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articolo da La città futura di Daniela Bezzi
- 11/01/2020
Milioni di indiani hanno invaso l’8 gennaio
scorso le città di tutti gli stati dell’India, per il più imponente
sciopero generale che sia mai stato inscenato nella storia del paese,
che già aveva registrato record senza precedenti con le
mega-mobilitazioni del 2 settembre 2015 (con circa 120 milioni di
lavoratori in marcia), e poi ancora nel settembre 2016 (la bellezza di
180 milioni) e infine con la due giorni dell’8 e 9 gennaio dell’anno
scorso.
Mercoledì 8 gennaio, i lavoratori
unitariamente in sciopero in tutta l’India e da ogni settore economico,
sarebbero stati addirittura 250 milioni. Le strade di Delhi,
Mumbai, Kolkata, Patna, Hyderabadh, ovunque una marea di bandiere e di
delegazioni in marcia, in rappresentanza di tutte le confederazioni
sindacali - che in India sono parecchie, a cominciare dal formidabile
CITU, e non sempre d’accordo fra di loro. Fatta eccezione per il RSS (Rashtriya Swayamsevak Sangh) affiliata al partito BJP, ovvero al governo di Narendra Modi, gli striscioni c’erano proprio tutti.
Particolarmente numerose le organizzazioni
del settore agricolo, molto colpito dalle politiche
liberiste dei vari governi indiani dall’inizio degli anni ’90 in poi e in gravissima sofferenza soprattutto in questi ultimi anni di Governo Modi. Ben 208 diverse organizzazioni, in rappresentanza di 480 distretti, si sono raccolte sotto le bandiere dell’AIFSCC (Comitato di Coordinamento delle lotte contadine in tutta l’India).
liberiste dei vari governi indiani dall’inizio degli anni ’90 in poi e in gravissima sofferenza soprattutto in questi ultimi anni di Governo Modi. Ben 208 diverse organizzazioni, in rappresentanza di 480 distretti, si sono raccolte sotto le bandiere dell’AIFSCC (Comitato di Coordinamento delle lotte contadine in tutta l’India).
Non meno numerose le rappresentanze dell’immenso
settore che chiameremmo metalmeccanico: umili minatori, accanto ai
meglio ‘qualificati’ operai delle tante fabbriche, acciaierie, impianti
manifatturieri, uniti nella stessa protesta contro condizioni di
lavoro che in molti casi non hanno mai conosciuto un vero e proprio
contratto e sono spesso classificate come lavoro schiavista dalla
stessa ILO (l’Organizzazione internazionale del lavoro).
Ma a sfilare negli stessi oceanici cortei,
ecco anche le legioni di impiegati, insegnanti, ferrovieri, dipendenti
del settore pubblico, persino impiegati di banca - lavoratori insomma
di settori più formalmente ‘garantiti’, ma non meno vulnerabili nel
quadro della generale svendita e privatizzazione di assets importanti per l’economia dell’India.
Per tutti il Bharat Bandh (Grande Mobilitazione) dell’8 gennaio,
ha fornito l’occasione per rivendicare migliori condizioni di lavoro,
sullo sfondo di un’economia che è da tempo in contrazione. Indici di
crescita in discesa da tempo, declinante potere d’acquisto di salari da
sempre troppo esigui, disoccupazione dilagante: contrariamente alle
promesse di Narendra Modi, l’India definita ‘shining’ solo
pochi anni fa, ha inaugurato il nuovo anno in un clima di incandescente
tensione, soprattutto per quella vasta popolazione di studenti che è
stata protagonista, nelle ultime settimane, di vari episodi di protesta contro la cosiddetta Legge di Cittadinanza, approvata dal Parlamento Indiano l’11 dicembre scorso.
E non a caso infatti erano moltissime le
organizzazioni studentesche che, da una sessantina di Università in
tutto il paese, si sono unite ai lavoratori in marcia, non solo per
esprimere la loro solidarietà ai lavoratori, ma per segnalare appunto
le preoccupanti dimensioni della disoccupazione giovanile, sullo sfondo
di una stagnazione economica che è tra l’altro causa di un
insostenibile caro-vita.
Non sono mancati ovviamente i momenti di tensione:
a Patna, capitale dello stato settentrionale del Bihar, la polizia ha
disperso i dimostranti che occupavano il centro-città a colpi di canna
di bambù, tutto sommato meno letali dei lacrimogeni di casa nostra; a
Kolkata, in varie città dell’Odissea, come in Assam, gli scioperanti
hanno dovuto stendersi sui binari per bloccare il passaggio di alcuni
treni; e blocchi stradali si sono verificati praticamente ovunque. Ma
il maggior impatto, diciamo pure ‘danno’, si è registrato nelle varie
zone industriali: ovunque chiusura completa degli impianti, sia per i
grandi marchi del settore auto (Honda, Maruti Suzuki & Co), come
per il mosaico delle medie e piccole industrie concentrate soprattutto
alla periferia di Delhi e Mumbai.
La risposta del governo di Narendra Modi dinnanzi a una mobilitazione di questa magnitudine è stata tipicamente indifferente.
Sul tappeto, oltre alla rivendicazione di migliori salari e condizioni
di lavoro, c’è quella contro la messa in discussione dello stesso
diritto di sciopero.
Un nuovo disegno di legge, in attesa di
approvazione al Parlamento indiano, avrebbe infatti l’effetto di
modificare radicalmente il quadro (già così sofferente) delle relazioni
industriali nel sub-continente, rendendo ancora più difficile
qualsiasi attività sindacale in India. E già oggi, nonostante
l’esistenza dei sindacati, non si contano le fabbriche a tutti gli
effetti operative come campi di concentramento: vere e proprie
fortezze, sorvegliate giorno e notte da guardie armate, pressoché
impossibili da penetrare. La mano d’opera in tutti questi casi viene
‘assunta’ senza alcuna tutela, spesso importata da territori
lontanissimi, privata di documenti e costretta a lavorare per ripagare
il ‘debito’ del viaggio, o del precario ricovero messo a disposizione
dai padroni - condizioni di totale disumanità.
E in queste precarie condizioni, che la stessa
solidarietà di classe viene meno, e cresce invece la tensione sociale. E
la guerra tra poveri diventa, come ben sappiamo, il terreno fertile
per ogni genere di soprusi, o fascismi. Anche in questa luce
dunque, l’enorme partecipazione al Mega-Sciopero dell’8 gennaio, può
essere considerata un enorme e significativo successo.
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