna” molti diritti sono minori, tutte le cose
burocratiche sono più difficili.
Io insegno
elettronica, sistemi e automazioni in una scuola superiore. Mio marito è
dentro per rapina. Deve scontare fino al 2025, ha avuto una pena di
ventidue anni ma è a Milano “solo” da due. Era il 15 di novembre del
2018. Io stavo entrando a lavorare, mi chiama una ragazza che aveva il
fidanzato con lui a Vercelli e mi dice che Alex è stato trasferito,
l’avevano portato a Opera. Io non sapevo manco dove stava Opera. Ho
dovuto aspettare più di venti giorni per avere una sua chiamata. Le
richieste per un nuovo trasferimento sono state sempre rifiutate, e non è
mai stato motivato il suo spostamento a Milano. Sì, aveva delle
frizioni con delle guardie, ma non ha mai avuto un provvedimento scritto
che motivava il trasferimento.
Così, da
due anni, una volta a settimana mi faccio Torino-Milano. Parto alle 5,30
e arrivo al colloquio delle 9. Fino a qualche tempo fa lavoravo in un
call-center, ma ho perso il lavoro perché attaccavo alle tre e spesso
arrivavo in ritardo, oppure non potevo fare i turni. Così non mi hanno
rinnovato il contratto. Da quando lavoro a scuola la cosa è ancora più
complicata. Prima del virus, ci vedevamo una volta al mese per quattro
ore. Lui è esausto, si è fatto già dieci anni praticamente consecutivi,
dai ventidue ai trentadue… Tra un anno scenderebbe sotto i quattro anni,
ma non può rimanere lì. Lui prima lavorava in sezione, nelle pulizie,
una cosa che serve anche durante il giorno a tenerti la testa impegnata.
Lo dovevano trasferire nella comunità interna, per due volte gli hanno
detto che c’erano quasi, poi dopo quattro cinque mesi gli dicevano di
no, senza motivare la richiesta. Stanno facendo un lavorio psicologico.
Sto combattendo per portarlo via di lì, c’è un’incompatibilità, dopo
quello che è successo ancora di più, considerando la denuncia che
abbiamo fatto.
APRILE
Angela – Quando
mi fa la videochiamata, da due mesi a questa parte, la prima cosa non è
il classico: «Ciao, come va?», ma: «Come ti senti? Hai qualcosa?
Febbre? Come sta la tua sezione?», il primo pensiero va là. «Quando
arrivano le mascherine? Le guardie le mettono?». Poi dopo le rivolte,
quando sono iniziate le violenze, ogni giorno l’angoscia è doppia. Se
capita che mi deve chiamare e gli posticipano la chiamata al giorno
dopo, immagina come passo le giornate. Mi dice che ci sono tante guardie
giovani che sono montate di testa e ti istigano in ogni cosa.
Beatrice – È
passato un mese e venti giorni dalle rivolte, mio figlio è chiuso in
cella non solo con la porta blindata, ma anche la finestrina del blindo
gli hanno chiuso. Da un paio di settimane fanno di nuovo un’ora d’aria
al giorno, stanno cercando di avere anche la seconda ma non riescono, li
fanno uscire in gruppi di quattro o cinque per motivi di sicurezza. Ha
passato una settimana senza televisione, poi gli è stata rimessa e poi
gli è stata ritolta, non gli permettono di sapere come sta andando fuori
e questo aumenta la tensione.
L’altro
giorno durante la videochiamata una ragazza del gruppo ha sentito
gridare e subito dopo si è trovata davanti la sedia vuota, ha visto gli
agenti correre via e anche i detenuti, ma che cosa è successo non si sa.
Mio figlio qualche giorno fa ha sentito dei rumori nel corridoio, ha
preso uno specchio e ha cercato di guardar fuori cosa succedeva e questo
è tutto. Gli hanno fatto un rapporto e gli hanno dato “istigazione alla
rivolta”, perché secondo loro guardando dal corridoio lui avrebbe
potuto o voluto avvisare gli altri detenuti. Ma lui dice: «Io sono in
fondo al corridoio, a chi dovevo avvisare?». Lui non si è presentato al
consiglio disciplinare, ha detto che è inutile andare, perché tanto
scrivono quello che vogliono loro.
VISTI DA DENTRO
Beatrice – Ho
sempre parlato tanto con i miei figli, ho sempre pensato che fosse
giusto dargli la libertà, la responsabilità e non ti nascondo che adesso
mi chiedo se questa cosa non sia stata sbagliata. Però ho un’altra
figlia che si sta laureando in medicina, un’altra che ha diciassette
anni e con tutti i problemi dell’adolescenza è comunque in un canale di
normalità… non lo so cosa sia successo con lui, me lo chiedo spesso, mi
faccio una retrospettiva, ma purtroppo a questa domanda non riesco a
rispondere.
Mio
figlio, a parte l’ultimo anno, l’ho sempre visto sorridere davanti a
tutto, nonostante si stia facendo la galera pensando ogni sera che
quella cosa lì non se la merita. Voglio dire, non è che l’hanno pescato
dall’asilo delle suore e l’hanno messo lì, però sta pagando un prezzo
altissimo, tra l’altro lo sa bene che se avesse confessato una rapina
che non c’è stata e avesse patteggiato, a quest’ora sarebbe già fuori.
