Questo reportage, a parte le ricostruzioni buoniste-pacifiste e non di classe dello scontro in atto che mettono sullo stesso piano occupanti e occupati, oltre a fare una fotografia di cosa significa l'occupazione dello stato nazi-sionista di Israele, che è poi simbolo ed esempio di quello che avviene in tutte le occupazioni e guerre imperialiste nel mondo, fa emergere in modo chiaro che i giovani palestinesi non hanno futuro, come dice un ragazzo:"SONO GIA' MORTO", non hanno niente da perdere, hanno solo il bi-sogno della rivoluzione per spezzare le catene dell'imperialismo, per conquistare un nuovo mondo.
Questo è quello a cui aspirano le tante giovani generazioni in ogni parte del mondo oppresso da guerra e miseria, ma per questo serve il partito comunista di tipo nuovo e la strategia della guerra di popolo.
Questo è quello a cui aspirano le tante giovani generazioni in ogni parte del mondo oppresso da guerra e miseria, ma per questo serve il partito comunista di tipo nuovo e la strategia della guerra di popolo.
Forse
è meglio andare uno alla volta. Così sembriamo meno pericolosi. O
forse no: sembriamo più sospetti. Però la carta di identità no,
non in mano, o penseranno che sia un coltello. Oddio: e poi come la
tiri fuori? Penseranno che hai un coltello in tasca. Ma soprattutto:
cosa stanno dicendo? Stai fermo o sparo? O stanno dicendo: Perché
stai fermo? Ora sparo?
Sono
solo duecento metri, e stai solo cercando di tornare a casa. Ma è
così Hebron, hai l’esercito a ogni angolo, e dubbi a ogni passo.
Molti soldati, si vede, hanno paura. Non importa il giubbotto
antiproiettile, l’elmetto, la mitragliatrice, non importa l’aria
da duri: hanno paura quanto te, sono nervosi, pronti a fare fuoco
alla minima incertezza. Il minimo movimento. E poi non capisci cosa
ti dicono, parlano in ebraico. E comunque gli ordini cambiano a ogni
minuto. A ogni checkpoint. Chiedi quali sono, e ti rispondono: gli
ordini sono io.
Trenta
degli 84 palestinesi uccisi finora, in questi giorni che nessuno
ancora sa come definire, forse un’intifada forse no, venivano da
Hebron. Ma Hebron, in realtà, è da sempre il luogo in cui ognuno
tira fuori il peggio di sé. Dagli anni settanta circa seicento
coloni vivono incuneati tra 180mila palestinesi per presidiare
Ma’arat HaMachpelah, le tombe dei patriarchi, che per i musulmani
sono invece la moschea di Abramo.
A
Hebron ci si dà appuntamento accanto a un numero: il checkpoint 55,
il checkpoint 56
È
qui che Eyal Yifrach, Gilad Shaar e Naftali Frenkel, a giugno di un
anno fa, hanno chiesto un passaggio in autostop e sono finiti
sequestrati e uccisi; è qui che la famiglia Dawabsha, padre madre e
figlio di 18 mesi, è stata bruciata viva dentro casa, a luglio; è
qui che a settembre i soldati guardavano e i coloni ridevano mentre
Dia al Talameh, per mezz’ora, sanguinava a morte. È qui che quando
gli uni muoiono, gli altri alzano le spalle gelidi, niente di più: e
a volte cantano e ballano. Festeggiano.
È
qui che non si è più umani, in questa città divisa in area H1 e
H2, la prima sotto controllo palestinese, la seconda sotto controllo
israeliano: una città in cui ci si dà appuntamento accanto a un
numero, il checkpoint 55, il checkpoint 56, e in cui in realtà,
ormai, si è un numero, perché entra solo chi è registrato.
E
per strada, per queste strade deserte – perché stanno tutti
rintanati in casa dietro grate di ferro e muri di cemento – non si
incontrano, meri numeri anche loro, che gli osservatori della
Temporary international presence in Hebron (Tiph), chiamata a
garantire il rispetto di accordi, protocolli, diritti e obblighi che
nessuno, qui, più neppure ricorda quali siano: la presenza della
Tiph è temporanea dal 1997.
