Geopolitica della crisi iraniana
di Giacomo Marchetti
- Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, non c’è stata alcuna precipitazione bellica tra Stati Uniti ed Iran.
Questo
però non significa che non siano in parte cambiati gli equilibri
regionali, né che non siano state infrante prassi consolidate nelle
relazioni internazionali, foriere di ulteriori sviluppi.
È
un fatto che gli USA con questa amministrazione abbiano ampliato la
gamma di possibilità dell’omicidio
mirato, includendo
ora anche ad esponenti di altissimo livello di Stati con cui
formalmente non è in guerra.
Trump
si è spinto oltre Bush Junior ed Obama acconsentendo all’omicidio
del secondo uomo più importante della politica iraniana, dopo la
guida suprema Khamenei, senza che tale scelta venisse apertamente
condannata né dalle cancellerie occidentali (al massimo si sono
distanziate), né dall’establishment
democratico statunitense, per
una questione più di forma che di sostanza.
Fanno
riflettere le parole di James P. Rubin, consigliere strategico di
Washington ed ex segretario
di Stato aggiunto di Bill Clinton: «il suo assassinio è indubbiamente giustificato. La domanda è se sia saggio». Questioni di “tattica”, non di princìpi regolatori delle relazioni tra Stati…
di Stato aggiunto di Bill Clinton: «il suo assassinio è indubbiamente giustificato. La domanda è se sia saggio». Questioni di “tattica”, non di princìpi regolatori delle relazioni tra Stati…
Il
secondo avvenimento, senz’altro di minore importanza, ma
altrettanto significativo, sia in sé sia per la mancanza di una
reazione adeguata da parte della comunità internazionale, è la
mancata concessione del visto da parte degli USA al ministro degli
esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, impossibilitato a recarsi ad
una sessione delle Nazioni Unite – che ha sede a New York –
questo giovedì. Come se l’Onu fosse un qualsiasi club, casualmente
in territorio statunitense, di cui il governo Usa può decidere i
membri effettivi.
Due
“fatti compiuti” che pesano come macigni nelle relazioni
internazionali a venire.
Riprendiamo
le affermazioni di J. P. Rubin, in uno suo recente intervento, perché
sottolineano come il Deep
State sia tutto
meno che inconsapevole della fase che attraversano gli Stati Uniti.
A
differenza delle due Guerre del Golfo precedenti – quella ad inizio
anni Novanta e quella del 2003 – il consulente di “Politico”
sottolinea che «questa
volta sono gli americani che si trovano isolati sulla scena
internazionale, e non i loro avversari».
La
situazione di oggettivo isolamento, l’impreciso obiettivo militare
e l’assenza di una strategia diplomatica sconsiglierebbero, a suo
avviso, l’escalation militare statunitense.
Per
Rubin, gli USA dovrebbero invece adottare una politica di
contenimento efficace per impedire l’egemonia iraniana nella
regione, ed allo stesso tempo tornare al tavolo delle trattative con
l’Iran per un possibile altro accordo.
Gli
Stati Uniti, a parte Israele e Arabia Saudita, sono isolati e quindi
le proprie gesta belliche non sviluppano un migliore rapporto di
forza politica.
Il
Major General britannico Johnathan Shaw, che nel 2007 era a Bassora,
nel sud iracheno, al comando delle truppe di sua maestà, in un suo
intervento su The
Indipendent
mette in evidenza tre aspetti rilevanti: l’uso dell’azione
militare per fini politici da parte dell’Iran, il profilo che potrà
avere la risposta della Repubblica Islamica ed il ruolo che sta
assumendo nell’attuale configurazione mondiale in mutamento.
Partiamo
da quest’ultima. Shaw afferma che: «L’Iran
è geograficamente un attore-chiave del cambiamento di questo secolo
nel suo spostamento di centro dall’Atlantico all’Eurasia, ben
saldo nella visione di Russia e Cina».
Una
posizione strategica la cui valenza è rinforzata dallo Stretto
di Hormuz, attraverso cui passa il 30% di tutto il petrolio mondiale.
Un choke point
vitale quindi per l’economia
mondiale, una strozzatura strategica di cui anche Teheran è ben
consapevole.
Come
affermano Abdolrasool Divsallar e Nicola Pedde, in Hormuz
e i mari contesi,
sul numero estivo di Limes
dedicato al controllo dei mari: «lo
stretto di Hormuz, tuttavia, non è solo uno snodo cruciale dei
flussi energetici. È anche un elemento strategico della politica di
sicurezza iraniana. Teheran non ha mai esitato a usare Hormuz come
strumento geopolitico per fare pressione sugli Stati Uniti affinché
recedessero dalle loro politiche».
L’Iran
sta divenendo quindi il perno dell’architrave di sicurezza della
partnership strategica russo-cinese, anche in virtù del suo ruolo
svolto come capo-fila della mezza-luna sciita, un arcipelago con
centro a Teheran che va dall’Asia, passa per il Medio-Oriente e
giunge fino alla Penisola Arabica, e che ha svolto un ruolo
fondamentale nella sconfitta sul campo del jihadismo in Iraq, Siria e
Libano.
La
strategia iraniana, di cui il generale ucciso era uno dei più alti
esponenti, consiste in un uso proporzionato della forza per fini
politici, in cui “il politico” prevale su “il militare” e
l’azione bellica è un modo per ottenere rapporti di forza più
vantaggiosi, senza dare possibilità di ulteriori escalation.