Un
accanimento come quello che sto vedendo in questi giorni è difficile da
mandare giù. Sicuramente ci saranno delle ripercussioni disciplinari,
dopo questa cosa delle rivolte l’affidamento al lavoro non glielo
daranno, per i prossimi due anni se lo scorda. Ed è una follia, perché
così davvero ti fai nove anni di carcere filati. Lui un giorno mi ha
detto: «Mamma, tu credi davvero che fuori da qua, anche se mi dovessi
diplomare o andare all’università, potrò avere una possibilità con
questo passato?». Questo è stato uno dei pochi momenti d’ombra che ho
visto nella nostra storia, perché mio figlio è uno molto positivo, non
so come faccia, forse è anche facciata, perché probabilmente dentro non è
così.
Angela –
Questa situazione mi ha reso più forte. Un conto è quando si è in due a
tirare su una famiglia, un conto è quando all’improvviso ti ritrovi da
sola. Io ho tre bambini piccoli, il più grande ha dieci anni, l’ha presa
molto male, aveva iniziato a giocare a calcio invogliato dal papà e
dopo neanche due settimane lui è stato arrestato. Non ha mai visto una
sua partita di calcio. Naturalmente a quest’età ha bisogno di
confrontarsi con un uomo, con un riferimento maschile. Ma anche la
bambina, che di anni ne ha sette anni, sente la mancanza del papà.
Quando siamo a colloquio e finisce il tempo li devi trascinare via con
la forza, spesso tra i pianti.
La
speranza. Questo mi tiene in piedi. Non è mai morta in ventuno anni.
Spero sempre che qualcosa cambi. Negli ultimi due anni ne ho passate
tante, ma in quest’anno ho cambiato la mia vita dal punto di vista
lavorativo, ho ripreso la casa, mi sono ripresa la macchina, ero rimasta
senza niente, ero tornata dai miei genitori… Lui ha visto che mi sono
rimboccata le maniche, che ho lavorato giorno e notte, che andavo a
colloquio con gli occhi chiusi perché ero cotta. E mi dice che gli ho
dato la forza di dire: «Basta, mi devo godere i miei figli!». Anche
perché poi forse sarò anche un po’ crudele, però voglio che lui le
capisca certe cose. Il bambino gioca una bella partita? Gli faccio
rodere che lui non c’era. La bambina fa la gara? Lo faccio infastidire e
dire: «Porca miseria, non ho visto la prima gara di mia figlia!».
Naturalmente tra le righe, gioco un po’ di psicologia, anche questo è un
lavoro difficile. A ottobre del 2023 finirà la pena. Vedremo. (riccardo rosa – con la collaborazione di: rete emergenza carcere)
PS.
Nella giornata di ieri, tre dei detenuti del carcere di Opera che hanno
sporto denuncia per gli abusi subiti durante e dopo le rivolte dello
scorso marzo, sono stati trasferiti in altre carceri e al momento non è
dato sapere dove. Sono i detenuti le cui familiari avevamo intervistato e
che avevano rilasciato una intervista al Tg3 Lombardia nelle scorse
settimane, denunciando quanto avvenuto a Opera negli ultimi due mesi.
Nelle scorse settimane erano fioccate a Opera le minacce di
trasferimenti in carceri della Sardegna, un luogo dove i collegamenti
diventano difficilissimi, e che per le famiglie risulta, soprattutto
durante l’inverno, proibitivo da raggiungere. Pubblichiamo a seguire la
lettera indirizzata al direttore del carcere e firmata da Federica e
Alfonsina, i cui rispettivi fratello e marito sono tra i tre detenuti di
cui al momento non ci sono notizie.
Ieri ho
appreso la notizia del trasferimento dal carcere di Opera di mio
fratello e di altri tre detenuti. A oggi non sappiamo dove siano stati
trasferiti. Questa scelta di trasferirli è solo il frutto di una
ignobile ritorsione nei confronti di chi dopo il 9 marzo ci ha messo la
faccia denunciando ai giornalisti, alle associazioni e ora anche in
Procura, il trattamento subito dai nostri fratelli, mariti, figli.
Dopo
botte, umiliazioni, pressioni psicologiche continue e la sospensione del
vitto; dopo avergli tolto acqua, ciabatte, fornelli, tv; dopo avergli
tolto quel poco che gli rimaneva, hanno deciso che non bastava, volevano
di più, togliendoli il diritto, già in parte negato, della salute,
mettendo a rischio loro e altri detenuti che incontreranno nel nuovo
carcere.
In questo
triste momento che l’intera Italia sta passando per il Covid, ci sono
famiglie lasciate sole nello sconforto che stanno aspettando una
semplice chiamata o messaggio per sapere dove siano finiti i loro cari,
anche perché casualmente hanno aspettato il venerdì per i trasferimenti.
Abbiamo
chiamato dieci carceri, dove ci rispondono che non si può sapere nulla,
se non tramite mail pec di un legale, ma sanno bene che passeranno
giorni con feste di mezzo.
Cosa vuole
dimostrarci il direttore di Opera? Che comandano loro? Questa è la
giustizia in Italia? Bene, sappia pure che ci troverà sempre qui a
lottare per la vita e la dignità dei nostri fratelli, mariti, figli,
compagni detenuti.
Caro
direttore il messaggio mio le è arrivato tramite telegiornale, il suo è
arrivato tramite una moglie di un altro detenuto. Io ci ho messo la
faccia, lo faccia anche lei.
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