di Francesco Cappello (*) - Pubblichiamo una lunga parte
Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza
SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine) Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.
comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.
Esuberi più recenti, come riportati dalla stampa, senza pretesa di completezza
SAFILO annuncio di 700 esuberi in Italia e chiusura stabilimento di Martignacco (Udine) Nonostante la previsione di vendite in leggera crescita nei prossimi cinque anni, l’azienda ha avviato un programma di ristrutturazione industriale. L’amministratore delegato Angelo Trocchia ha affermato che punterà su “una crescita più significativa del nostro business e-commerce direct-to-consumer“.
CONAD il gruppo Conad dichiara 3.100 esuberi,
di cui più di mille nella sola Lombardia, su 6.600 dipendenti dei
negozi Auchan e Simply (punti vendita già confluiti in Conad), appena
acquisiti. I lavoratori che operano già sotto il marchio Conad hanno
visto un peggioramento delle loro condizioni lavorative, rispetto al
passato, in termini di orario, turni e salario.
CONTINENTAL 500 esuberi annunciati , da qui a 10
anni, negli stabilimenti Continental di Pisa e Fauglia. Sono il primo
risultato dei cambiamenti produttivi, del passaggio dalle auto a benzina
o diesel alle auto elettriche. L’auto elettrica ha bisogno di nuovi
macchinari e linee produttive che comporteranno la riduzione del 60% della forza lavoro.
Anche le fabbriche del GRUPPO MAHLE pagano il prezzo della grande fuga dal diesel.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.
Risultano in via di chiusura in Piemonte, 620 esuberi alla BOSCH di Bari, produzione in calo del 30 per cento nello stabilimento FCA di Pratola Serra, nell’avellinese.
FEDEX-TNT giganti delle spedizioni e consegne a domicilio. In ballo 361 licenziamenti
e 115 trasferimenti. Il progetto prevede, anzitutto, la chiusura di 24
sedi su 34 e l’allontanamento di 361 lavoratori (315 in Fedex, quasi
tutti corrieri, e 46 in Tnt). Previsti anche cento spostamenti di sede.
Si teme esternalizzazione massiccia di personale.
QN, IL RESTO DEL CARLINO, IL GIORNO E Q.NET: 112 esuberi su 283 redattori, potrebbe essere affiancato dall’accorpamento di edizioni e dalla chiusura di redazioni.
Il 6 febbraio scorso per i lavoratori
della PERNIGOTTI era scattata la cassa integrazione straordinaria per un
anno. Era in pratica la chiusura della storica azienda dei gianduiotti
dopo 160 anni di attività. Sono 25 gli esuberi dichiarati dall’azienda su 70 dipendenti, oltre a 50 lavoratori interinali non considerati dal piano.
MAGNETI MARELLI cassa integrazione per 910 a Bologna e Crevalcore.
TELECOM ITALIA la nuova era inizia con la cassa integrazione straordinaria per 29mila dipendenti e 4.500 esuberi.
CARIGE il piano dei commissari: aumento di capitale da 630 milioni e 1.050 esuberi.
TELECOM ITALIA la nuova era inizia con la cassa integrazione straordinaria per 29mila dipendenti e 4.500 esuberi.
CARIGE il piano dei commissari: aumento di capitale da 630 milioni e 1.050 esuberi.
Il gruppo tedesco SIEMENS ha annunciato il taglio di 6.900 posti di lavoro
in tutto il mondo. Una decisione anticipata nei giorni scorsi quando
l’azienda aveva dichiarato che erano in vista “tagli dolorosi“. La
notizia è stata ufficializzata a Monaco, in Germania. Oltre ai tagli,
Siemens ha previsto la chiusura di due stabilimenti, quelli di Goerlitz e
Lipsia, dove lavorano 920 dipendenti. NOKIA SIEMENS NETWORKS ha aperto
le procedure per il licenziamento di 445 tra lavoratrici e lavoratori
italiani.
SKY ITALIA dopo il mancato accordo di
agosto sulle procedure di licenziamento per 124 dipendenti presso il
Ministero del lavoro, ha inviato 63 lettere di licenziamento.
UNICREDIT un nuovo piano prevede 8 mila esuberi.
POSTE ITALIANE annunciano 12 mila nuovi esuberi.
CANDY malgrado abbia annunciato la volontà di potenziare la produzione nello stabilimento di Brugherio dichiara 130 esuberi.
Gli aiuti per salvare ALITALIA sono condizionati al fatto che il sindacato accetti almeno 2mila esuberi
e il taglio del 30% dello stipendio per piloti e assistenti di volo. Il
piano industriale della compagnia è un vero e proprio diktat delle
banche creditrici e socie, Intesa e Unicredit. L’offerta di Lufthansa
era interessata a creare NewAlitalia con annesso taglio di 6mila posti.
