da INTERNAZIONALE
È passata alla storia come la battaglia di Blair Mountain, la più
grande rivolta sindacale della storia degli Stati Uniti. Per cinque
giorni, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1921,
diecimila minatori armati si scontrarono con tremila poliziotti, soldati
e cittadini comuni, nella contea di Logan, in West Virginia. Alla base
della rivolta c’erano le condizioni di semischiavitù di chi lavorava
nelle miniere, all’epoca centrali nell’economia degli stati degli
Appalachi, e il clima di terrore instaurato dagli imprenditori e dai
politici locali per stroncare sul nascere qualsiasi rivendicazione dei
minatori.
A guidare la repressione c’era lo sceriffo Don Chaffin, che anni dopo sarebbe diventato un influente
lobbista dell’industria mineraria. Dall’altra parte c’era, tra gli altri, Mary Harris Jones, per tutti Mother Jones, insegnante e sarta di origine irlandese che in quegli anni contribuì a organizzare decine di scioperi in tutti gli Stati Uniti.
La battaglia si concluse quando il presidente Warren Harding ordinò all’esercito di intervenire. A quel punto erano stati sparati più di un milione di proiettili, erano morti circa cento minatori e almeno venti agenti delle forze dell’ordine e c’erano stati quasi mille arresti. Nel breve periodo sembrò che i politici locali e i padroni delle miniere avessero ottenuto una vittoria definitiva. Nel giro di pochi anni gli iscritti al sindacato dei minatori passarono da cinquantamila a diecimila, e gli effetti negativi si fecero sentire anche in altri stati: l’influenza delle organizzazioni sindacali si ridusse anche in Pennsylvania e in Kentucky, e nel 1925 l’Illinois era ormai l’unico stato dove i sindacati avessero ancora una presenza importante nel settore minerario.
Ma nel lungo periodo a vincere furono i lavoratori della contea di Logan, perché la battaglia rivelò le terribili condizioni di vita dei lavoratori e perché costituì la base su cui si formò l’attivismo sindacale degli anni seguenti, e contribuì alla nascita di sindacati forti che avrebbero vinto battaglie importanti in altri settori, a partire dall’industria dell’acciaio.
Il declino di un modello
Nella seconda metà del novecento il settore minerario uscì dalle priorità dell’economia statunitense e i primi a farne le spese furono i sindacati, a cominciare da quelli che rappresentavano i minatori del West Virginia. Con il passare degli anni la terra degli operai è diventata una roccaforte conservatrice. Nel 2016 il Washington Post ha pubblicato un articolo intitolato “Come il luogo di nascita del movimento dei lavoratori si è rivoltato contro i suoi sindacati”, in cui raccontava delle leggi approvate dal parlamento locale per scoraggiare l’adesione ai sindacati.
Fino ad arrivare alle presidenziali del 2016, quando Donald Trump ha vinto lo stato con quasi il 70 per cento dei voti. Per tutti i commentatori e i cronisti il West Virginia è diventato all’improvviso la sintesi perfetta della vittoria di Trump: un posto dove migliaia di operai impoveriti dal declino del vecchio modello economico avevano contribuito in modo decisivo a mandare alla Casa Bianca un miliardario di New York.
Per tutti questi motivi la vittoria ottenuta dal sindacato degli insegnanti a inizio marzo è particolarmente importante. Per nove giorni il personale scolastico (circa 37mila persone) di tutte le
55 contee del West Virginia ha scioperato per chiedere un aumento dei salari e per protestare contro l’aumento dei premi dei loro piani assicurativi. Alla fine Jim Justice, il governatore repubblicano dello stato, ha ratificato una legge che concede un aumento dello stipendio del 5 per cento a tutti i dipendenti pubblici dell’istruzione. La protesta è stata così ampia e partecipata da cogliere di sorpresa gli stessi sindacati locali, soprattutto perché gli scioperi degli insegnanti in West Virginia sono molto rari.
