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Appello
degli operai MARUTI SUZUKI WORKERS UNION
Compagni e amici,
Per portare avanti la nostra lotta ed
esigere giustizia per tutti i 147 arrestati, i 2500 lavoratori Maruti
licenziati e le nostre famiglie, oggi 5 ottobre abbiamo organizzato
una manifestazione a Kaithal, Haryana. Abbiamo portato i nostri
slogan in corteo attraverso la città di Kaithal, come parte di una
campagna nazionale contro la politica anti-operaia del governo e i
padroni, nel cui interesse esso agisce.
Gli interventi al termine della
manifestazione hanno sottolineato che, guardando alle prossime
elezioni in Haryana, il 15 ottobre, sappiamo già per esperienza che,
per quanto abbiamo bussato alla porta di ogni rappresentante eletto,
il governo si è sempre schierato dalla parte della proproietà. Non
vogliamo un governo sotto il controllo dei capitalisti.
Quando siamo andati in corteo verso la
sede del ministero dell’Industria, abbiamo trovato ancora una volta
le strade sbarrate. Abbiamo presentato una richiesta al ministro,
attraverso il DC Kaithal.
Nella manifestazione di oggi, come
nelle tante altre degli ultimi due anni e mezzo, c’erano ad
incoraggiarci gli sguardi determinati dei nostri amici e familiari,
insieme ai nostri compagni di lavoro. La nostra famiglia, oggi
presente in gran numero, sono i lavoratori venuti da tutto l’Haryana,
l’UP, il MP, Rajasthan, Bihar e da altrove. Negli ultimi due anni e
mezzo hanno sopportato continui abusi e violenze nell'indifferenza,
ne migliore dei casi, del governo. Allo stesso tempo, ci hanno
mostrato il coraggio e la lotta determinata con cui hanno affrontato
difficoltà economiche e pressioni psicologiche per stare dalla parte
dei fratelli, figli, padri, amici lavoratori arrestati.
Amici, voi sapete che questa è stata
una lotta prolungata dei lavoratori per i loro diritti, guidata dalla
Maruti Suzuki Workers Union. E di fronte ai crescenti attacchi contro
operai e lavoratori, sotto forma di aumento degli appalti,
disoccupazione, riforme delle leggi sul lavoro, ecc., queste lotte
sono destinate a intensificarsi nei prossimi giorni. Diamo qui un
breve aggiornamento sui processi in corso, e ultime notizie apparse
sui media:
Cause penali
Finora a nessuno dei 147 operai
arrestati è stata concessa la libertà su cauzione. Le accuse, che
vanno dall'omicidio, al tentato omicidio, saccheggio, incendio doloso
ecc., sono state ingiustamente formulate in forma del tutto
unilaterale. A un solo attivista del comitato di lavoro provvisorio
del MSWU, arrestato singolarmente il 24 gennaio 2013 per reprimere la
lotta all’esterno, è stata concessa, dopo un anno, la libertà su
cauzione.
Altri 66 lavoratori restano, imputati
di simili reati, restano detenuti in nome del “pericolo di fuga”,
con continui pressioni su questi lavoratori e le loro famiglie.
Negli ultimi due anni i procedimenti di
richiesta libertà su cauzione per i lavoratori sono passati per il
rigetto del Tribunale di Gurgaon, dell’Alta Corte del Chandigarh e
giacciono presso la Corte Suprema. Nella motivazione della sentenza
dell’Alta Corte è scritto: “questo è il più sciagurato
incidente che ha peggiorato la reputazione dell'India nel mondo. È
probabile che gli investimenti esteri vengano a mancare a causa della
crescente conflittualità”.
Siamo cioè di fronte a una sentenza
motivata politicamente in nome dei capitalisti e a un orientamento
anti-operaio della magistratura nel suo insieme, anche di quella del
lavoro.
In appello, per disposizione della
Corte Suprema, 23 testimoni sono stati chiamati a testimoniare prima
della decisione sulla cauzione. Lo hanno fatto, e i testimoni di
parte dell’azienda non sono riuscita nemmeno a riconoscere alcuni
dei lavoratori che richiedevano la cauzione. ciononostante, il
giudice di Gurgaon ha di nuovo respinto tutte le richieste.
L’ulteriore ricorso contro questa sentenza è stata ancora una
volta respinta dall’Alta Corte il 29 agosto e 15 ottobre 2014,con
la motivazione che, se fosse stata concessa la cauzione mentre la
maggior parte dei processi sono già in corso, ciò avrebbe
significato dare un giudizio sui processi stessi. Ma la stessa
cauzione stessa perde il senso a processo concluso. U processo che è
comunque gestito contro di noi, in cui si cerca di mettere a tacere
le nostre voci con dalla forza del denaro della Maruti Suzuki e della
sua influenza sui rappresentanti eletti al governo del Haryana e del
Centro.