Palestinesi
scappano dai lacrimogeni sparati dall’esercito israeliano a Hebron,
in Cisgiordania, il 13 novembre 2015. (Mussa Qawasma,
Reuters/Contrasto)
A
Hebron sembra di vivere in guerra. Ogni famiglia ha una
ricetrasmittente che ogni venti, trenta minuti gracchia notizie di
scontri, accoltellamenti, incidenti di ogni tipo. Nessuno si chiede
chi sia il morto: tutti si chiedono quale sarà la reazione, dove
sarà il morto successivo.
E
questa è l’unica cosa che israeliani e palestinesi, qui, hanno in
comune.
Perché
se prima l’appuntamento era per la manifestazione del venerdì,
all’una, dopo la preghiera, ora è tutta una sassaiola. Ora a
ridosso della città vecchia, semplicemente, cammini, e a un tratto
noti dei ragazzi fermi a un incrocio. A un angolo di strada. Gruppi
di quattro, cinque ragazzi, la felpa con il cappuccio e nient’altro,
non una bandiera, non un megafono, uno striscione, niente. Stanno
fermi, così, i jeans stretti alla caviglia e le mani in tasca,
magri, con un’aria da liceali, stanno fermi e guardano tutti nella
stessa direzione: per nessun motivo preciso, non è successo niente
di particolare.
I
passanti, via via, si fermano, magari andavano al lavoro, in banca,
andavano dal barbiere, hanno con sé borse da ufficio, buste della
spesa, ma ora si fermano, invece, uno a uno. Si fermano e aumentano,
aumentano, aumentano fino a quando un bambino, all’improvviso, avrà
sei, sette anni, non di più, un bambino minuscolo sguscia via, e
corre veloce verso un checkpoint.
Corre
verso una jeep, verso un filo spinato, una cosa qualsiasi, verso il
più vicino segno della presenza israeliana, tira una pietra, e
dietro di lui, come un’onda anomala, tutti gli altri. E per tre,
quattro ore è un palleggio di gas lacrimogeni, pietre, proiettili di
gomma, a volte proiettili veri, molotov, bombe sonore, una manciata
di ventenni contro una manciata di soldati: mentre a decine, pochi
metri più dietro, guardano, e tifano. E mentre la vita, intorno,
continua.
Questi
sono i ragazzi di Oslo: non hanno mai visto un israeliano che non sia
un soldato o un colono
E
non solo intorno: gli scontri sono così normali, qui, così
integrati nel paesaggio che un ragazzino, in mezzo, continua a
friggere falafel
nel suo chiosco. Quando il gas lo avvolge, va un momento a tossire in
un negozio vicino, poi torna a friggere – mentre un uomo attraversa
la strada con un materasso sulle spalle, un altro, accanto, spinge un
carrello con un televisore. Sulla traiettoria del fuoco due spazzini,
impassibili, svuotano i bidoni della spazzatura.
Gli
scontri, in realtà, non finiscono mai: si interrompono. Non si
disperdono: si spostano. Due, tre ore, e si ricomincia. Con i padri
che tentano inutilmente di fermare i figli. “Gli ripetiamo mille
volte al giorno che non ha senso, che tiri una pietra e ti prendi un
proiettile. Che non è quella la strada. Abbiamo paura. Stiamo sempre
a cercarli, a telefonare, a controllare dove sono. Con chi sono. Ma
questi sono i ragazzi di Oslo: non hanno mai visto un israeliano che
non sia un soldato o un colono. E poi non possiamo incatenarli”,
dice Mohammed Titi, 35 anni e due figli di 14 e 12. Il teatro che ha
fondato si chiama Yes, “perché se sei palestinese, ti senti sempre
rispondere: No”.
E
in effetti è vero che la sproporzione di forze, qui, ti è ricordata
dagli F16 che ti sfrecciano in testa: ma è anche vero che nessuna
città della Cisgiordania è come la città vecchia di Hebron. Con i
suoi 18 checkpoint in cui vieni continuamente fermato e perquisito.
