Sandra
Berardi
– Associazione Yairaiha Onlus
Negli
ultimi anni sembrano essersi moltiplicati gli episodi di aggressioni
nelle carceri ai danni del personale di polizia penitenziaria.
Nell’ultimo anno, in particolare, non passa giorno senza che esca
un comunicato a firma di un qualche sindacato di polizia
penitenziaria in cui vengono denunciate violenze e aggressioni ai
danni degli agenti o, addirittura, tentativi di rivolte dei detenuti.
E altrettanto spesso notiamo che le notizie relative a questi episodi
vengono salutate entusiasticamente da molti attivisti e rimbalzate
sui social, sicuramente in buona fede, quasi ci trovassimo in altra
epoca storica e gli articoli fossero volantini ciclostilati narranti
conflitti reali. Il leit motiv di quasi tutti gli articoli che
quotidianamente leggiamo, veri o falsi che siano, verte su alcuni
aspetti particolari come la sorveglianza dinamica, i detenuti
stranieri, il rischio radicalizzazione e la riapertura di Pianosa e
l’Asinara. “La
spirale di violenza nelle carceri (..) continua senza tregua, la
ormai cronica carenza degli organici di Polizia Penitenziaria, ad xxx
come altrove, espongono a gravi rischi l’incolumità degli Agenti,
per
non parlare
della
sorveglianza dinamica
con conseguente apertura indiscriminata dei detenuti che ha
fatto lievitare il numero degli eventi critici nelle carceri.”
Oppure:
“Una
rissa tra carcerati, così violenta che sono rimasti feriti due
agenti della polizia penitenziaria. Un fatto grave, secondo il
segretario regionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (il
Sappe), Alfonso
Greco:
“Detenuti italiani e stranieri si sono picchiati con violenza (….)”
Così,
invece, Donato
Capece:
“Negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata dei detenuti
stranieri nelle carceri italiane, passati a oltre 20mila presenze.
Sollecitiamo il Governo e il Ministro della Giustizia su questa
situazione critica. Far
scontare agli immigrati
condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la
pena nelle carceri dei Paesi d’origine può essere un forte
deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia.
(…) E
credo si debba iniziare a ragionare di riaprire le carceri dismesse,
come l’Asinara e Pianosa, dove contenere quei ristretti che si
rendono protagonisti di gravi eventi critici durante la detenzione”.
Questi
sono solo alcuni recenti esempi, ma basta aprire un qualsiasi motore
di ricerca ed inserire come chiave di ricerca le parole “aggressione
carcere” per poter leggere la quantità e la qualità di agenzie
che ogni giorno vengono battute. Tra i siti ricorrenti spiccano
quello del Sappe, della Polizia penitenziaria, di Fratelli d’Italia
con un Cirielli in gran rispolvero (ricordate? Quello della
ex-Cirielli che raddoppiava la pena sulle recidive) e infine gli
hastag della lega #ciminalingalera e #bastaclandestini che
campeggiano in post inneggianti forche e galere per tutti e in
presidi di solidarietà alla bistrattata polizia penitenziaria. La
diramazione serrata di comunicati di questo tenore inizia
all’indomani dell’introduzione della cd “sorveglianza
dinamica”, misura obbligata dalle numerose raccomandazioni del CPT,
dalle Regole penitenziarie europee e dalle sentenze di condanna verso
l’Italia da parte della Corte europea per trattamenti inumani e
degradanti che si perpetravano (e si perpetrano ancora oggi) ai danni
dei prigionieri in Italia. Con la circolare
PU-GDAP-1a00-29/01/2013-0036997-2013, il Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria, realizzava i “circuiti
regionale ex art.115” in base al d.p.r. 30 giugno 2000 n. 230 con
cui assumeva <<l’impegno
ineludibile, considerate anche le ricorrenti pronunce della Corte di
Strasburgo di condanna dell’Italia per trattamento inumano e/o
degradante>>.
Questi
alcuni punti descriventi la sorveglianza dinamica che prevedono
l’introduzione graduale in tutte le carceri ma, di fatto fermatasi
ad alcune sezioni di pochi istituti:
4.2.
– L’adozione in taluni istituti, o sezioni di esso, del cd.
“regime aperto”, non può significare che nelle rimanenti
strutture, in particolar modo in quelle a Media Sicurezza, si possa
ammettere, all’inverso, un “regime chiuso”, intendendo, con
questo, una contrazione degli spazi e dei momenti di socialità della
popolazione detenuta.