Nei prossimi giorni l’appello sarà
nuovamente sottoposto alla Corte Suprema. Oltre alla lotta sul campo,
occorre anche un più ampio sostegno della società civile e di tutte
le forze democratiche e della parte dei lavoratori, cui facciamo
appelliamo a essere solidali con noi.
Cause di lavoro
Le cause di lavoro, [ai sensi della
Sezione 33 (2) B dell’Industrial Disputes Act] per la risoluzione
di 423 contratti di lavoratori a tempo indeterminato sta andando
avanti. Ci è stato ingiustamente richiesto di starne fuori, senza
alcuna inchiesta o altro per dimostrare il nostro coinvolgimento
nella vertenza. 1.800 lavoratori precari sono stati buttati fuori
senza alcuna formalità. Abbiamo posto la questione come centrale in
tutte le nostre agitazioni, richieste e protocolli formali, ma la
dirigenza elude ancora la questione.
Caso Kaithal
Nel frattempo vanno avanti i processi
per i fatti del 19 maggio 2013 a Kaithal, dove ci fu una brutale
carica dalla polizia Haryana di fronte alla determinata resistenza di
lavoratori e attivisti, con 111 arresti. A 100 di questi fu subito
concessa la libertà su cauzione, a 11 dopo più di 2 mesi. Nel
processo contro i primi 100 lavoratori e attivisti, dopo ripetuti
rinvii, si è a un punto morto. In quello contro gli altri 11
lavoratori e attivisti, che contempla falsi accuse, dal porto d’armi
al tentato omicidio, la polizia non è riuscita a produrre neanche un
testimone, e il caso è in fase di archiviazione.
Come si sa, questa è stata una lunga,
ostinata e instancabile lotta dei lavoratori licenziati guidata dal
comitato di lavoro provvisorio, MSWU. Oggi vediamo che anche l’unità
tra i lavoratori in lotta nella zona è cresciuta, tanto che i
lavoratori in lotta con la MSWU hanno vinto le elezioni nelle
fabbriche di Manesar e Gurgaon contro le liste appoggiate dai
padroni. I lavoratori dei quattro stabilimenti Maruti si sono uniti
su una piattaforma comune, e quelli che lavorano in fabbrica hanno
sfilato insieme ai licenziati: il 1 ° maggio di fronte all’impianto
si Manesar, il 18 luglio a Gurgaon e ancora 3 agosto a Rohtak,
dandoci ancora più coraggio.
Le lotte dei lavoratori che continuano
in tutta la cintura industriale di
Gurgaon-Manesar-Dharuhera-Bawal-Bhiwadi traggono forza e influenzano
positivamente il nostro movimento.
Facciamo appello a tutte le forze e
individui che stanno dalla parte dei lavoratori a dare forza e
portare avanti la lotta per ottenere giustizia e mettere fine al
regime di sfruttamento e di repressione contro lavoratori e quelli
che ci difendono.
Comitato di lavoro provvisorio Maruti
Suzuki Workers Union
IMT Manesar, Gurgaon
Da Monde diplomatique: India. Giovani operai sfidano la Maruti Suzuki
Per attirare gli investitori in India, il primo ministro Narendra Modi propone di aumentare la flessibilità̀ lavorativa. Come dimostra l’importante sciopero del 2011-2012 alla Maruti-Suzuki, i giochi non sono del tutto fatti. Solidarietà̀ tra precari e dipendenti, rinnovamento sindacale: i giovani lavoratori resistono e sconvolgono il repertorio tradizionale della lotta in fabbrica.Sesto produttore mondiale con due milioni di autoveicoli costruiti nel 2013 (1), l’India spera di salire al quarto posto entro il 2016. La riforma del lavoro presentata a ottobre 2014 dal nuovo primo ministro Narendra Modi dovrebbe favorire un ritorno alla crescita pari a quella che il settore ha conosciuto negli anni 2000 (nell’ordine dell’8% l’anno in media). Essa impone la diminuzione degli ispettorati del lavoro, la «semplificazione» di alcune leggi, l’allungamento della durata dell’apprendistato, spingendo al ricorso sistematico a una mano d’opera non stabile e pagata meno (2). Queste misure sono in parte destinate ad attirare gli investitori stranieri, mentre la campagna del governo «Made in India» è al suo culmine. Esse rischiano di aggravare la precarizzazione che coinvolge l’industria da parecchi anni e che ha fatto emergere negli operai giovani pratiche e aspirazioni nuove. Il conflitto che ha scosso il costruttore Maruti-Suzuki nel 2011 e 2012, dove la mobilitazione persiste malgrado la durezza della repressione, funge sempre da modello.
