La recente sentenza della corte d'Appello di Torino sul caso Foodora ha rilanciato in sede politica e sindacale il dibattito sui cosiddetti “riders” e sull’ipotesi di una nuova normativa che dovrebbe “finalmente” regolare il settore.
In realtà, a mio avviso, basterebbe cominciare a chiamare questi lavoratori con la denominazione italiana (fattorini), per rendersi conto che, forse, il fenomeno non è così nuovo come alcuni pretendono.
I fattorini sono stati inseriti sin dagli ‘30 in un decreto che specificava quali fossero le attività per le quali poteva esservi attività discontinua; quindi, come si dice ora, a chiamata; esattamente come i camerieri e decine di altre tipologie di lavoratori.
La grande differenza è che, oggi, a gestire e promuovere queste attività sono gruppi di grande dimensione, in genere internazionali che, con un uso mirato di specifiche tecnologie informatiche, da un lato si presentano sul mercato delle città medio-grandi quali mediatori tra numerosi ristoranti di qualità e utenti, dall’altro organizzano il lavoro dei fattorini in modo estremamente preciso e produttivo a mezzo dei sistemi di geolocalizzazione e comunicazioni in larga parte generate automaticamente da sistemi appositamente costruiti e che si autoadeguano a numerose variabili (Meteo, periodo dell’anno, ponti manifestazioni concorrenti ecc).
I fattorini, però, vengono “arruolati”, in genere collettivamente, sulla base di promesse di un lavoro sostanzialmente autonomo che può essere svolto nei ritagli di tempo. Dopo pochi mesi i fattorini si rendono conto, invece, di essere finiti in un ingranaggio sostanzialmente ancor più rigido di quello
della maggior parte delle attività operaie e che il lavoro è ad alta intensità e spesso disagevole.
Basti pensare che i picchi produttivi si hanno nei week end di maltempo.
Il salario invece è nettamente inferiore (circa la metà) a quello previsto persino dai vecchi vaucher.
In questo contesto è stato inevitabile che, dopo alcuni mesi di servizio, in varie parti d’Italia siano nati gruppi auto organizzati di lavoratori che hanno iniziato a mettere in discussione il sistema.
La sentenza torinese è frutto dell’iniziativa di uno di questi gruppi e rappresenta un primo passo, con l’adeguamento del trattamento economico e previdenziale a quello del contatto collettivo dei lavoratori della logistica, al “rientro nella normalità” di un settore esploso sul piano economico grazie ai grandi profitti che produce. Ricordiamo che la società che gestisce il sistema percepisce, oltre al marginale pagamento del servizio da parte del consumatore finale, percentuali di circa il 25% del prezzo dei pasti da parte del ristoratore in favore del “mediatore”.
La sentenza è comunque importante perché evidenzia che il sedicente “nuovo” è, in realtà, il vecchio sistema di di sfruttamento del lavoro marginale gestito con l’ausilio di tecnologie informatiche e presentato con rutilanti pubblicità on line.
Sull’onda della sentenza è, appunto, ripreso il dibattito che, secondo me, ancora una volta, non centra il problema.
A pochi giorni dall’insediamento il Ministro del lavoro aveva garantito che entro un mese sarebbero state emanate norme in tutela dei “riders”, naturalmente ciò non è successo per la fermissima opposizione… delle imprese del settore.
Tutto si è impantanato e, anche sindacalmente, non è stata superata la questione circa la natura autonoma o subordinata di questi rapporti di lavoro.
Oggi qualcuno, tra cui il Ministero del lavoro, si ripresenta alla ribalta ipotizzando (in un paio di mesi) l’introduzione per legge del salario minimo nazionale.
Ma cosa c’entra?
Voglio sperare che non si pensi di introdurre tale istituto per i soli fattorini. Come dice la Corte d’Appello di Torino per loro va benissimo il contratto nazionale della logistica e non si vede la necessità di una diversa quantificazione del salario e del trattamento previdenziale che con ogni probabilità risulterebbe inferiore a quella riconosciuta dalla sentenza. Se, per assurdo, si immaginasse invece un trattamento economico superiore questo risulterebbe del tutto illogico e discriminatorio nei confronti dei “normali” lavoratori del settore logistica per i quali varrebbe il trattamento previsto dal contratto collettivo.
Men che meno avrebbe senso cogliere l’occasione per introdurre in modo affrettato il salario minimo per tutte le categorie.
Il sistema italiano è molto più complesso di quello della maggior parte degli altri paesi industriali.
In termini molto generali sono i contratti collettivi nazionali che stabiliscono i minimi retributivi per i vari settori.
Ma i contratti collettivi sono stipulati da parti private (sindacati e associazioni padronali) e, per ragioni di ordine costituzionale, non possono essere estesi dalla legge nei confronti di tutte le imprese di un determinato settore produttivo.
Ricordiamo tutti il recente caso della Fiat che, per sottrarsi all’obbligo di dare applicazione al contratto dei metalmeccanici, è uscita da Confindustria e, successivamente, ha contrattato un suo accordo collettivo nazionale.
