Il gruppo Sider Alloys di Lugano ha acquisito lo stabilimento ex Alcoa di Portovesme, in Sardegna, il più importante impianto italiano per la produzione di alluminio primario. L’accordo è stato firmato il 15 febbraio presso il ministero per lo sviluppo economico (Mise), a Roma, e coinvolge Invitalia, l’agenzia italiana per gli investimenti. È stato annunciato un investimento di 135 milioni di euro per far ripartire la produzione: ma saranno in gran parte anticipati da Invitalia. I lavoratori della ex Alcoa, che da quasi quattro anni presidiano lo stabilimento per impedirne la chiusura, ora sperano di tornare al lavoro. Portovesme però è uno dei siti più inquinati d’Italia, in attesa di bonifica per rimediare a quarant’anni di scarichi industriali incontrollati. Tra le ragioni della salute ambientale e quelle del lavoro rischia di scoppiare un nuovo conflitto.
Solo trecento metri separano le ultime case di Portoscuso e i primi impianti della zona industriale. La strada passa sotto un ponte di nastri trasportatori, costeggia un deposito scoperto di minerali, supera la centrale termica dell’Enel e prosegue per cinque o sei chilometri tra giganteschi serbatoi, capannoni, un deposito di carbone a cielo aperto. Portoscuso è un comune di cinquemila abitanti sulla costa della Sardegna sud-occidentale, nella regione del Sulcis. La sua zona industriale, chiamata Portovesme, è una
delle più grandi dell’isola. Nata a fine anni ’60, è un insieme di impianti in cui si svolgeva l’intero ciclo di produzione dell’alluminio, dalla polvere di bauxite fino ai prodotti finali, oltre a una fabbrica di zinco, piombo e acido solforico. Quando lavorava a pieno ritmo qui il panorama era dominato dal nero del carbone scaricato nel porto e dal rosso della bauxite che volava dal nastro trasportatore, dal viavai di camion, e da un impressionante bacino rossastro: 125 ettari di scarti della lavorazione della bauxite, depositati a partire dal 1978 e separati dal mare solo da una lingua di sabbia finissima. Oggi le ciminiere continuano a dominare la costa. Anche il bacino dei fanghi rossi resta là, ma le tracce di attività sono rare. I capannoni mostrano la ruggine. Resta in funzione la centrale Enel a carbone: ma per giorni non produce neppure un chilowattora perché non avrebbe a chi venderlo, tanto più che la stessa Enel ha disseminato la zona di pale eoliche per il fabbisogno locale. È attiva anche l’ex fabbrica di zinco e piombo, la Portovesme Srl, ma lavora solo rottame e “fumi d’acciaieria”, cioè scarti della lavorazione dell’acciaio da cui trae una (piccola) parte di metalli e una parte consistente di reflui. Il ciclo dell’alluminio invece è fermo dal 2012; solo pochi addetti accudiscono gli impianti nell’attesa di un rilancio.
Le istituzioni regionali e il governo italiano promettono da anni di rilanciare l’area di Portovesme: trovare un acquirente per la ex Alcoa è stato il primo passo. Secondo il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, l’obiettivo è «rimettere il Sulcis in condizione di fare il ciclo completo dell’alluminio». L’Italia oggi importa alluminio, ha sottolineato il ministro; l’impianto acquisito da Sider Alloys potrà produrre a regime 150mila tonnellate l’anno, circa il 15 per cento del fabbisogno nazionale. Anche la vecchia Eurallumina, oggi di proprietà del gruppo russo Rusal, promette di investire 200 milioni di euro per riprendere le attività, con un piano che prevede però di ampliare il famigerato bacino dei fanghi rossi e costruire un proprio impianto a carbone per generare vapore. È questo il paradosso di Portovesme. Rilanciare il polo industriale porterebbe lavoro in una zona depressa: il Sulcis conta 38mila disoccupati su 130mila abitanti. Ma porterà anche altro carbone e nuove discariche industriali in una zona ad “alto rischio di crisi ambientale”.
Negli anni ‘80 i primi segnali
La crisi ambientale a Portoscuso scoppiò quando uno studio dell’università di Cagliari rivelò che gli scolari della prima media avevano quantità allarmanti di piombo nel sangue. Era il 1988: «Ci parlarono di “danno biologico accertato”», ricorda Angelo Cremone, allora operaio specializzato alla Alsar (poi divenuta Alcoa) e padre di uno di quei bambini. La zona industriale a quel tempo occupava oltre diecimila persone, era il primo datore di lavoro nel Sulcis. Ma scoprire che le fabbriche stavano avvelenando i propri figli fu uno shock. «Capimmo che ci nascondevano i fatti» spiega Cremone.