La zona industriale di Manesar, sorta all’inizio del millennio, si estende ai bordi dell’autostrada che collega New Delhi a Jaipur, che si percorre in una nebbia di polvere e inquinamento, con i taxi collettivi (autorickshaws) che faticano a farsi strada tra i giganteschi camion. Tra un McDonald’s e un campo incolto dall’erba ingiallita, grandi cartelli pubblicitari annunciano la prossima nascita di un lotto di appartamenti – «lusso, calma e serenità̀». Una volta superata la nuova città di Gurgaon, polmone economico di New Delhi dove si costeggiano centri commerciali, call center, abitazioni private, fabbriche tessili e agglomerati operai, un cartello avvisa: «Benvenuti nella zona industriale modello». È in questa città rettilinea e senza alberi di Manesar che si trovano le nuove unità produttive della Maruti-Suzuki.
Nata sulle macerie dell’impresa di Stato Maruti Motors Limited, creazione del figlio del primo ministro Indira Gandhi, la società nel 1981 prende la forma di una joint-venture con la giapponese Suzuki Motors, società̀ straniera pioniera sul suolo indiano. Da questo partenariato pubblico-privato nasce la prima fabbrica a Gurgaon, dove si assembla la famosa Maruti 800, piccola utilitaria dalle forme angolose. In una situazione di quasi monopolio, l’impresa avvia allora la «rivoluzione delle quattro ruote»: commercializza dei motori a buon mercato accessibili alle classi medie-basse. Ben presto, le principali arterie urbane si riempiono di Maruti, simbolo dell’India moderna. Nel corso degli anni ’90, decennio della liberalizzazione dell’economia, lo Stato si disimpegna progressivamente fino alla privatizzazione completa nel 2007 in favore di Suzuki, che detiene il 54,2 % del capitale. Quell’anno a Manesar sono costruite delle linee di produzione supplementari progettate per diventare la fabbrica d’eccellenza del gruppo.
Dagli anni ’80 e per la prima volta nel mondo industriale indiano, il management di Maruti- Suzuki inculca la «cultura del lavoro» attraverso la puntualità̀, le scadenze rispettate, lo spirito di performance. La direzione applica il «toyotismo», ricette di gestione del personale elaborate dal gigante giapponese Toyota. Macchine timbra cartellini sono installate ai portoni di entrata, «anche per i direttori», precisa R. C. Barghava, presidente del gruppo Maruti e autore di un libro sulla sua storia (3). Gli operai arrivano quindici minuti prima per una serie di esercizi fisici obbligatori. Secondo il famoso principio del kaizen (messo a punto in Giappone), riunioni di emulazione collettiva, i «cerchi di qualità̀» ora diffusi complessivamente nel mondo dell’automobile intimano agli impiegati di proporre ciò̀ che potrebbe migliorare la produttività̀ giornaliera. Coloro che partecipano guadagnano in più̀ il privilegio di pranzare con il capo. Un solo sindacato è tollerato nell’azienda: il Maruti Udyog Kamgar Union (Muku), un sostituto della direzione impiantato nel sito storico di Gurgaon. La fabbrica di Manesar non dispone di alcun delegato.
Aperte nel 2007, le nuove unità sono edificate «sul modello della fabbrica di Kosai, in Giappone, per introdurvi un alto livello di automazione e le migliori pratiche di Maruti-Suzuki» s’inorgoglisce Barghava. Venuti dai villaggi vicini – molti precari tornano per la mietitura –, i circa quattromila operai lavorano sei giorni su sette, otto ore e mezza al giorno, senza contare il lungo tragitto in autobus e il quarto d’ora d’anticipo obbligatorio. Come lo raccontano Sateesh Kumar e Kushi Ram, rimossi nell’agosto 2012, «per i figli di contadini, era prestigioso entrare in Maruti. Ma la disillusione è stata veloce. Sulla catena di montaggio, la pressione è permanente. Abbiamo quaranta secondi per ogni automobile per effettuare le nostre verifiche. Ci prendono per dei robot! Quando il collega non arriva a dare il cambio, dobbiamo continuare, e non siamo pagati per gli straordinari».