Quindi un salario minimo legale che generalizzi i minimi retributivi previsti dai vari contratti è giuridicamente impossibile.
E allora? O siamo di fronte ad un “sofisticato” progetto che punta a eliminare i contratti collettivi nazionali, con lo specchietto del salario minimo legale (inferiore a quello previsto dai contratti), incentivando di fatto le imprese ad abbandonare le loro associazioni, per liberarsi così dai vincoli contrattuali, con ciò di fatto abbassando i salari, o si tratta di chiacchiere.
Visti i precedenti, spero che l’ipotesi corretta sia la seconda.
Sergio Bonetto
DALL'INTERVENTO DI PROLETARI COMUNISTI
"...mentre i padroni, si danno da fare per abbassare i salari degli operai, escono su Sole 24 Ore (giornale della confindustria) articoli sulla positività, convenienza per le aziende stesse di fissare per legge un "salario minimo", al di sotto del quale le aziende non potrebbero andare.
Un primo paradosso è che questa proposta viene presentata come favorevole agli operai e di conseguenza in controtendenza alla politica del padronato per cui nei suoi desideri (e sempre più spesso nella realtà) non c'è un limite all'abbassamento dei salari molto al di sotto delle retribuzioni in corso, già risicate. In realtà non è così, perchè questa proposta di "salario minimo" ha l'unico scopo di dare legittimità di legge al padronato per tagliare i salari e pagare retribuzioni al di sotto di quelle dei CCNL.
Uno di questi articoli "esemplari" è quello uscito il 26 gennaio di Fabrizio Galimberti, intitolato "Il "salario minimo" fa bene al lavoro". Ne riportiamo alcuni stralci:
"Bisognerebbe pagare a chi lavora almeno un salario minimo? Ci dovrebbe essere una cifra - che so, 5 euro all'ora - al di sotto della quale sarebbe illegale pagare i lavoratori? Suppongo che voi, pensando al vostro futuro di lavoratori, non avreste dubbi a dire di sì: non vogliamo essere sfruttati, ci dovrebbero dare almeno x euro... Ed è giusto che lo Stato, in una situazione in cui il potere negoziale dei datori di lavoro è superiore a quello dei lavoratori (vista la crisi che c'è in giro), si preoccupi di piantare un paletto per stabilire un livello di compenso al di sotto del quale non è giusto andare."
Già la premessa è tutta un programma: "pagare almeno un salario minimo", che qualche rigo dopo viene chiamato "compenso".
Intanto chiariamo, contro chi vuole offuscarne la vera natura, cos'è il salario, cosa percepisce l'operaio. Il salario è il prezzo dei mezzi di sostentamento necessari a riprodurre la forza-lavoro dell'operaio, in questo per il capitalista la forza-lavoro è come una qualsiasi altra merce il cui prezzo è stabilito sulla base del tempo medio/sociale necessario alla sua produzione; ma l'operaio è una merce speciale che dopo aver lavorato per un tempo x per riprodursi (lavoro necessario) continua a lavorare gratis per il padrone e quindi a produrre plusvalore.
Quindi intanto il salario non è un "compenso" dato dal capitalista per il "lavoro fatto dall'operaio", ma il pagamento del tempo che serve all'operaio per riprodursi come merce forza-lavoro. Quindi stando alle loro stesse leggi capitalistiche, le aziende dovrebbero "almeno" pagare il salario corrispondente al tempo necessario per la produzione dei beni, in condizioni sociali date, che servono all'operaio per tornare il giorno dopo, il mese dopo a lavorare per il capitale.
Invece, qui si dice che "almeno" i capitalisti devono pagare un "salario minimo", senza minimamente vergognarsi che questo salario è anche fuori dalle stesse leggi del capitale. Qui siamo già nella illegalità - non è che l'illegalità c'è solo se le aziende vanno al di sotto del "salario minimo".
Ma per F. Galimberti, solo e soltanto, quando e se le aziende pagassero meno dei 5 euro l'ora di "salario minimo", allora gli operai dovrebbero esclamare "Sì, non vogliamo essere sfruttati..." - come se fino a 7/8 o anche 10 euro/dollari (come per es. ora dice Obama) non ci fosse sfruttamento.
E il Galimberti chiama lo Stato a ratificare per legge questa illegalità di rapina da parte dei padroni anche sul lavoro necessario dell'operaio.
Certo, i padroni, i loro economisti non hanno limite alla rapina sul salario, per cui tutto l'articolo si snocciola nel convincere i padroni che questo "salario minimo" gli conviene...
"La prima obiezione che farebbero - scrive Galimberti - è questa: se si introduce un salario minimo si perdono posti di lavoro... Certamente - continua - si tratta di una norma che interferisce col libero mercato. Non esiste un prezzo minimo per le patate o il taglio dei capelli o il biglietto del cinema. Perchè allora esiste questa norma per il lavoro?...".
Appunto, perchè se la forza-lavoro è, quando il padrone la prende dal "mercato", una merce come tutte le altre nel sistema capitalista non deve "almeno" essere pagata con le stesse leggi delle altre merci?