LA PERUGINA che fa capo alla multinazionale Nestlè, intende ridurre di 364 unità gli 800 dipendenti impegnati sulle linee produttive di San Sisto, Perugia.
ILVA da 4700 a 6300 gli esuberi dichiarati.
1500 posti di lavoro in meno nella RYANAIR.
Le federazioni regionali di
CONFCOOPERATIVE LAVORO E SERVIZI E LEGACOOP PRODUZIONE E SERVIZI a
seguito dell’approvazione del decreto legge Scuola (DL 126/2019)
denunciano il licenziamento di 5.000 lavoratori in esubero
a livello nazionale nei servizi di pulizia. Le imprese in appalto
vengono costrette per legge a licenziare procedendo
all’internalizzazione del servizio di pulizia nelle scuole. Riducono
fino al 50% lo stipendio per 11.000 lavoratori.
MERCATONE UNO dichiara fallimento. 1800 dipendenti perdono il lavoro.
La cessione di WHIRLPOOL di Napoli in
favore della Prs-Passive Refrigeration Solutions, con sede a Lugano, per
ora sospesa, prevede la riconversione della fabbrica che si
dedicherebbe all’assemblaggio di container refrigeranti e annesso licenziamento di circa 400 lavoratori.
PIOMBINO — JSW 250 esuberi. Se gli investimenti per la nuova acciaieria non verranno fatti gli esuberi aumenteranno e si aggireranno intorno a 750.
MPS, oltre 5mila esuberi e 600 filiali da chiudere che il salvataggio con fondi pubblici non ha saputo/voluto salvaguardare.
AF LOGISTIC 170 licenziati.
POPOLARE ETRURIA, BANCA MARCHE E CARICHIETI chiusura 140 sportelli. 1.569 i dipendenti in esubero secondo Ubi che da qui al 2020-2021 stimano circa 30mila uscite dal settore.
DEMA l’azienda aerospaziale ha annunciato 213 esuberi.
ALMAVIVA annunciati 1.600 esuberi nella sede di Palermo.
Lo stato delle cose
Precipitiamo progressivamente in uno stato di miseria crescente che costringe i nostri giovani ad andarsene, sempre più numerosi. I dati Istat confermano che solo nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Negli ultimi dieci anni più di 800mila hanno lasciato il bel paese in cerca di fortuna all’estero. Flessibilizzati, meglio dire precarizzati permanenti, quelli che rimangono si adattano ad accettare un lavoro a scadenza, con paghe lesive della dignità umana, per qualche mese, quando va bene. Rappresentano il completo insuccesso delle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro. Lavoro e lavoratori mercificati. Vittime, peraltro, di quel messaggio, più o meno latente, che subdolamente accusa: se sei disoccupato è colpa tua. È stata sdoganata, ormai da tempo, e istituzionalizzata, la pratica del lavoro gratuito nelle forme della “alternanza scuola lavoro“, del baratto amministrativo, comprese varie forme di “volontariato“ e di apprendistato ecc. Il lavoro gratuito così come l’impiego a scadenza, sottopagato, ha presa, grazie alla promessa/speranza, più o meno esplicita, che fa alle loro vittime, di essere assunte a tempo indeterminato o almeno riconfermate per un ulteriore periodo lavorativo. Come è facile capire, ciò risulta anche funzionale alla desindacalizzazione dei lavoratori. Il lavoratore sottopagato è ricattabile perché vive costantemente nell’emergenza lavorativa; non è perciò in grado di far valere i propri diritti. Si registra, inoltre, una esplosione del part-time involontario (60%), che è una delle molteplici forme di sottoccupazione. Quasi un quarto dei nostri giovani in età lavorativa vengono definiti NEET «Not in Education, Employment or Training», avendo rinunciato a cercare lavoro e non essendo impegnati nello studio, né nella formazione. Il dato, ormai strutturale, della disoccupazione rimane attestato intorno al 10% ma tale valore non conteggia i cassaintegrati e i part-time forzati.
Tutte le leggi (pacchetto Treu 97, Legge Biagi, Jobs Act, ecc.) che negano il diritto al lavoro sicuro e stabile sono e dovrebbero essere dichiarate incostituzionali. Il processo ha la sua genesi sin dall’inizio degli anni ’80 in cui i sindacati, purtroppo, accettano, su richiesta della confindustria, che i lavoratori siano disponibili alla pur necessaria flessibilità ma senza contropartite (la maggiore flessibilità, infatti, sarebbe dovuta essere compensata da adeguati aumenti retributivi). Si pensava che una maggiore flessibilità avrebbe generato più posti di lavoro. In realtà, la flessibilità si trasforma in precarietà diffusa e in danno, sia per la classe lavoratrice che per l’economia, a causa del conseguente calo della domanda interna.