È nato allora un comitato di cittadini. Furono anni di proteste, denunce, ordinanze comunali. Cittadini e lavoratori erano egualmente coinvolti: un caso raro nell’Italia di allora, dove si moltiplicavano i conflitti tra il nascente movimento ambientalista e le organizzazioni dei lavoratori.
«Gli abitanti di Portoscuso cominciarono a capire cosa volesse dire un’area industriale così vicina alle case», ricorda il dottor Ignazio Atzori, allora ufficiale sanitario e assessore all’ambiente.
Oggi Atzori è vicesindaco di Portoscuso e ha di nuovo la delega all’ambiente (nei primi anni Duemila è stato anche sindaco); lo incontro negli studi dell’Azienda sanitaria locale. Spiega che in quei lontani anni ’80 erano già comparsi segnali di allarme, nel vino e nei formaggi locali erano stati trovati piombo e fluoro: «Allora però se ne parlava più che altro in termini di risarcimenti».
Oggi sembra una follia mettere discariche in riva al mare e depositi di carbone accanto alle case. «Ma allora queste considerazioni non si facevano», osserva Atzori. «Le miniere dell’Iglesiente avevano appena chiuso, la zona era segnata dalla crisi. Su tutto prevaleva la necessità del lavoro, ai giovani non restava che emigrare. Così, nei primi anni ’70 tutti accolsero con grande favore la decisione di ubicare qui una nuova zona industriale».
Nel 1993 il governo dichiarò Portoscuso zona “ad alto rischio di crisi ambientale”. Arrivò il primo piano di disinquinamento, finanziato con 200 miliardi di lire. Più tardi (nel 2001) il ministero dell’ambiente incluse Portoscuso-Portovesme nel più ampio “Sito di interesse nazionale” del Sulcis-Iglesiente-Guspinese, con più di 200mila abitanti in 29 comuni, una superficie di 620 km2 a terra e 900 km2 di mare, e una gran quantità di vecchie miniere, fabbriche e discariche.
Alimenti contaminati
Da allora l’aria a Portoscuso è migliorata: crollata la produzione industriale, sono venute meno anche le emissioni. La bonifica però non è mai stata completata. Nei terreni e nelle falde idriche un inquinamento profondo continua a contaminare la catena alimentare, con grave danno per gli abitanti (vedi riquadro a pagina 8). A Portoscuso non si può consumare il latte delle pecore e capre che brucano nei dintorni, né mangiarne la carne, né raccogliere mitili e crostacei o vendere frutta e verdura: la Asl locale raccomanda soprattutto di non farli mangiare ai bambini. Nelle polveri sottili ci sono piombo e cadmio. Il terreno è impregnato di metalli pesanti. La falda sotto Portovesme è un concentrato di veleni, secondo l’ultima relazione dell’Agenzia regionale per l’ambiente diffusa nel giugno 2017: i campioni prelevati nell’area industriale rivelano arsenico, cadmio, fluoro, piombo, mercurio, tallio, zinco e idrocarburi policiclici aromatici, tutto in quantità centinaia di migliaia di volte oltre i limiti. Sostanze tossiche, neurotossiche, cancerogene.
«Il problema è che i soldi stanziati negli anni ’90 sono quasi finiti, ma gli interventi di bonifica non sono affatto conclusi», spiega Atzori. Parla delle strade rurali e urbane che nei primi anni Settanta erano state pavimentate con scorie di piombo e zinco della Samim (Eni): «Stiamo ripulendo perfino la strada davanti alla scuola materna».
Quanto all’area industriale, la Regione Sardegna afferma che sono in corso interventi di messa in sicurezza e bonifica per oltre 230 milioni di euro tra investimenti e costi operativi, a carico delle aziende in base al principio chi inquina paga. Alla fine del 2017, dopo anni di gestazione, è stato approvato un progetto di “barriera idraulica” per mettere in sicurezza la falda idrica sotto a Portovesme: si tratta di pompare l’acqua prima che raggiunga il mare, trasferirla a impianti per depurarla, poi riutilizzarla nei processi produttivi o rimetterla nelle falde. È un’opera “consortile”, cioè coinvolge le diverse aziende che vi hanno impegnato 54 milioni di euro. Ma poi bisognerà fermare le fonti della contaminazione.
«Abbiamo assistito a un’incredibile serie di silenzi e omissioni», dice Angelo Cremone, che oggi rappresenta l’associazione Sardegna Pulita. Licenziato dall’Alcoa, ha continuato a dare battaglia contro l’inquinamento come consigliere comunale e ora come attivista. È tra le parti civili nel procedimento in cui la direzione aziendale dell’Eurallumina è imputata per “disastro ambientale”: ma il processo cominciato nel 2015 si trascina; il 16 febbraio l’avvio delle udienze è di nuovo slittato. «L’inquinamento è noto da molto tempo», insiste Cremone, «e anche l’impatto sulla nostra salute: ma chi doveva intervenire non lo ha fatto».
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