Il "libero mercato" è solo per il capitale che punta a trovare sul mercato, mondiale, il costo della forza lavoro alle condizioni salariali e normative a lui più favorevoli - e in generale solo la lotta degli operai in varie fasi ha messo un argine alla ricerca del "massimo ribasso" - sia dettando e utilizzando le leggi ai suoi governi, sia, soprattutto nella fasi di crisi, utilizzando l'arma dei licenziamenti e l'aumento della massa dei disoccupati; per gli operai non c'è un "libero mercato" ma solo la legge dello sfruttamento.
Ma il nostro giornalista insiste: vediamo negli altri paesi, il "salario minimo ha danneggiato o no l'occupazione? La risposta è in generale favorevole all'introduzione di un livello minimo di salario..."
E spiega poi il perchè: “Mettiamo che in un mercato libero il salario che si verrebbe a creare spontaneamente, per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, sia di 6 euro l’ora. Ma nella realtà – sempre una realtà lasciata a se stessa – si riscontrano salari di 5 euro l’ora. Perché? Perché ci sono degli “attriti” nel mercato del lavoro. Se un lavoratore vuole lasciare un posto che rende poco e cercarne un altro, ci sono costi legati a questa ricerca: deve darsi da fare, chiedere a destra e a sinistra… Allora, data l’esistenza di questi costi, rimane dov’è e al datore di lavoro rimane il vantaggio di pagare 5 euro per un’ora di lavoro che, in un mercato privo di “attriti”, costerebbe 6. Ecco che in quel caso lo Stato sarebbe giustificato a introdurre un salario minimo di 6.
Ci possono poi essere altre ragioni: per esempio, con un salario minimo più alto ci sono maggiori costi per l’impresa ma anche più vantaggi. Se il lavoratore è più contento, ci sarà meno andirivieni nella forza lavoro: dover frequentemente assumere e formare lavoratori è un costo e una noia per l’impresa. Insomma, il salario minimo, purché fissato a livelli adeguati… può far più bene che male”.
Galimberti per rispondere all'obiezione per cui "un salario minimo ridurrebbe l'occupazione", utilizza argomentazioni che non hanno alcuna base scientifica e che vogliono unicamente affermare la legittimità di un salario minimo per permettere, via legge, ai padroni di poter tagliare i salari (ma fino ad un certo punto... - visto che lo Stato deve pur sempre tener conto dell'interesse generale dei capitalisti e non di quello particolare di uno o pochi capitalisti...).
Con queste premesse di argomentazioni le conclusioni (per cui accettando un salario minimo si difende l'occupazione), sono solo nella testa di Galimberti non nella realtà.
Per arrivare a queste conclusioni il giornalista usa affermazioni del tipo "il salario si verrebbe a creare spontaneamente, per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro" - affermazioni che non stanno nè in cielo nè in terra.
Il nostro uomo dà una rappresentazione di un mercato in cui conterebbero solo le "libere volontà" del capitalista e del lavoratore, in cui entrambi avrebbero uguale "libertà"; il nostro uomo nasconde che le oscillazioni che ci possono essere tra domanda e offerta sul salario sono minime, legate a fasi del sistema capitalista, ma ruotano sempre intorno al valore della forza-lavoro stabilito dal prezzo dei beni necessari per la sua riproduzione (prezzo, ripetiamo, anche a sua volta stabilito dal tempo di lavoro per produrre quei beni).
Il nostro uomo chiama "attriti" (?) nel mercato del lavoro, i mezzi vari e anche violenti che il capitalista (sia singolo, sia come classe generale) utilizza per abbassare o direttamente o indirettamente il salario.
Il nostro uomo rappresenta la situazione di un lavoratore che smetterebbe di "darsi da fare, chiedere a destra e a sinistra" per cercare un lavoro più remunerativo solo per stanchezza, ma che avrebbe (se non si stancasse presto) tutta la possibilità di andarsene da un'azienda e scegliersi un altro lavoro - alla faccia di tutti i lavoratori che soprattutto oggi, nella crisi, vengono cacciati (non che se ne vanno) dal loro posto di lavoro se non accettano i tagli al salario e ai diritti, e vanno ad ingrassare la marea di disoccupati.
Per non parlare poi della descrizione del capitalista che avrebbe tanto interesse che "il lavoratore sia più contento (perchè così) ci sarà meno andirivieni nella forza lavoro: (visto che) dover frequentemente assumere e formare lavoratori è un costo e una noia per l’impresa"; un capitalista che rinuncerebbe a licenziare i lavoratori e a prendere altri a cui potrebbe dare un salario più basso soprattutto per "noia" - alla faccia dei piani concreti del capitale che invece si muove eccome, fa "andirivieni", licenzia qui e occupa all'estero per tagliare i costi del lavoro - e non gliene può fregar di meno se il lavoratore è "contento" o no.
ALLA FINE, TUTTA QUESTA "LEZIONE" E' SOLO PER FISSARE UN SALARIO MINIMO, NON PER I PADRONI, PER GLI OPERAI!
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