I dipendenti rifiutano l’adesione al sindacato interno
Gli operai sanno ugualmente che i loro stipendi non raggiungono – e di gran lunga – quelli della fabbrica madre di Gurgaon, dove i lavoratori strutturati (in minoranza) guadagnano circa 30.000 rupie al mese (350 euro), una somma che talvolta vale loro il soprannome di «aristocratici della classe operaia». A Manesar, la quota fissa dei salari prima del 2012 era soltanto di 5.000 rupie (58 euro), con una retribuzione totale che raggiungeva in media 8.000 rupie (85 euro) per un interinale, e 17.000 rupie (200 euro) per un lavoratore fisso.
Qualche minuto di ritardo, e la direzione preleva la metà dello stipendio giornaliero. Un’urgenza familiare senza aver avvertito con anticipo, e quasi tutta la quota variabile scompare. «Gli errori sono registrati nelle lettere di richiamo. Se tu ne hai due o tre, allora non puoi diventare un lavoratore dal posto fisso», riferisce Bouddhi Prakash, operario presso Suzuki Powertrain, che produce motori Diesel e trasmissioni. L’intensificazione del lavoro e la differenza di status tra dipendenti fissi e interinali sono al centro del conflitto che scoppia nel 2011. Nel mese di giugno, quando Maruti-Suzuki annuncia il passaggio di ruolo per la metà soltanto dell’organico di Manesar, gli operai presentano all’amministrazione locale una domanda di iscrizione a un sindacato indipendente. Fin dal giorno dopo, la direzione spinge i dipendenti a firmare una dichiarazione che attesti la loro adesione al sindacato interno. Solo il 10% si piega all’intimazione, altri cominciano un sit-in. È l’inizio del movimento.
«Quando siamo arrivati, uscivamo tutti dagli stessi istituti tecnici. Assieme eravamo apprendisti in fabbrica, si sono creati forti legami di amicizia. Di colpo alcuni si sono ritrovati a essere di ruolo, altri sono rimasti precari, per lo stesso lavoro e per metà retribuzione», testimoniano Kumar e Ram. Oltre alle differenze di stipendio, gli interinali non hanno accesso agli autobus aziendali e al premio di Diwali (festa delle luci, equivalente al Natale). Provenienti da famiglie contadine povere, questi giovani tra i 20 e i 25 anni provano un misto di invidia e rivolta nei confronti del modo di vivere dei centri urbani e commerciali di Gurgaon ai quali non possono accedere. Ranjana Padhi, membro dell’organizzazione non governativa People’s Union for Democratic Rights (Pudr), analizza la mobilitazione come «il frutto di una forte consapevolezza di ciò che lo sfruttamento vuol dire, in un contesto dove la precarietà è la norma, mentre l’80% della mano d’opera era regolarmente assunta negli anni 1980. È ciò che ha fatto nascere questa solidarietà̀ inedita tra lavoratori fissi e precari». Un’unità favorita dall’occupazione della fabbrica, un metodo d’azione poco diffuso a Manesar, dove ci si raggruppa di solito davanti ai cancelli del sito senza entrarvi.
Dopo molte sospensioni e scioperi bianchi, la direzione decide la chiusura (lock-out) per trenta giorni per sciopero illegale con l’obbligo di firmare un impegno di «buona condotta» per poter tornare al lavoro. Sebbene i sindacati siano legali dal 1927, il diritto di sciopero non esiste in India, che non ha ratificato la convenzione dell’Organizzazione internazionale del la- voro (Oil) sulla contrattazione collettiva. Dopo nove mesi di lotte, nel marzo 2012, gli operai ottengono il riconoscimento del loro sindacato, il Maruti Suzuki Workers Union (Mswu). Non si era visto un tale braccio di ferro dal movimento contro la precarizzazione del 2005 presso il produttore della due ruote Honda Hero.
Tuttavia, poiché́ la direzione disdegna sempre le rivendicazioni, la tensione si accresce il 18 luglio 2012 quando un caporeparto insulta un operaio facendo riferimento alla sua appartenenza alla casta degli intoccabili e lo licenzia. Il conflitto degenera. Avnish Kumar Dev, direttore generale delle risorse umane, trova la morte nell’incendio di uno degli edifici. Sono arrestati centoquarantotto operai, tra i quali i dodici rappresentanti del nuovo sindacato. Il mese successivo, la direzione licenzia senza preavviso più̀ della metà del personale organico. «I lavoratori indiani non sono degli assassini, commenta l’esperto dei movimenti operai Djallal Heuzé. Si ricorre alla violenza quando non ci si può più esprimere altrimenti, quando il sentimento di ingiustizia è così forte che tutto esplode.»
