Si è concluso il processo per la morte dell'operaio dell'indotto AntoninoMingolla al tribunale di taranto
dalla cronaca della gazzetta del mezzogiorno
Si è chiuso con la condanna di tutti gli imputati, il processo di primo grado per la morte di Antonino Mingolla, 47enne operaio di Mesagne,dipendente della ditta Costruzioni metalliche tubolari (Cmt) deceduto sul
lavoro il 18 aprile 2006 all'interno dello stabilimento Ilva. Il giudice del tribunale di Taranto, Massimo De Michele ha condannato i sei dirigenti finiti alla sbarra a pene comprese tra i due anni e due anni e sei mesi di
reclusione. La pena maggiore è stata inflitta a Pietro Mantovani: per il titolare della ditta Smi sas, subappaltatrice della Cmt, il tribunale in composizione monocratica avrebbe riconosciuto una maggiore responsabilità condannandolo alla pena di due anni e sei mesi. Due anni di carcere, invece,
sono stati inflitti ad Alfredo De Lucreziis, tecnico d'area energia manutenzione meccanica dell'Ilva, Antonio Assentato, capo cantiere della ditta Cmt, Angelo Lalinga, responsabile di produzione, distribuzione e
trattamento acque, soffiaggio vapore, aria e gas dell'Ilva, Mario Abbattista, capo reparto energia, aria e gas dell'Ilva e Francesco Ventruto, responsabile del servizio di prevenzione e protezione rischi per la
sicurezza e salute durante il lavoro.
Le condanne decise dal magistrato, infine, sono state superiori anche alle richieste formulate dal pubblico ministero. Durante la sua requisitoria, infatti, il sostituto procuratore della Repubblica Enrico Bruschi, aveva
chiesto al tribunale la condanna di tutti gli imputati a una pena di un anno e otto mesi di carcere. Per tutti l'ipotesi di reato contestata dalla procura ionica era di cooperazione in omicidio colposo.
Quel 18 aprile 2006, Antonino Mingolla fu investito da una nube tossica mentre era impegnato assieme ad altri suoi tre colleghi nella sostituzione di una valvola alla rete gas «Afo» in prossimità della centrale elettrica
Cet1, all'interno dello stabilimento siderurgico. Il tribunale, quindi, ha accolto la tesi accusatoria della procura della Repubblica secondo la quale la ditta Cmt avrebbe predisposto un generico piano per la sicurezza «senza che a monte ci fosse una valutazione dei rischi effettivamente connessi all'attività lavorativa e alla specifica definizione delle modalità operative più idonee». Inoltre, nel piano in questione «non vi è traccia
dello stretto coinvolgimento dei lavoratori in un efficace processo conoscitivo dei rischi ai quali andavano esposti».
Mingolla e gli altri operai furono investiti da sostanze tossiche probabilmente sprigionate dalla tubazione a cui stavano lavorando: una vera e propria nube tossica inodore, insapore e incolore contenente una cospicua
quantità di ossido di carbonio. I soccorsi furono immediati, ma l'operaio mesagnese morì poco dopo l'arrivo al pronto soccorso dell'ospedale «Santissima Annunziata».
nota della rete
Antonino Mingolla è il marito di Franca Caliolo, una delle fondatrici dell'associazione dei familiari 12 giugno e successivamente della rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro. e oggi attiva nelle donne
per taranto il 18 aprile 2009 la rete nazionale organizzò a taranto una manifestazione nazionale di 5000 persone contro morti sul lavoro e inquinamento che ha anticipato tutta la battaglia odierna in corso, ma su posizioni nazionali e di classe e non localiste e interclassiste
rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro
bastamortesullavoro@domeus.it
13 dicembre 2012
da repubblica
Operaio ucciso dal gas killer Mancanza totale di sicurezza". L'incidente mortale sull'Altoforno 1 nel
2006, costato la vita ad Antonio Mingolla. Due anni anche ai dirigenti della ditta appaltatrice
Operaio ucciso dal gas killer condannati responsabili Ilva
TARANTO - I responsabili dell'Ilva condannati con i dirigenti di una delle ditte appaltatrici a due anni per concorso in omicidio colposo, per la morte di un operaio, stroncato dal gas killer fuoriuscito dall'Altoforno 1:
Antonio Mingolla, ucciso nel 2006 a 46 anni dalle esalazioni che lo hannoinvestito mentre, in assenza di adeguate misure di sicurezza, lavorava all'interno dell'Ilva.
La sentenza è arrivata nel pomeriggio, e ad ascoltarla c'era anche la vedova Francesca Caliolo, parte civile nel processo e, da allora, rappresentante della Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro. Condannati per le gravi carenze sul fronte della sicurezza che sono costate la vita all'operaio, dipendente di una ditta esterna del siderurgico, sei tra uomini Ilva e responsabili dell'impresa dell'indotto. Tra loro nessun dirigente di primo piano. Il sistema delle deleghe a cascata li ha messi al riparo dalla giustizia.
Condannati per il reato di concorso in omicidio colposo Alfredo De Lucreziis, tecnico d'area energia manutenzione meccanica dell'Ilva; Antonio Assentato, capo cantiere della ditta Cmt; Piero Mantovani, titolare della società "Smi sas", ditta subappaltatrice della Cmt; Angelo Lalinga, responsabile di produzione, distrubuzione e trattamento acque, soffiaggio vapore aria e gas dell'Ilva; Mario Abbattista, capo reparto energia, aria e gas dell'Ilva; e Francesco Ventruto, responsabile del servizio di prevenzione e protezione rischi per la sicurezza e salute durante il lavoro.