Quelle leggi rappresentano la negazione postuma dei diritti dei lavoratori inscritti nello Statuto dei Lavoratori del 1970, frutto di intense lotte sindacali, agli antipodi della recente “voucherizzazione“, anticostituzionale perché negante il diritto alle ferie, alla indennità di malattia, ai contributi previdenziali, a essere pagati dignitosamente. I rapporti di lavoro che si stanno affermando oggi sono sempre più spesso di tipo schiavistico. L’ultimo film di Ken Loach – Sorry we missed you – racconta di un falso rapporto di lavoro autonomo nel settore delle consegne a domicilio, in cui a lavoratori, privati di tutti i diritti, è fatta oltretutto richiesta di assumersi le responsabilità legate al rischio di impresa. Tutto a garanzia di un profitto alto e garantito per i veri padroni finanziari dell’azienda. Protestare però è diventato un reato. Le aberranti norme del cosiddetto Decreto Sicurezza hanno colpito i lavoratori della Tintoria Superlativa di Prato, i cui operai, senza stipendio da 7 mesi, in condizioni lavorative inaccettabili, si sono visti affibbiare 21 multe dai 1000 ai 4000 euro ciascuna, per un totale di 84.000 euro “colpevoli“ del reato di “blocco stradale” grazie al quale le Questure possono incriminare i lavoratori che fanno i picchetti davanti alle aziende.
Precipitiamo progressivamente in uno stato di miseria crescente che costringe i nostri giovani ad andarsene, sempre più numerosi. I dati Istat confermano che solo nel 2018 sono partiti 117mila italiani di cui 30mila laureati. Negli ultimi dieci anni più di 800mila hanno lasciato il bel paese in cerca di fortuna all’estero. Flessibilizzati, meglio dire precarizzati permanenti, quelli che rimangono si adattano ad accettare un lavoro a scadenza, con paghe lesive della dignità umana, per qualche mese, quando va bene. Rappresentano il completo insuccesso delle politiche di liberalizzazione del mercato del lavoro. Lavoro e lavoratori mercificati. Vittime, peraltro, di quel messaggio, più o meno latente, che subdolamente accusa: se sei disoccupato è colpa tua. È stata sdoganata, ormai da tempo, e istituzionalizzata, la pratica del lavoro gratuito nelle forme della “alternanza scuola lavoro“, del baratto amministrativo, comprese varie forme di “volontariato“ e di apprendistato ecc. Il lavoro gratuito così come l’impiego a scadenza, sottopagato, ha presa, grazie alla promessa/speranza, più o meno esplicita, che fa alle loro vittime, di essere assunte a tempo indeterminato o almeno riconfermate per un ulteriore periodo lavorativo. Come è facile capire, ciò risulta anche funzionale alla desindacalizzazione dei lavoratori. Il lavoratore sottopagato è ricattabile perché vive costantemente nell’emergenza lavorativa; non è perciò in grado di far valere i propri diritti. Si registra, inoltre, una esplosione del part-time involontario (60%), che è una delle molteplici forme di sottoccupazione. Quasi un quarto dei nostri giovani in età lavorativa vengono definiti NEET «Not in Education, Employment or Training», avendo rinunciato a cercare lavoro e non essendo impegnati nello studio, né nella formazione. Il dato, ormai strutturale, della disoccupazione rimane attestato intorno al 10% ma tale valore non conteggia i cassaintegrati e i part-time forzati.
Tutte le leggi (pacchetto Treu 97, Legge Biagi, Jobs Act, ecc.) che negano il diritto al lavoro sicuro e stabile sono e dovrebbero essere dichiarate incostituzionali. Il processo ha la sua genesi sin dall’inizio degli anni ’80 in cui i sindacati, purtroppo, accettano, su richiesta della confindustria, che i lavoratori siano disponibili alla pur necessaria flessibilità ma senza contropartite (la maggiore flessibilità, infatti, sarebbe dovuta essere compensata da adeguati aumenti retributivi). Si pensava che una maggiore flessibilità avrebbe generato più posti di lavoro. In realtà, la flessibilità si trasforma in precarietà diffusa e in danno, sia per la classe lavoratrice che per l’economia, a causa del conseguente calo della domanda interna.