Nessuna
alternativa
Capita
che l’esercito ti sfondi la porta, all’alba, e ti chiuda in una
stanza perché per un giorno ha bisogno di casa tua, l’accesso è
vietato alle auto, devi trasportarti tutto sulle spalle, anche
un’ambulanza chiamata di emergenza ha bisogno di un’autorizzazione,
e a ogni rumore, a ogni gatto in giardino, di notte, sussulti, perché
pensi che siano i coloni che vengono a rubarti casa. Non si esce mai
tutti insieme, qui: uno rimane sempre dentro. Di guardia. E a volte
l’unica, per rientrare, è passare da tetti e finestre. “Tentiamo
tutti di fermare i nostri figli. Ma il problema”, dice Mohammed
Titi, “è che non abbiamo nessuna alternativa da offrirgli”.
Il
77 percento dei palestinesi, qui, vive sotto la soglia di povertà.
E
soprattutto, i padri non sono i soli a provare a fermare questi
ragazzi. A ogni checkpoint, hai da un lato i soldati israeliani,
dall’altro gli agenti in borghese dell’Autorità Nazionale
Palestinese. Sono ovunque: e sono una delle ragioni di scontri e
manifestazioni. Perché il problema non è solo che a Hebron sembra
di vivere in un rapporto di Human rights watch. Il problema, per i
palestinesi, è la totale assenza di prospettiva politica. Di
un’alternativa.
In
Cisgiordania hai bisogno di un permesso per qualsiasi cosa. Per
aprire un negozio, per spostarti, o anche solo per ristrutturare la
cucina
Issa
Amro ha 35 anni, ed è uno degli attivisti più noti, sostenitore
della resistenza non violenta: parla un ottimo ebraico, ed è già
stato arrestato 16 volte quest’anno, 25 l’anno scorso. “E se
l’esercito non fa distinzioni, è difficile convincere i
palestinesi che con razzi e coltelli non ottieni niente”, premette,
parlando mentre ha venti soldati al piano di sopra a perquisirgli
l’ufficio.
“Il
problema è che gli accordi di Oslo non hanno segnato la fine
dell’occupazione, ma la sua trasformazione: il suo subappalto
all’Autorità Nazionale Palestinese. Non solo non esistono
negoziati, discussioni, proposte, niente, ma siamo governati da
questa cricca che pensa solo ai propri interessi”, dice Issa Amro.
“Per noi sono uguali a Israele”. Ed è questo uno dei motivi
della forza di Hamas, di cui Hebron è un bastione: “Non tanto
perché uno creda davvero nei razzi, ma perché se non altro, Hamas
non si è arresa”.
In
Cisgiordania, infatti, hai bisogno di un permesso per qualsiasi cosa.
Per aprire un negozio, per spostarti, o anche solo ristrutturare la
cucina perché ti si è rotto un tubo. Ma soprattutto, di fatto, hai
bisogno di un permesso per vivere: perché le sole opportunità di
lavoro sono nel settore pubblico o in Israele. E in entrambi i casi,
hai bisogno di un tesserino magnetico che viene rilasciato
dall’intelligence: certifica che non sei pericoloso. “Cioè”,
traduce Issa Amro, “che ti astieni da ogni attività politica”.
È
quella che in tanti, qui, chiamano “la doppia occupazione”.
I
funerali di Abdullah al Shalalda, un palestinese ucciso durante un
raid israeliano nell’ospedale Al Ahly, nel villaggio di Sair, a
nord di Hebron, il 12 novembre 2015. (Mussa Qawasma,
Reuters/Contrasto)
Tanti,
però: non tutti. Perché esiste anche una terza Hebron, un’area
H3: è la Hebron a cui di tutto questo non importa niente. La Hebron
che sta fuori dalla città vecchia, e passo a passo, strada per
strada, sta diventando come Ramallah: tutta negozi, caffè,
ristoranti, vita fino a tardi. Un terzo del pil della Cisgiordania
arriva da qui, da una miriade di artigiani famosi per le ceramiche,
il vetro, e soprattutto il cuoio. E per ragioni legate non solo alle
autorizzazioni, all’occupazione e la sua burocrazia, ma anche, più
semplicemente, alla concorrenza cinese, molte imprese palestinesi
lavorano con imprese israeliane.
