Si
potrebbe sintetizzare così, se non si avesse la certezza di mozzare i
numerosi spunti di riflessione, il messaggio emerso dal dibattito
pubblico tenutosi martedì 22 gennaio presso i Magazzini Popolari di Casal Bertone. Un dibattito che ha visto circa quindici interventi.
La fulminea estradizione di Cesare Battisti ha reso manifesta,
una volta di più, la piega impressa alle istituzioni dall’attuale
governo, un governo che, in assenza di prospettive di intervento
credibili rispetto alla crisi economica del paese, scatena la sua natura
coercitiva e autoritaria, creando prima, e mostrando come fosse un trofeo di guerra poi, la cattura del mostro di turno.
Il caso Battisti è una sintesi di tutto questo: arma di distrazione di massa, occasione di revisionismo storico, messaggio deterrente verso le potenziali nuove espressioni (anche solo) di dissenso.
Questo
è lo stato dell’arte che come militanti politici ci troviamo a
fronteggiare
quotidianamente in Italia. Una situazione che non trova soluzione di continuità, pur con modalità e forme differenti, a partire da quegli anni Settanta enormi protagonisti della pretesa di riscatto degli ultimi della società.
quotidianamente in Italia. Una situazione che non trova soluzione di continuità, pur con modalità e forme differenti, a partire da quegli anni Settanta enormi protagonisti della pretesa di riscatto degli ultimi della società.
Una situazione che, però, ha registrato un’accelerazione in termini di repressione, anche preventiva, verso i protagonisti delle lotte sociali a partire dall’ultimo ministro dell’interno targato Pd, quel Marco Minniti intestatario di un pacchetto legislativo
volto a irrigidire il piano giudiziario per chiunque manifesti
opposizione e alterità all’ordine costituito. È nel solco di questa
traccia che va letto il decreto Salvini,
traccia in cui si inserisce in maniera chirurgica (si pensi alla
reintroduzione del reato per blocco stradale), e dunque in piena
continuità con i suoi predecessori. Insomma, il buio in cui è caduto il paese non è certo il risultato degli ultimi mesi.
Su
questa base, richiamata da più interventi, si è sviluppata la ricca
discussione di martedì, riconducibile a tre filoni di ragionamento, così
come proposti nel lancio dell’iniziativa.
Un
primo carattere è sicuramente quello relativo alla richiesta di
amnistia per le compagne e i compagni ancora soggetti al regime
carcerario. Questa avrebbe un valore politico
altissimo in quanto riconoscimento della natura appunto politica, e non
criminale, della scontro (guerra di bassa intensità, secondo le parole
di Cossiga) esploso in quegli anni. Tuttavia, le difficoltà su questo
piano sono di due tipi: da una parte, la consapevolezza della quasi
impossibilità di vittoria finale, date soprattutto le condizioni in cui
ci troviamo a operare. Dall’altra, il silenzio sull’argomento dei prigionieri politici
direttamente interessati (quando non esplicitamente contrari). Se
allora non siamo nelle condizioni di portare avanti una campagna che
risulti efficace, il tema dell’amnistia può comunque diventare l’oggetto
di una battaglia di controinformazione e agitazione politica con
l’obiettivo di scardinare quel sistema ideologico più volte definito
«del pensiero unico».
Eccoci,
dunque, al secondo punto di raccolta: una controffensiva sul piano
storico-culturale, per riappropriarci dell’eredità della nostra storia, riscoprire la dignità espressa dalla lotta di classe, oggi del tutto in mano alla narrazione del
nemico. La memoria, si è detto, «va ricostruita sul campo», nelle
occupazioni, nelle lotte. C’è tutto un portato storico e politico da
dover recuperare, dalla libertà per i prigionieri politici, alle
pratiche di tortura, pratiche accertate da sentenze passate in giudicato
e che quindi rappresentano fatti incontestabili – confermate peraltro
anche da esponenti politici, come Giuliano Amato, il quale ha
riconosciuto quei processi come indegni di uno Stato democratico.