Quelle leggi rappresentano la negazione postuma dei diritti dei lavoratori inscritti nello Statuto dei Lavoratori del 1970, frutto di intense lotte sindacali, agli antipodi della recente “voucherizzazione“, anticostituzionale perché negante il diritto alle ferie, alla indennità di malattia, ai contributi previdenziali, a essere pagati dignitosamente. I rapporti di lavoro che si stanno affermando oggi sono sempre più spesso di tipo schiavistico. L’ultimo film di Ken Loach – Sorry we missed you – racconta di un falso rapporto di lavoro autonomo nel settore delle consegne a domicilio, in cui a lavoratori, privati di tutti i diritti, è fatta oltretutto richiesta di assumersi le responsabilità legate al rischio di impresa. Tutto a garanzia di un profitto alto e garantito per i veri padroni finanziari dell’azienda. Protestare però è diventato un reato. Le aberranti norme del cosiddetto Decreto Sicurezza hanno colpito i lavoratori della Tintoria Superlativa di Prato, i cui operai, senza stipendio da 7 mesi, in condizioni lavorative inaccettabili, si sono visti affibbiare 21 multe dai 1000 ai 4000 euro ciascuna, per un totale di 84.000 euro “colpevoli“ del reato di “blocco stradale” grazie al quale le Questure possono incriminare i lavoratori che fanno i picchetti davanti alle aziende.
Il lavoro frammentato, invalida
oltretutto il diritto alla pensione poiché i mancati versamenti, essendo
proporzionati ai bassi e occasionali salari non possono far aspirare a
nulla più che alla pensione sociale. Nel frattempo gli effetti del
sistema contributivo stanno alzando l’età pensionabile a 71 anni,
ostacolando ulteriormente il ricambio generazionale. Dopo anni di blocco
del turnover nel pubblico impiego, attivo dal 2004 (governo
Berlusconi), il decreto Crescita sembra, tuttavia, mirare ad assunzioni
non più calibrate sulle uscite, ma sui bilanci. Quindi solo laddove ci
saranno risorse adeguate si potrà tornare a programmare nuovi ingressi
in numero superiore, o almeno pari, ai pensionamenti. Considerando i
bilanci disastrati delle PA non è difficile preconizzare che, nei fatti,
il turnover rimarrà una chimera, malgrado, rispetto ad altri paesi,
l’età media del pubblico impiego sia ormai vicina ai 60 anni e, in
rapporto alla popolazione, i lavoratori pubblici siano solo la metà del
personale impiegato da altri paesi europei. In pratica, un nostro
impiegato svolge mediamente il doppio del lavoro, in rapporto alla
popolazione, rispetto a quello di altri paesi. Sullo sfondo, una povertà
assoluta in crescita colpisce più di 5 milioni di persone; altre dieci
milioni sono in stato di povertà relativa. Malgrado agli italiani sia
inflitta una imposizione fiscale tra le più alte al mondo, a questa non
corrispondono servizi pubblici adeguati alle necessità. Tagli
implacabili e continuativi a carico di sanità, istruzione, ricerca,
previdenza sociale, investimenti pubblici, degradano la qualità del
servizio. A chi gestisce i servizi pubblici si chiede di far quadrare i
conti grazie ad una gestione di tipo aziendale. Secondo questa logica le
unità sanitarie locali sono state trasformate in aziende sanitarie
locali e avanza inesorabile il sistema della salute a pagamento fondato
su ticket, assicurazioni private, interventi intra moenia (tra le
mura) per ovviare alle lunghe liste d’attesa [interventi, cioè, erogati
dai medici ospedalieri che utilizzano le strutture ambulatoriali e
diagnostiche dell’ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del
paziente di una tariffa] che minano alla base il reddito indiretto (principalmente l’assistenza sanitaria gratuita) e il reddito differito
ovvero previdenziale e pensionistico, alle origini dello stato sociale
europeo pre-Ue, alla base della pratica del welfare
universale. Sull’altro versante le privatizzazioni e le svendite del
patrimonio comune.Il sistema delle micro imprese (95% delle imprese
italiane!) è in estremo affanno. La grande e media industria
praticamente non ci sono più. L’impresa pubblica è ridotta ad un quinto
di quella che è stata. Ha cambiato natura e scopo trattandosi oggi di
società per azioni. L’IRI nel 1980 occupava da sola circa 550 mila
lavoratori. La differenza principale con l’impresa privata sta nel fatto
che il suo scopo non era il profitto ma la funzione sociale, potremmo
dire il Bene Comune. I dati ufficiali sulla natalità e mortalità delle
imprese italiane nel terzo trimestre del 2019, diffusi da Unioncamere –
InfoCamere, riferiscono «…un saldo attivo di 13.848 unità in più,
rispetto alla fine di giugno, il bilancio fra le imprese nate (66.823) e
quelle che hanno cessato l’attività (52.975) nel terzo trimestre
dell’anno. Il segno ‘più’ continua dunque a caratterizzare l’andamento
demografico della grande famiglia delle imprese italiane (6.101.222
unità alla fine di settembre), pur in presenza di segnali di difficoltà
sia sui mercati internazionali sia su quelli domestici, in particolare
per le piccole e piccolissime imprese. Il 91% dell’intero saldo è
infatti dovuto alle imprese costituite in forma di società di capitali
(cresciute nel trimestre al ritmo dell’0,7%). Nel complesso, il tasso di
crescita del trimestre (+0,23%, tra i più contenuti dell’ultimo
decennio con riferimento al periodo giugno-settembre) è frutto di una
natalità (1,1%) e una mortalità (0,87%) sostanzialmente in linea con
l’anno passato.»