A seguito della carcerazione dei dodici rap- presentanti sindacali, è stato costituito un comitato provvisorio per sostenerli e proseguire il lavoro di sindacalismo autonomo. La direzione di Maruti-Suzuki ha fatto delle concessioni. Ha risposto a molte rivendicazioni, predisponendo degli autobus per gli interinali, aumentando i loro salari del 25% e quelli dei lavoratori fissi del 75%. In particolare, ha annunciato l’abbandono progressivo del lavoro interinale, sostituito dal ricorso a lavoratori occasionali assunti direttamente dall’impresa. Questi operai usa e getta sono pagati un po’ meglio degli interinali, con 12.000 rupie (140 euro) al mese, ma sono rimossi ogni sei mesi e sostituiti da altri. Essi vengono da regioni più lontane, al fine di evitare i contatti con le persone licenziate e la solidarietà̀ con gli abitanti dei villaggi.
Nella primavera del 2013, la casa madre giapponese ha riorganizzato la direzione indiana e imposto due dei suoi – un amministratore aggiunto e un consigliere alle risorse umane. «In Giappone non ci sono stati scioperi durante gli ultimi cinquantotto anni. L’idea è di importare i metodi delle risorse umane del Giappone in India», rivela un dirigente nel giornale economico Mint (4). Per Suzuki, la posta in gioco è enorme: la multinazionale punta sull’Asia, e la fabbrica indiana è la più̀ redditizia delle sue filiali. Polmone economico della regione, indispensabile ai subappaltatori che impiegano circa trentamila operai nei quartieri popolari e nelle baraccopoli di Gurgaon, Maruti-Suzuki sa esercitare il suo potere presso le autorità̀ locali dello Stato dell’Haryana. Essa ha più volte brandito la mi-naccia della delocalizzazione, evocando allettanti proposte da altri Stati indiani. Allora il governo regionale ha usato il metodo forte.
Unione sacra tra giustizia, Stato e multinazionale
Un migliaio di poliziotti inviati dall’amministrazione locale sono appostati in modo permanente alla fabbrica di Manesar e all’interno dei suoi pullman. Sono state installate nuove videocamere. Fino a oggi, i centoquaranta operai, tutti accusati di omicidio, non hanno ottenuto la libertà provvisoria, un diritto ac-cordato di solito dopo alcune settimane di carcerazione. «L’incidente ha compromesso la reputazione dell’India nel mondo. Gli investitori stranieri temono di investire i loro capitali in India per paura dell’agitazione operaia», si può̀ leggere nel testo della sentenza dell’Alta Corte del Punjab, dove è stato trasferito il processo.
Nonostante quest’unione sacra tra la giustizia, lo Stato e la multinazionale, la gioventù̀ operaia non abbandona la sua rivendicazione di organi rappresentativi autonomi, indipendenti dalle confederazioni sindacali. Prima confederazione fondata nel 1920, la All India Trade Union Congress (Aituc), legata al Partito comunista indiano, è stata a lungo la più̀ influente sulla zona industriale Gurgaon-Manesar. «È molto istituzionalizzata e lontana dalla gente: i suoi dirigenti sono dei notabili anglicizzati, formati a risolvere i conflitti dinanzi ai tribunali», spiega Heuzé. Con la liberalizzazione dell’economia e l’arrivo delle imprese straniere, i sindacati confederali si sono ripiegati sulla funzione pubblica e su alcune imprese di Stato. Deboli nel settore privato, essi rappresentano solo i lavoratori dipendenti, tralasciando gli interinali che ormai costituiscono il grosso della mano d’opera. Dopo un tentativo di affiliazione alla All India Trade Union Congress, «gli operai hanno deciso di agire senza il suo avallo», spiega Nayan Jyoti, studente sindacalista e membro dell’organizzazione Krantikari Naujawan Sabha. Hanno dato vita a sessioni di autoformazione e a modalità̀ decisionali proprie, per essere rappresentati dai lavoratori della fabbrica piuttosto che da quadri esterni. Una mobilitazione che paga: nell’aprile 2014, il sindacato indipendente Mswu è stato eletto nelle due fabbriche, Manesar e Gurgaon.
(1) Cifre dell’Organizzazione
internazionale di costruttori di veicoli a motore, www.oica.net.
(2) Cfr. «Shramev Jayate: Modi govt
plucks some key low- hanging fruit for labour reforms», The Indian
Express, New Delhi, 17 ottobre 2014.
(3) R. C. Barghava, con Seetha, The
Maruti Story. How a Public Sector Company Put India on Wheels,
HarperCol- lins, New Delhi, 2010.
(4) Amrit Raj, «Maruti Manesar’s
Fallout: A Management Shuffle», Mint, New Delhi, 9 aprile 2013
Di Naïké Desquesnes, tratto da Le
Monde Diplomatique
(Traduzione di Monica Guidolin)
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