4.3.
– II trattamento nelle sue diverse accezioni va rafforzato in tutti
gli istituti sviluppando una diversa, e più ampia, articolazione e
utilizzazione degli spazi ove concentrare le attività indicate
dall’art. 16 reg.to esecuzione 230/2000 (o anche i servizi quali i
locali mensa ex art.13 e. 3 stesso regolamento) di modo che i
detenuti vi possano trascorrere una parte via via maggiore della
giornata così da agevolare non solo l’intervento delle
professionalità dell’area pedagogica e della società esterna, ma
anche il controllo da parte della polizia penitenziaria.
4.4.
– L’asserita carenza di personale, che ove riconosciuta valutando
la tipologia dell’istituto e la forza presente si cercherà di
limitare con le future assegnazioni, non può essere considerata
motivo per procrastinare l’apertura dei reparti o per limitare le
attività trattamentali.
Ma
prima ancora, già in fase di elaborazione, le resistenze da parte
dei sindacati di polizia penitenziaria si fecero pressanti tant’è
che nel 2011, Massimo de Pascalis (all’epoca direttore
dell’ISSP-DAP) in una lettera aperta indirizzata all’allora
segretario della UIL penitenziaria, ne spiegava la natura insistendo
su uno dei principi cardine dei regimi aperti: liberare la custodia
dall’ossessione del controllo. <<“Sorveglianza dinamica”
quindi significa recuperare il senso “della conoscenza del
detenuto” secondo la volontà del legislatore del 1975 ed eliminare
perciò tutte le procedure che la prassi ha fatto consolidare intorno
ad un’esigenza deviata: il “controllo assoluto del detenuto”.
La sorveglianza dinamica richiede, pertanto, interventi correttivi
sul piano organizzativo e gestionale dell’area della sicurezza per
creare strumenti utili ai processi di conoscenza e, in tal modo,
qualificare meglio i compiti istituzionali della polizia
penitenziaria, a beneficio della sicurezza ma anche del trattamento.
E, tra questi, anche la custodia può essere finalizzata e partecipe
di quei processi, se liberata dall’ossessione del controllo
assoluto della persona.>> Con il “regime aperto” si
contrappone al controllo totale del detenuto la conoscenza della
persona detenuta cercando di dare dignità pedagogica alla funzione
del poliziotto penitenziario prima di quella di mero controllore. Ma
è esattamente questo il principio che le forze di polizia
penitenziaria avversano registrando il “dover liberare la loro
funzione dall’ossessione del controllo assoluto sulla vita dei
prigionieri” come perdita di potere. Il “regime aperto” quindi
come perdita di potere da una parte, la loro e, di contro,
acquisizione di diritti e, di conseguenza, potere, da parte dei
detenuti. Una vera e propria debacle dal loro punto di vista. Oggi i
sindacati penitenziari rivendicano orgogliosamente di aver
contribuito alla scrittura del contratto di governo tra Lega e M5S
incentrata sull’ossessione del controllo assoluto e sulla chiusura
di tutti gli spazi di confronto e crescita dati dalla presenza del
volontariato. Tornare al pugno di ferro, agli anni (bui) di Pianosa e
l’Asinara, avere, finalmente, le “mani libere” sono i desideri
espliciti di buona parte della polizia penitenziaria. Ma per
legittimare le ossessioni bisogna creare le condizioni ideali,
bisogna creare l’emergenza ad uso e consumo dell’obiettivo dato.
In un sistema chiuso e pressoché impenetrabile qual è il carcere
diventa gioco facile costruire notizie e allarme: nessuno può
smentire. I detenuti in quanto tali non sono degni di esser creduti e
altrettanto i familiari, i (pochi) volontari sono obbligati
all’omertà, pena revoca dell’autorizzazione. La Magistratura di
Sorveglianza, che pure dovrebbe garantire la correttezza
dell’esecuzione penale
(e se così fosse, verrebbe meno anche la necessità dei garanti), ha
pressoché rinunciato alle proprie funzioni e poteri riducendo il
proprio ruolo a firmacarte. Chi resta? I garanti? Ma anche
loro, nonostante il lavoro encomiabile, rispetto ai dati delle
emergenze reali nelle carceri (sovraffollamento, malasanità,
malagiustizia in primis), arrivano a monitorare solo una parte delle
strutture e solo per il tempo limitato della visita o, ancora, solo a
posteriori nel caso di suicidi o eventi critici. I parlamentari?