La disoccupazione è legata alla
finanziarizzazione dell’economia che bypassa l’economia reale e pretende
di far soldi con i soldi. Un mercato del denaro fatto di rendite
parassitarie e commercializzazione, in forma di derivati e
cartolarizzazioni, di debiti e scommesse, moneta fittizia, che pur non
rappresentando ricchezza reale viene ad avere un potere d’acquisto che
esercita nei confronti della ricchezza reale di cui si nutre
cannibalizzandola. La finanza speculativa registra, infatti, corsi
borsistici continuamente crescenti che distribuiscono ricchezza fittizia
agli investitori i quali con i loro investimenti ricorsivi gonfiano
l’enorme bolla speculativa, sostenuta dal nuovo ruolo delle banche
centrali, che dalla crisi del 2007 immettono denaro a sostegno
dell’economia finanziaria, alimentandola e stabilizzandola finché
possibile mentre mantengono, bassi come non mai, i tassi di interesse
del denaro che mettono in circolazione, denaro a cui è impedito di
giungere in maniera diretta ad alimentare gli investimenti pubblici e
l’economia reale. Della vera ricchezza dismessa, di stati ed economia
reale, in crisi permanenti provocate ad hoc, si ciba il vampiro
finanziario. L’economia reale fatta di micro e piccole imprese resiste
ma è continuativamente sotto attacco. Se non riusciremo a bloccare i
processi in corso il tessuto fatto di piccole imprese, il piccolo e
locale, a cui è affidata la tenuta del Paese sarà costretto a cedere il
paese alle potenti multinazionali pilotate dalle oligarchie finanziarie
che controllano i grandi fondi di investimento speculativo. Con
l’ingresso nell’Unione ma già prima si è smesso di perseguire la piena
occupazione, sostenuta dalla spesa pubblica di cui era strumento la
banca centrale nazionale (tassi di interessi reali negativi al netto
dell’inflazione). Quell’obiettivo è stato sostituito da quello della
stabilità dei prezzi attraverso il vincolo esterno che ci ha imposto
politiche fiscali assai restrittive.
Oggi l’euro, una valuta troppo forte per
l’economia italiana, ci ha costretto ad una competitività sui mercati
esteri ottenuta solo a prezzo di svalutazione interna e deflazione
salariale. Con una moneta iper valutata rispetto alla forza
dell’economia, gli acquisti all’estero sono incoraggiati (a discapito
della domanda di prodotti italiani), mentre il listino prezzi delle
nostre esportazioni ostacola la collocazione competitiva di larga parte
della nostra produzione mentre facilita le importazioni a discapito del
mercato interno già messo a dura prova dal calo drastico delle
retribuzioni che provocano il calo di consumi ed investimenti che a loro
volta retroagiscono sul sistema economico deprimendolo ulteriormente…
molte aziende licenziano o chiudono… contemporaneamente le tutele del
lavoro sono rimosse dai governi. Si tratta di una miscela pericolosa di
diminuzioni successive della domanda interna, ulteriori richieste di
abbassamento del costo del lavoro, in una spirale perversa di
impoverimento crescente con conseguenze negative sulle casse della
previdenza sociale (cassa integrazione, indennità di disoccupazione,
infortuni legati al peggioramento delle condizioni di sicurezza…). Austerità e mancata azione della banca centrale europea insieme ai
vincoli sul deficit hanno colpito il debito pubblico e quello privato
provocando piuttosto l’innesco di un processo deflattivo sul quale a
rigore dovrebbe intervenire la BCE (che per mandato ha la stabilità dei
prezzi).
L’azione dello Stato e della politica, secondo i dettami del titolo 3 della Costituzione economica, è ormai impedita. Allo Stato sono venuti a mancare i suoi tradizionali strumenti di politica economica. Non controlla né disciplina il credito, non è in grado di tutelare e valorizzare il risparmio, né gli è permesso di optare per investimenti pubblici di largo respiro; non controlla i tassi di interesse che sono stati affidati al mercato, né la spesa ad essa correlata del servizio al debito (interessi passivi sul debito). Gli è stata sottratta anche la politica valutaria con cui era possibile regolare la bilancia commerciale e quella dei pagamenti.