“Tutto
questo non ha il minimo senso”, mi dice un sarto. “Non c’è
alcun obiettivo. Alcun progetto. Hamas e Fatah usano gli scontri come
valvola di sfogo, nient’altro, perché questi ragazzi, per una
volta, possano sentirsi vivi. Agire invece di subire. Ma poi al
solito: Hamas organizza una manifestazione e Fatah un’altra
manifestazione, stesso giorno stessa ora, in un altro luogo”, dice.
“Cercano di specularci su”.
Gli
scontri veri
Perché
in effetti è vero che nessuno, qui, guida gli scontri. Ma Hamas e
Fatah, e soprattutto, la Jihad islamica, non sono assenti: sono solo
invisibili. Stanno un passo indietro, consapevoli che niente
terrorizza di più dell’idea che un arabo qualsiasi, in qualsiasi
momento, indipendentemente da tutto, ti possa accoltellare.
“Anche
perché così nessuno è responsabile di niente, e tutti possono
profittare di tutto. E vincere gli scontri veri: gli scontri per
sostituire il presidente Mahmud Abbas, che ha 81 anni ormai, e se non
va via da solo, tra un po’ ci pensa dio”, dice il sarto.
“Onestamente, sono stanco di tutto questo. Non so tu, ma io ho una
vita sola. E non ho intenzione di sprecarla così. Penso ai miei
figli, ai miei nipoti. A vivere al meglio, chiunque mi governi. Un
po’ alla volta, ci abitueremo a stare insieme, israeliani e
palestinesi”, dice. “Non saremo noi uomini a risolvere questo
conflitto, è inutile. Sarà il tempo”.
Ha
56 anni, ed è stato l’unico a chiedermi di non citare il suo nome.
Commenta amaro: “Qui è più pericoloso volere la pace che la
guerra”.
Anche
altri la pensano come lui. Ma più che al tempo, si affidano alla
demografia. Perché mai farsi sparare, ti dicono, e non ottenere
niente? Gli israeliani non vogliono i due stati? Bene: avranno uno
stato unico. Ma invece di essere ebraico, un giorno sarà arabo
I
luoghi dei massacri sono i nuovi santuari, le nuove mete di
pellegrinaggio
Non
è solo larga parte di Hebron a rimanersene in disparte: è anche
larga parte della Cisgiordania. E anche di Gaza, da cui Hamas si
limita ogni tanto a sparare razzi su aree disabitate: non può
permettersi un’altra guerra.
Ehab
Ewedat ha vent’anni, studia economia a Ramallah. Per ora non
tornerà a Hebron. “È una trappola”, dice. “Gli israeliani
cercano la violenza perché siamo divisi, e soprattutto, impegnati a
sopravvivere. Il 30 percento è servo dell’Autorità Nazionale
Palestinese, e non partecipa perché pensa solo a comprarsi un’auto
nuova. Ma il 70 percento di noi non partecipa perché pensa a come
comprarsi il pane. E in più, il mondo è concentrato su altro. La
Siria. L’Iraq. Non siamo al centro dell’attenzione. E quindi per
gli israeliani è il momento perfetto: ogni morto è la
giustificazione per nuove confische, nuovi divieti. Nuovi arresti”,
dice. “Ogni morto è il pretesto per impadronirsi di un altro pezzo
di Hebron”.
L’unico
risultato degli scontri, per ora, è la chiusura di Shuhada street.
Che è il simbolo di Hebron non solo perché è, o meglio era, la sua
strada principale, un tempo con decine di negozi, caffè, il
municipio. È un simbolo perché è stata chiusa nel 1994, quando
Baruch Goldstein ha ucciso 29 fedeli nella moschea di Abramo. “E
ogni volta che succede qualcosa, l’esercito per ripristinare la
sicurezza colpisce noi e basta”, dice Mofeed al Sharabati, 48 anni,
uno dei pochi residenti rimasti. “Anche quando siamo noi a essere
uccisi, siamo noi a essere arrestati”.