Questi sconosciuti che avrebbero il diritto/dovere di
ispezionare le carceri a sorpresa ma non lo esercitano e nel migliore
dei casi si limitano a mere visite di cortesia preannunciate e
pilotate. Unica eccezione, attualmente, l’europarlamentare Eleonora
Forenza. Nei primi giorni dell’attuale governo circolava fin’anche
la proposta di revoca del potere ispettivo delle carceri per i
parlamentari. Il paradigma securitario e totalizzante costruito negli
ultimi 30 anni attorno ad “emergenze” vere, presunte e/o
pilotate, ha via via affinato sempre più gli strumenti di controllo
penale della società fino a modellarli aprioristicamente in base
alle contingenze storiche e socio-economiche, anche attraverso
campagne mediatiche mirate a tracciare il profilo del “nemico”
sociale di turno che, quasi sempre, finisce col creare la
stigmatizzazione di uno specifico gruppo sociale, dei modus operandi
a questo destinati e dei risultati attesi. Tale dispositivo è ben
visibile, e raffrontabile, tanto sul piano penale che su quello
dell’accoglienza. Su entrambi i piani i media focalizzano
l’attenzione su numeri “emergenziali” dei fenomeni criminali e
migratori, mentre i dati statistici smentiscono nettamente le
emergenze propagandate salvo, appunto, enfatizzare singoli episodi
eclatanti; la mostrificazione del “regime aperto” e delle misure
alternative nelle carceri e dell’accoglienza dei profughi
attraverso campagne disinformative serrate tese a dimostrare il
fallimento e la pericolosità di questi modus operandi da “buonisti”,
nonostante i risultati straordinariamente positivi ottenuti presso
altre, a questo punto, civiltà avanzate. Per quanto riguarda i
risultati attesi dal sistema penale e di accoglienza, se fino a
qualche anno fa un certo garantismo ne caratterizzava i presupposti,
almeno sulla carta e parzialmente nell’esecuzione, oggi si punta
all’abolizione tout court del soggetto in quanto portatore di
diritti e destinatario di azioni tese a garantirne una effettiva (ri)
socializzazione e/o integrazione. Le parole d’ordine che oggi
ruotano insistentemente attorno alla detenzione e all’accoglienza
sono “certezza della pena/pena sempre certa” (andando a
mistificare quanto già di fatto avviene) e “tolleranza zero/basta
sbarchi”. L’introduzione del taser nelle città e nelle carceri,
così come l’introduzione del reato di legittima difesa/difesa
sempre legittima o, ancora, la volontà di cancellare la “bufala”
del reato di tortura e l’introduzione dei sistemi di controllo
nelle scuole, vengono qua solamente annotate sebbene parte integrante
dello Stato penale che stanno costruendo i mercanti della (in)
sicurezza. Infine viene invocata l’Europa con la medesima formula a
“casa loro”, in merito all’accoglienza e alla costruzione di
nuove carceri: se l’Italia continuerà ad essere costretta ad
accettare i vincoli normativi europei e le sentenze di condanna
emesse da Strasburgo per le continue violazioni dei diritti umani
anche, e soprattutto, in materia penitenziaria si potrebbe assistere
ad una sorta di Brexit giuridica e liberarsi una volta per tutte dal
fardello del diritto internazionale.
La
costruzione della comunicazione, oggi più che mai, mira quindi
all’eliminazione di alcuni modus operandi penitenziari primo, fra
tutti il “regime aperto”, con tutto il portato di apertura delle
celle e al territorio che, per i cultori dell’istituzione totale,
nell’era della certezza della pena esclusivamente carceraria,
rappresenta un pericoloso occhio critico di controllo del
controllore. Da questa riflessione l’invito ad evitare di
enfatizzare notizie di rivolte o aggressioni in quanto costruite con
l’unico obiettivo di occultare sempre più il carcere, e l’umanità
che vi è rinchiusa, alla società “libera”. Processo questo
iniziato con l’abolizione delle esecuzioni in pubblica piazza sul
finire del ‘700 perché la “spettacolarizzazione” della morte,
in una società che mutava rapidamente, poneva lo spettatore quasi in
empatia con il condannato, ed arrivato ai giorni nostri dove le
carceri vengono costruite nelle periferie, la pena di morte è stata
trasformata nella più discreta pena fino alla morte e
l’applicabilità del regime di isolamento, da cui ne deriva
l’esclusione totale da qualsiasi contatto umano, viene estesa anche
ai minori.
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