Il vincolo esterno, ordoliberista, finalizzato a garantire la stabilità dei prezzi, ha frustrato l’azione dello Stato. Esso è stato attivato a discapito del vincolo interno virtuoso rappresentato dalla nostra Carta Costituzionale. L’obiettivo è stato raggiunto (oggi siamo però in stato di deflazione) a scapito di occupazione e salari facendo della disoccupazione un dato strutturale; ha impedito, in ultima analisi, la persecuzione degli obiettivi di pieno impiego inscritti nella Costituzione. Con l’ingresso nella Ue, infatti, abbiamo cominciato ad utilizzare i trattati europei al posto della Costituzione. In piena opposizione alla democrazia economica della Costituzione italiana, in cui il diritto fondamentale è quello al lavoro (art.1), la finalità dell’Ue è quella di realizzare una economia di mercato attraverso una «forte competizione» tra paesi europei finalizzata alla stabilità dei prezzi (l’obiettivo inscritto nello statuto della BCE è che l’inflazione rimanga costante e al di sotto del 2%) ed una restaurazione del mercato del lavoro e della economia anteriori alla crisi del ’29, che pensa l’intervento dello Stato nel ripristino dell’occupazione come una ingerenza che, avendo effetti inflazionistici, è da impedire. Qualsiasi intervento dello Stato è visto, cioè, come distorsivo di un equilibrio naturale generante un’inflazione che distorce tutto, impedendo una efficiente allocazione delle risorse. La disoccupazione sarebbe, quindi, compatibile con il livello di inflazione desiderata. Le politiche della Ue portano a bassa inflazione ed alta disoccupazione.
L’azione dello Stato e della politica, secondo i dettami del titolo 3 della Costituzione economica, è ormai impedita. Allo Stato sono venuti a mancare i suoi tradizionali strumenti di politica economica. Non controlla né disciplina il credito, non è in grado di tutelare e valorizzare il risparmio, né gli è permesso di optare per investimenti pubblici di largo respiro; non controlla i tassi di interesse che sono stati affidati al mercato, né la spesa ad essa correlata del servizio al debito (interessi passivi sul debito). Gli è stata sottratta anche la politica valutaria con cui era possibile regolare la bilancia commerciale e quella dei pagamenti.
Il vincolo esterno, ordoliberista, finalizzato a garantire la stabilità dei prezzi, ha frustrato l’azione dello Stato. Esso è stato attivato a discapito del vincolo interno virtuoso rappresentato dalla nostra Carta Costituzionale. L’obiettivo è stato raggiunto (oggi siamo però in stato di deflazione) a scapito di occupazione e salari facendo della disoccupazione un dato strutturale; ha impedito, in ultima analisi, la persecuzione degli obiettivi di pieno impiego inscritti nella Costituzione. Con l’ingresso nella Ue, infatti, abbiamo cominciato ad utilizzare i trattati europei al posto della Costituzione. In piena opposizione alla democrazia economica della Costituzione italiana, in cui il diritto fondamentale è quello al lavoro (art.1), la finalità dell’Ue è quella di realizzare una economia di mercato attraverso una «forte competizione» tra paesi europei finalizzata alla stabilità dei prezzi (l’obiettivo inscritto nello statuto della BCE è che l’inflazione rimanga costante e al di sotto del 2%) ed una restaurazione del mercato del lavoro e della economia anteriori alla crisi del ’29, che pensa l’intervento dello Stato nel ripristino dell’occupazione come una ingerenza che, avendo effetti inflazionistici, è da impedire. Qualsiasi intervento dello Stato è visto, cioè, come distorsivo di un equilibrio naturale generante un’inflazione che distorce tutto, impedendo una efficiente allocazione delle risorse. La disoccupazione sarebbe, quindi, compatibile con il livello di inflazione desiderata. Le politiche della Ue portano a bassa inflazione ed alta disoccupazione.
Che fare? Non è il lavoro che manca. Verso una economia postcapitalista
Accanto ai reali vincoli economici di cui sopra, luoghi comuni assai diffusi attribuiscono la mancanza di lavoro a tutta una serie di fattori. Il lavoro mancherebbe perché:
Accanto ai reali vincoli economici di cui sopra, luoghi comuni assai diffusi attribuiscono la mancanza di lavoro a tutta una serie di fattori. Il lavoro mancherebbe perché:
- l’automazione dei processi produttivi incorporando il lavoro nelle macchine, sempre più intelligenti, espelle forza lavoro;
- il costo del lavoro è troppo alto;
- la competizione con gli immigrati sul mercato del lavoro toglie agli italiani il poco lavoro rimasto;
- il lavoro manca perché non abbiamo soldi per remunerarlo.