Naturalmente
per i coloni, invece, il massacro da ricordare è quello del 1929, in
cui furono uccisi 69 ebrei. Ormai, più che per i luoghi religiosi,
le città, qui, sono simboliche per questo.
I
luoghi dei massacri sono i nuovi santuari. Le nuove mete di
pellegrinaggio, anche se a essere ricordati e celebrati non sono i
morti: sono gli assassini.
Ognuno
celebra chi uccide l’altro.
Nessuno
si illude di trovare lavoro. Se non in Israele: e cioè
essenzialmente come muratori.
In
nessuna città israeliani e palestinesi sono così lontani come qui,
dove vivono gomito a gomito. Non concordano neppure su cosa sta
accadendo: quelli che per gli israeliani sono accoltellamenti, per i
palestinesi sono linciaggi.
Amnesty
international, che in passato ha già contestato all’esercito un
uso eccessivo della forza, ha esaminato il caso di Hadeel al
Hashlamon, 18 anni, uccisa il 22 settembre a un checkpoint. Stava
frugando nella borsa in cerca probabilmente dei documenti, ma era
coperta da un niqab
e non si vedevano le mani: e il soldato ha pensato che stesse per
tirare fuori un coltello. Fosse anche stato un coltello, ha detto
Amnesty international, avrebbero potuto disarmarla in altro modo.
Senza sparare. L’esercito israeliano, in fondo, è uno dei meglio
addestrati al mondo.
E
certo, ci sono altri casi simili a questo, ma altri sono innegabili.
Il 16 ottobre, per esempio, un uomo che si spacciava per giornalista
ha assalito un soldato a Kiryat Arba. Il filmato è inequivocabile.
Eppure, i palestinesi sono unanimi: gli israeliani, dicono,
manipolano le immagini. Sparano, e aggiungono un coltello accanto al
cadavere. Muhannad al Halabi, il ragazzo di 19 anni con il quale
tutto questo è cominciato a ottobre, lo studente di giurisprudenza
che ha ucciso due soldati a Gerusalemme, ha avuto una laurea onoraria
post mortem.
“Credevamo
fosse una generazione di vigliacchi”, dice Mousa Ajwa, professore
di scienze politiche.”E invece sono dei ragazzi coraggiosi”.
Ragazzi
come mille altri
O
forse, solo disperati. Perché a vederli, nei caffè vicino
all’università, nelle copisterie, sembrano come mille altri. Non
vengono dalla città vecchia, che è ormai una città fantasma,
vengono dalla terza Hebron. Tutti, per pagarsi l’università, si
sono indebitati, come anche per comprare l’auto, il telefonino, la
lavatrice: la ricchezza dei palestinesi, in Cisgiordania, è
apparente, si basa sui prestiti, e nessuno, alla fine, si illude di
trovare lavoro. Se non in Israele: e cioè essenzialmente come
muratori. Come operai al nero.
Khalil
e Khaled hanno 21 anni, studiano economia. Chiedi come passano il
tempo libero, cosa offre Hebron, una città dove il 70 per cento
degli abitanti ha meno di 30 anni, e non capiscono la domanda. Devo
ripeterla più volte. Alla fine Khalil dice: guido il taxi. Khaled
invece monta condizionatori. Non sono mai stati all’estero. Non
sono mai stati al cinema. Allo stadio. Non hanno mai visto il mare.
Anche Enas ha 21 anni e studia economia, ma è una ragazza: e quindi
nel tempo libero rimane a casa. Cosa sogni?, chiedo. Non capisce. Mi
spiego: cosa vorresti dalla vita? Riflette a lungo. Dice: un’auto. Poi
specifica: un’auto qualsiasi.
Issam
ha 22 anni, studia legge e sogna di andare a Gerusalemme. Descrivimi
una tua giornata, chiedo. Tipo, domani: domani cosa fai? Mi dice:
vado all’università. Sto all’università. E poi… Poi torno a
casa. Mi guarda: o forse accoltello un israeliano.
Gli dico: ma poi ti sparano. Mi dice: sono già morto.
Gli dico: ma poi ti sparano. Mi dice: sono già morto.
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