A guidare la repressione c’era lo sceriffo Don Chaffin, che anni dopo sarebbe diventato un influente
lobbista dell’industria mineraria. Dall’altra parte c’era, tra gli altri, Mary Harris Jones, per tutti Mother Jones, insegnante e sarta di origine irlandese che in quegli anni contribuì a organizzare decine di scioperi in tutti gli Stati Uniti.
La battaglia si concluse quando il presidente Warren Harding ordinò all’esercito di intervenire. A quel punto erano stati sparati più di un milione di proiettili, erano morti circa cento minatori e almeno venti agenti delle forze dell’ordine e c’erano stati quasi mille arresti. Nel breve periodo sembrò che i politici locali e i padroni delle miniere avessero ottenuto una vittoria definitiva. Nel giro di pochi anni gli iscritti al sindacato dei minatori passarono da cinquantamila a diecimila, e gli effetti negativi si fecero sentire anche in altri stati: l’influenza delle organizzazioni sindacali si ridusse anche in Pennsylvania e in Kentucky, e nel 1925 l’Illinois era ormai l’unico stato dove i sindacati avessero ancora una presenza importante nel settore minerario.
Ma nel lungo periodo a vincere furono i lavoratori della contea di Logan, perché la battaglia rivelò le terribili condizioni di vita dei lavoratori e perché costituì la base su cui si formò l’attivismo sindacale degli anni seguenti, e contribuì alla nascita di sindacati forti che avrebbero vinto battaglie importanti in altri settori, a partire dall’industria dell’acciaio.
Il declino di un modello
Nella seconda metà del novecento il settore minerario uscì dalle priorità dell’economia statunitense e i primi a farne le spese furono i sindacati, a cominciare da quelli che rappresentavano i minatori del West Virginia. Con il passare degli anni la terra degli operai è diventata una roccaforte conservatrice. Nel 2016 il Washington Post ha pubblicato un articolo intitolato “Come il luogo di nascita del movimento dei lavoratori si è rivoltato contro i suoi sindacati”, in cui raccontava delle leggi approvate dal parlamento locale per scoraggiare l’adesione ai sindacati.
Fino ad arrivare alle presidenziali del 2016, quando Donald Trump ha vinto lo stato con quasi il 70 per cento dei voti. Per tutti i commentatori e i cronisti il West Virginia è diventato all’improvviso la sintesi perfetta della vittoria di Trump: un posto dove migliaia di operai impoveriti dal declino del vecchio modello economico avevano contribuito in modo decisivo a mandare alla Casa Bianca un miliardario di New York.
Per tutti questi motivi la vittoria ottenuta dal sindacato degli insegnanti a inizio marzo è particolarmente importante. Per nove giorni il personale scolastico (circa 37mila persone) di tutte le
55 contee del West Virginia ha scioperato per chiedere un aumento dei salari e per protestare contro l’aumento dei premi dei loro piani assicurativi. Alla fine Jim Justice, il governatore repubblicano dello stato, ha ratificato una legge che concede un aumento dello stipendio del 5 per cento a tutti i dipendenti pubblici dell’istruzione. La protesta è stata così ampia e partecipata da cogliere di sorpresa gli stessi sindacati locali, soprattutto perché gli scioperi degli insegnanti in West Virginia sono molto rari.
I millennials stanno entrando in politica proprio dalla porta del sindacato
A ben guardare, i motivi c’erano tutti. A cominciare dal fatto che
il West Virginia è uno degli stati dove gli insegnanti guadagnano meno
(lo stipendio medio è di circa 45mila dollari all’anno, tredicimila
dollari in meno rispetto alla media nazionale); in secondo luogo, lo
sciopero è stato alimentato dall’attivismo politico cresciuto dopo
l’insediamento di Trump, soprattutto da parte delle donne. Il New York
Times ha riportato le parole di Amanda Howard Garvin,
una maestra di scuola elementare di Morgantown: “Il corpo insegnante è
formato principalmente da donne. E invece al potere c’è un gruppo di
uomini a dirci che non meritiamo niente di più di quello che abbiamo.
Invece adesso le donne sono qui a dire ‘vogliamo uguaglianza’”.