È innegabile che l’automazione incorpori
lavoro umano. La novità è che, mentre in passato, le tecnologie
dell’automazione creavano nuovi posti di lavoro distruggendone almeno
altrettanti in un rapporto di sola sostituzione, oggi le macchine,
dotate di intelligenza artificiale di seconda generazione (utilizzanti
la tecnologia delle reti neurali) apprendono e sono sempre più adatte a
sostituire anche il lavoro cognitivo umano (1). Lo sbilancio tra i nuovi
lavori creati dall’introduzione dell’intelligenza artificiale e i
lavori che scompariranno crescerà inevitabilmente. Bisogna però chiedersi come mai questo non si trasformi in benefici a vantaggio di tutti.
Il banco di prova, per un sistema economico sano e sostenibile,
dovrebbe a rigore risiedere nel fatto che i guadagni di produttività, e
la conseguente ricchezza, generata dalla introduzione di macchine
intelligenti nel mondo del lavoro, dovrebbero tradursi in riduzione dei
tempi di lavoro (orario di lavoro, età pensionabile, ecc. ) a parità di
remunerazione, in tutti quei casi in cui il bisogno e quindi la domanda
di beni prodotti con sistemi automatizzati si mantenga stazionaria, e la
piena occupazione, nei settori interessati, fosse stata raggiunta.
Veniamo da una cultura economica in cui industria e manifattura hanno
occupato il centro dell’economia. Le macchine intelligenti, incorporano
sempre più occupazione, in moltissimi settori della produzione di merci e
servizi, così da garantirci grandi aumenti di produttività e di
profitto senza che questo sia in grado di tradursi in diminuzione della
giornata lavorativa standard di 8 ore a parità di retribuzione o in
abbassamento dell’età pensionabile. Quando ai nostri giovani in cerca di
occupazione diciamo che manca il lavoro stiamo dicendo una clamorosa
bugia che è facilissimo smentire. Basta guardarsi intorno. Basterebbe
guardare allo stato delle nostre infrastrutture o al settore della cura
della persona, della manutenzione e messa in sicurezza dell’ambiente
naturale, si pensi, in particolare al dissesto idrogeologico del
territorio o alla messa in sicurezza idraulica dello stesso, alla
tutela, manutenzione e valorizzazione del patrimonio artistico,
monumentale, culturale e anche immobiliare (non abbiamo bisogno di
continuare a cementificare il suolo quanto piuttosto di recuperare,
manutenzionare e ristrutturare energeticamente il patrimonio edilizio
esistente). Un esempio di lavoro non svolto è, infatti, quello delle
ristrutturazioni energetiche degli edifici. Ci sono un mare di
interventi necessari in tal senso, che rimangono in gran parte non
svolti. La ristrutturazione energetica di edifici privati e pubblici,
coinvolgerebbe inevitabilmente lavoratori edili, impiantisti, architetti
ecc.; i costi di tali interventi si ripagherebbero in breve tempo
grazie al risparmio di energia che consentirebbero. Gli incentivi
pubblici potrebbero catalizzare tali processi di ristrutturazione
energetica su larga scala. Nella attuale condizione, in assenza di
adeguati investimenti pubblici, si sprecano le energie e le competenze
di coloro che vengono lasciati inattivi, senza occupazione; Messi alle
strette dall’evidenza si è costretti ad ammettere che mancherebbero le
risorse finanziarie necessarie ad attivare tutti i fattori produttivi
esistenti ma inespressi a cominciare dalla forza lavoro. Nei settori
schematicamente indicati sarebbe indispensabile aumentare grandemente
l’occupazione (alcune stime – A. Galloni 2016 – prevedono la necessità
di attivare sino a 8 milioni di posizioni lavorative in questi settori)
ma accade che in essi nessuno è più in grado di investire
adeguatamente, perché, in generale, il fatturato di queste attività
risulta più basso del suo costo! Per affrontare queste attività
socialmente necessarie il modello capitalistico è perciò,
evidentemente, inefficace! Esso non è in grado di mobilitare tutti i
fattori produttivi disponibili in termini di forza lavoro, competenze,
tecnologie e risorse finalizzandole alla generazione di ricchezza
pubblica. Lo Stato costituzionale deve tuttavia sottrarsi al nodo
scorsoio della moneta a debito e ritornare ad usare, allo scopo di
permettere ai propri cittadini di affrontare il lavoro incompiuto di cui
sopra, lo strumento della moneta di stato pubblica, non a debito. Si
tratta di biglietti di Stato, emessi dal Tesoro, moneta
legale all’interno del territorio nazionale con la quale coprire il
fabbisogno dello Stato – rispetto alle necessità determinate da quegli
investimenti pubblici, non coperti da entrate fiscali – senza
indebitarsi ulteriormente, utilizzabile nelle normali transazioni
all’interno del territorio nazionale e quale strumento di pagamento
delle imposte fiscali. Il suo uso consente l’equilibrio di bilancio
(pareggio) come previsto dall’attuale art. 81 della Costituzione. Con i
trattati europei abbiamo devoluto alla BCE la competenza sulle banconote
(moneta a debito privata). Essi non risultano, perciò, incompatibili
con l’uso interno, in parallelo all’euro, che continuerebbe, in questa
fase, ad essere la valuta utilizzabile negli scambi internazionali e
unità di conto per le stato note (moneta pubblica non a
debito). Già Aldo Moro ne fece uso quando con la legge 31 marzo 1966, n.