In
questo contesto, il generale Shaw ha ragione quando afferma che la
reazione iraniana sarà: «una
guerra ibrida per portare “la morte con un centinaio di tagli”».
Una
rielaborazione per così dire della tattica delle mille punture
d’insetto in grado di stroncare un elefante, come sa anche il
pachiderma statunitense.
Intanto
l’Iran ha piegato favorevolmente a sé la situazione principalmente
per tre motivi.
Primo:
ha ricompattato il “fronte interno”, come hanno osservato anche
numerosi commentatori internazionali nei reportage sui funerali del
generale – da Il
Sole 24-Ore
a Le
Monde
a The
Guardian.
In
questo senso è stata per ora disinnescata una delle maggiori armi
della politica di “massima
pressione” esercitata
da Washington con le sanzioni, intervenute a più riprese dopo
l’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano, nel maggio
del 2018: ossia l’instabilità politica interna a causa dello
strangolamento economico della Repubblica Islamica.
Teheran
sa di dovere recuperare su questo fronte, tenendo conto che non si dà
operazione di regime
change se non
innestandosi sulle contraddizioni sociali di un sistema-Paese, e non
quindi come mera operazione di forza. Vista l’incapacità del
Vecchio Continente di essere coerente con i propri impegni, la
partnership sempre più stretta con Russia e Cina è una strada
obbligata per togliere terreno da sotto i piedi ad una ipotesi di
“rivoluzione colorata”.
Secondo:
si sta configurando un rapporto inedito con l’Iraq, dove la
presenza straniera è sempre più osteggiata, ed è stato in parte
recuperato con il martirio dei due esponenti iraniani, che dà una
nuova legittimità agli occhi di una popolazione poco incline a
cedere la propria sovranità ad una forza come quella statunitense,
percepita come occupante.
Un
rapporto più organico tra i due “giganti” dell’area è visto
come il fumo negli occhi da Washington, specie se questo fosse –
insieme alla Siria – quel cuneo in grado di scombinare i progetti
di USA e alleati nell’area, in grado di dare una “nuova”
prospettiva strategica alla lotta palestinese e ai ribelli yemeniti.
Un
incubo “strategico”, per gli USA, che si risolverebbe in un
esempio magistrale di eterogenesi dei fini.
Certamente
la presenza o meno di truppe straniere, in Iraq ed in tutto il Medio
Oriente, tornerà ad essere una delle “contraddizioni principali”
nell’area, in parte riassorbendo quelle criticità espresse nel
corso di questi mesi tra popolo e “regimi”.
Terzo:
L’Iran sta “riallineando” intorno a sé tutti gli attori
dell’arcipelago sciita ed in generale del mondo arabo che
desiderano avere una politica di resistenza
e non di resa
nei confronti di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. La presenza
del leader di Hamas a Teheran per le esequie del martire iraniano è
un fatto politico che va ben compreso nel suo significato “non
rituale”.
Dal
canto suo Trump e gli Usa, oltre a ciò che abbiamo citato
all’inizio, hanno realizzato altri obiettivi.
Le
promesse elettorali di Trump di sganciarsi dalle “endless
war”
sono
state fino ad ora abbondantemente disattese se è vero che – come
rilevato da Foreign
Affairs
a dicembre – il livello numerico delle truppe americane all’estero
è rimasto lo stesso dalla fine della Presidenza Obama.
Trump
è riuscito ad “azzerare” la discussione sull’impeachement,
che doveva dominare
il panorama politico statunitense ad inizio gennaio e influenzare la
campagna elettorale in vista delle presidenziali di novembre.
A
fini elettorali Orange
Man può vantare
due “scalpi” in grado di consolidare il suo consenso – oltre
all’omicidio dei due militari sciiti ad inizio gennaio – come
quello di Abou Bakr Al-Baghdadi, il 26 ottobre dell’anno scorso: il
suo appeal infatti rimane invariato e si attesta al 45%, con uno
“zoccolo duro” che stravede ancora per lui.
D’altro
canto, anche il tema della guerra caratterizzerà le primarie
democratiche, di fatto polarizzandole, a cominciare dall’importante
dibattito a Des Moines, nello Iowa, il 14 gennaio.
Sanders
è uno dei pochi ad avere preso posizione netta contro la
guerra in Iran, ed il movimento contro la guerra sembra avere ripreso
timidamente a fare i primi passi.
Ma
non sappiamo se possa scattare quel meccanismo evidenziato dal capo
della redazione internazionale di Le
Monde,
Alain Salles, per cui si avvantaggerà: «chi
può affrontare una crisi internazionale maggiore. Se questa sfida
monta, questo favorirà piuttosto dei profili giudicati esperti e
rassicuranti come Joe Biden».
Sarebbe
una manna dal cielo per l’establishment democratico quindi…
Un’era
di incertezza complessiva, quindi, se il Centro Studi Strategici di
Washington ha definito la politica estera americana “Era
of Frenemy”,
una crasi tra friend
ed
enemy
che
sa di paradosso; ed in cui la coppia amico-nemico
è sempre mutevole, ma che marca bene questo periodo, dove l’unica
sicurezza è la fine dell’egemonia americana sul globo.
Nessun commento:
Posta un commento