A tal proposito, quest’anno cade il cinquantenario della strage di piazza Fontana, primo evento (ma non prima bomba!) con cui si è soliti far cominciare quella “strategia della tensione”, e dunque della guerra di bassa intensità scatenata contro il movimento operaio che
segnerà incontrovertibilmente il periodo successivo, e su cui costruire
un ciclo di incontri proprio sulla natura dello scontro andato in scena
negli anni Settanta. Una ricostruzione, perciò, che abbia due obiettivi
principali: il rifiuto di ogni equiparazione con il terrorismo
stragista di matrice fascista e regìa statale,
e la connessione della nuova generazione alla storia delle lotte
politiche, sociali, sindacali, oggi, di nuovo, offuscate invece dalla
narrazione generata da chi quella guerra l’ha portata a casa.
Il
terzo e ultimo punto riguarda la condizione dell’agibilità politica in
questo presente. Condivisa la necessità di fare cose concrete e agire
sulle priorità, i punti maggiormente richiamati sono stati i seguenti:
l’abolizione dell’ergastolo e del regime del 41-bis; la riduzione
dell’area dell’illecito penale; lo scardinamento della logica coercitiva
e vendicativa in cui si muove lo Stato contemporaneo. Si è ricordato
come dal 2011 al 2017 la forza repressiva abbia prodotto più di 15 mila
casi tra denunce, arresti, fogli di via, obblighi di firma, ecc.,
direttamente riconducibili alle lotte sociali. Il principio che si sta
imponendo è quello della sacralità della proprietà privata in una sorta
di tentativo costituente che modelli la Costituzione a misura di
proprietari. A questo, vanno aggiunti quei mezzi giuridici di cui lo
Stato si sta dotando per impedire l’accumulo di forze organizzate capaci
di costruire una prospettiva di rottura dell’esistente: «è in gioco la legittimità del conflitto sociale». Due
articoli del Decreto Sicurezza che criminalizzano pesantemente forme di
lotta come i blocchi stradali e le occupazioni di edifici hanno questo
come obiettivo esplicito.
Il
portato della vicenda rimanda allo stato di emergenza di quegli anni,
diventato oramai elemento ordinario. Il nuovo ordinamento penale prevede
principi che fanno riferimento a quei processi politici, i cui
dispositivi, figli della logica dell’emergenza, sono ora strumenti
ordinari di difesa.
Che
fare, dunque? In assenza di un movimento di massa che possa sostenere
un ciclo di lotte, si è richiamata la necessità di istituire un
coordinamento di avvocati tramite cui rompere il muro di silenzio sullo
stato di repressione delle lotte di oggigiorno, sostenuti ovviamente da
quei militanti ancora attivi nella difesa della giustizia sociale.
Sul
piano della mobilitazione, invece, il lancio di un convegno,
indicativamente per giugno, sulla soppressione delle garanzie anche
minime garantite dalla costituzione, è parso come l’orizzonte su cui
lavorare nel breve-medio periodo. In un quadro europeo prossimo allo
stravolgimento (in Francia, l’eventuale vittoria della Le Pen potrebbe
emulare, sugli esuli, il “modello Bolsonaro”), l’allargamento del fronte
deve essere tale da includere tutte quelle soggettività in grado di
svolgere un ruolo nello scontro a favore dell’amnistia per le vittime
della repressione, e della depenalizzazione degli strumenti classici
della lotta sociale.
Come
comunisti, abbiamo il dovere sia di non farci illusioni circa lo stato
di cose presenti, ma anche di rimettere al centro il tema della
riconquista dell’agibilità politica necessaria al miglioramento delle
condizioni di quel blocco sociale che a tutt’oggi è, sì, frammentato, ma
che noi miriamo – prima o poi – a riorganizzare.
Noi Restiamo
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