171 si autorizzò il Tesoro a emettere biglietti di Stato a corso legale da 500 £. Fra il 1966 e il 1974 furono emesse due serie di queste banconote
(emissioni “Aretusa e Mercurio“) per un totale di 300 miliardi di lire.
Il consulente economico di Moro era stato quel Federico Caffè, a cui si
deve l’impianto del titolo 3 della Costituzione economica,
misteriosamente scomparso il 15 aprile del 1987.
I paesi OCSE contano 250 milioni di disoccupati, con il 20% di disoccupazione strutturale. Anche i paesi più avanzati sono affetti da disoccupazione strutturale. L’impresa capitalistica da sola non è in grado di garantire pieno impiego. Solo in un sistema economico non capitalista, uno Stato pienamente sovrano, può permettersi di far crescere l’occupazione, in questi settori dell’economia immateriale, sino a colmarne la domanda. Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma che ridefinisce lo scopo dell’economia identificandolo nella risposta ai bisogni della società.
Ciò sarebbe ancora più fattibile man mano che si riallocassero le spese del settore militare (80 milioni €/giorno) verso la riattivazione dello stato sociale, nel contesto di una politica estera, degna di questo nome, che vedesse l’Italia quale paese neutrale, finalmente fuori dalla NATO in ottemperanza al dettato costituzionale (art.11). Una tale scelta ci consentirebbe di svolgere un ruolo non più subalterno, ai dettami NATO, nella costruzione di una politica estera, di pace e cooperazione economica, nell’area del mediterraneo. Urge una azione di alta diplomazia che abbia come asse portante il rifiuto di considerare Russia e Cina quali potenziali nemici ma come partner nella ricerca e nella realizzazione di accordi commerciali e di pace. In questo nuovo status, l’Italia potrebbe contribuire a disinnescare i processi di riarmo e confronto militare, pericolosamente in atto piuttosto che concedere un aumento di spesa per la “difesa” dall’1,1% del Pil al 2% che equivale a ben 7 miliardi in più all’anno per assecondare la richiesta USA/NATO...
I paesi OCSE contano 250 milioni di disoccupati, con il 20% di disoccupazione strutturale. Anche i paesi più avanzati sono affetti da disoccupazione strutturale. L’impresa capitalistica da sola non è in grado di garantire pieno impiego. Solo in un sistema economico non capitalista, uno Stato pienamente sovrano, può permettersi di far crescere l’occupazione, in questi settori dell’economia immateriale, sino a colmarne la domanda. Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma che ridefinisce lo scopo dell’economia identificandolo nella risposta ai bisogni della società.
Ciò sarebbe ancora più fattibile man mano che si riallocassero le spese del settore militare (80 milioni €/giorno) verso la riattivazione dello stato sociale, nel contesto di una politica estera, degna di questo nome, che vedesse l’Italia quale paese neutrale, finalmente fuori dalla NATO in ottemperanza al dettato costituzionale (art.11). Una tale scelta ci consentirebbe di svolgere un ruolo non più subalterno, ai dettami NATO, nella costruzione di una politica estera, di pace e cooperazione economica, nell’area del mediterraneo. Urge una azione di alta diplomazia che abbia come asse portante il rifiuto di considerare Russia e Cina quali potenziali nemici ma come partner nella ricerca e nella realizzazione di accordi commerciali e di pace. In questo nuovo status, l’Italia potrebbe contribuire a disinnescare i processi di riarmo e confronto militare, pericolosamente in atto piuttosto che concedere un aumento di spesa per la “difesa” dall’1,1% del Pil al 2% che equivale a ben 7 miliardi in più all’anno per assecondare la richiesta USA/NATO...
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