Su Npr l’insegnante Jessica Salfia ha spiegato come le lotte di oggi si collegano a quelle del passato e alla tradizione sindacale nello stato: “Il nostro movimento è guidato soprattutto dalle donne. Negli Stati Uniti la maggior parte del corpo insegnanti è formato da donne. Siamo le figlie e le nipoti dei minatori, abbiamo visto i nostri padri e i nostri nonni schierarsi a favore dei diritti dei lavoratori”.
Come hanno dimostrato altri movimenti locali esplosi dopo l’elezione di Trump, l’attivismo sembra essere contagioso: gli insegnanti dell’Oklahoma, uno degli stati più poveri del paese e anche uno di quelli dove Trump ha vinto con il margine più ampio, potrebbero entrare presto in sciopero, e potrebbero farlo anche quelli del Kentucky, preoccupati per i loro piani pensionistici. I numeri a livello nazionale sembrano confermare che negli Stati Uniti è partito un attivismo sindacale che non si vedeva da tempo: nel 2017 i nuovi iscritti ai sindacati sono stati 262mila, un dato in controtendenza rispetto al passato visto che tra gli anni ottanta e il 2016 l’adesione ai sindacati è scesa costantemente fino ad arrivare al 10 per cento (uno dei numeri più bassi tra i paesi dell’Ocse).
Guardando i dati più da vicino emergono tendenze ancora più sorprendenti, a cominciare dal fatto che più di tre quarti dei nuovi iscritti sono persone sotto i 35 anni. In altre parole i millennials, le persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e i primi anni duemila, spesso accusati dai commentatori di aver distrutto il lavoro tradizionale, stanno entrando in politica proprio dalla porta del sindacato. Altri elementi interessanti sono che lo stato dove ci sono state più adesioni al sindacato è il Texas – uno stato tradizionalmente conservatore ma che si sta spostando più a sinistra a causa dei cambiamenti demografici – e che le persone di origine ispanica rappresentano il 65 per cento dei nuovi iscritti.
Su Npr l’insegnante Jessica Salfia ha spiegato come le lotte di oggi si collegano a quelle del passato e alla tradizione sindacale nello stato: “Il nostro movimento è guidato soprattutto dalle donne. Negli Stati Uniti la maggior parte del corpo insegnanti è formato da donne. Siamo le figlie e le nipoti dei minatori, abbiamo visto i nostri padri e i nostri nonni schierarsi a favore dei diritti dei lavoratori”.
Come hanno dimostrato altri movimenti locali esplosi dopo l’elezione di Trump, l’attivismo sembra essere contagioso: gli insegnanti dell’Oklahoma, uno degli stati più poveri del paese e anche uno di quelli dove Trump ha vinto con il margine più ampio, potrebbero entrare presto in sciopero, e potrebbero farlo anche quelli del Kentucky, preoccupati per i loro piani pensionistici. I numeri a livello nazionale sembrano confermare che negli Stati Uniti è partito un attivismo sindacale che non si vedeva da tempo: nel 2017 i nuovi iscritti ai sindacati sono stati 262mila, un dato in controtendenza rispetto al passato visto che tra gli anni ottanta e il 2016 l’adesione ai sindacati è scesa costantemente fino ad arrivare al 10 per cento (uno dei numeri più bassi tra i paesi dell’Ocse).
Guardando i dati più da vicino emergono tendenze ancora più sorprendenti, a cominciare dal fatto che più di tre quarti dei nuovi iscritti sono persone sotto i 35 anni. In altre parole i millennials, le persone nate tra l’inizio degli anni ottanta e i primi anni duemila, spesso accusati dai commentatori di aver distrutto il lavoro tradizionale, stanno entrando in politica proprio dalla porta del sindacato. Altri elementi interessanti sono che lo stato dove ci sono state più adesioni al sindacato è il Texas – uno stato tradizionalmente conservatore ma che si sta spostando più a sinistra a causa dei cambiamenti demografici – e che le persone di origine ispanica rappresentano il 65 per cento dei nuovi iscritti.
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