L'operaio, il giorno dell'incidente, stava smontando una grossa valvola, quando fu ucciso da un gas potentissimo, nell'area dell'Altoforno 1, la centrale elettrica chiusa nei giorni scorsi per manutenzione, come primo passa nell'adeguamento dettato dalla nuova Aia. Antonio Mingolla, padre di due figli, di Mesagne,
morì fulminato dal gas, incolore e inodore, ad altissima concentrazione tossica, fuoriuscito dalla conduttura alla quale stava lavorando. L' operaio, dipendente della società appaltatrice tarantina C.m.t., stava
operando con un collega su una passerella posizionata a venti metri d'altezza. Ha respirato quel potente veleno, chiamato in gergo "gas povero da altoforno", che lo ha ucciso praticamente sul colpo.
Per tentare di salvarlo due colleghi rischiarono la vita. Le indagini hanno chiarito che la fatalità giocò un ruolo marginale quel giorno. Le relazioni dei periti e degli ispettori del lavoro hanno tracciato uno spaccato
inquietante. Sintomatica l'assenza in un luogo a rischio di una bomboletta da almeno due litri, che avrebbe potuto salvare la vita all'operaioconsentendogli di fuggire dall'ambiente saturo di monossido di carbonio. Ma
di quelle procedure c'erano labili tracce sul manuale in dotazione agli operai, nel quale però campeggiava la scritta: "L'umorismo migliora l'ambiente di lavoro".
il racconto di franca caliolo, moglie di antonino mingolla
Per tutti questi anni Franca Caliolo, moglie
dell'operaio, ha condotto una
dura battaglia per raccontare la vicenda, mobilitare le
coscienze, ha
partecipato prima alla fondazione dell'associazione 12
giugno familiari
vittime del lavoro dell'Ilva
in seguito, ha contribuito ed è stata protagonista della
fondazione della
rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro, la
quale ha organizzato
diversi eventi per fare di questa morte una battaglia
per la vita degli
operai contro i profitti del capitale e di padron Riva,
compreso una
riuscita manifestazione nazionale a Taranto il 18 aprile
2009.
In questa occasione pubblichiamo ancora una volta, il racconto di Franca Caliolo, che rendono ben viva questa morte e un grido di rabbia e ribellione contro il capitale che uccide
rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro
sede di Taranto
347-1102638
La svolta di Francesca Caliolo
Il giorno in cui misi piede per la prima volta come operaio nel cantiere Ilva di Taranto, fui preso dallo sconforto, come mai mi era accaduto nella mia lunga esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla fine di quella giornata.
Trovare quel lavoro non era stato facile: dopo mesi di mobilità e decine di domande inoltrate a ditte del settore, un contratto a due mesi mi aveva dato respiro. Conoscevo già il cantiere per averci lavorato in trasferta qualche anno prima.
Quella sensazione che avevo ora però, era di definitiva appartenenza a quel luogo e questo mi infondeva pessimismo per il futuro.
Dovevo avere un'espressione molto avvilita se, tornato a casa, mia moglie mi abbracciò forte dicendosi sicura che presto avrei trovato qualcosa di meglio.
Invece restai in quella ditta per due anni, passai in un'altra come caposquadra per altri due, per poi tornare alla prima divenendo vice-capocantiere circa tre anni dopo. Questo scatto di livello mi gratificò, gravandomi al tempo stesso di una grande responsabilità a causa di lavori molto impegnativi che eravamo chiamati a fare.
Ciò che restava immutato era il paesaggio.
Contro un cielo velato dai fumi, si stagliavano bizzarre architetture: come cattedrali futuriste consacrate alla grande economia, svettavano numerose ciminiere attorniate da condutture metalliche che percorrevano in lungo e in largo la città-cantiere, trasportando enormi quantità di gas, per arrivare ai potenti altiforni capaci di ridurre i metalli in lava incandescente.
A fumi e vapori si aggiungeva il 'polverino'come lo chiamavano qui, che si sollevava dalle nere colline di carbone dei parchi minerali, in una sorta di moderna rivisitazione dell'Inferno dantesco. Di tanto in tanto, paradossalmente,il tutto era avvolto dalle note dell'"Inno alla gioia" di Beethoven, diffuse dagli altoparlanti per sottolineare il momento culmine della "colata". A questo scenario pian piano non ci feci più caso se non per il fatto che gradualmente contribuiva ad aggravare la mia allergia.
La prima estate che affrontai in Ilva fu una delle più calde in assoluto, toccò i 40°e a noi toccò ristrutturare un altoforno ancora caldo situato vicino a un altro in funzione, a 1.800°. In seguito bisognò revisionare dei silos contenenti residui oleosi che impregnavano le nostre tute rendendole
inutilizzabili; condutture buie e fuligginose che ci rendevano irriconoscibili come minatori a fine turno; strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse una qualche capacità funambolica.
Difficile raccontare questo stato di cose a chi non conosceva quell'ambiente.
E infatti non lo raccontavo. Non lo raccontavo ai conoscenti, non lo raccontavo ai parenti. Non lo raccontavo agli storici amici insieme ai quali avevo condiviso battaglie sociali: col tempo le nostre vite erano cambiate, dal punto di vista del lavoro però, la mia vita era cambiata più delle loro.
Lavoratori per lo più"di concetto", li ritenevo teorici idealisti, lontani anni luce dal mondo cui accennavo loro con battute ironiche.
Mia moglie era l'unica a conoscere nei dettagli la mia realtà lavorativa.
Quasi ogni mattina mi chiamava per un rapido saluto che mi rincuorava e poi, una volta a casa, mi martellava di domande per conoscere tutto della mia giornata.
Benché restio a raccontare aspetti poco rassicuranti per lei, mi ritrovavo poi a farle un resoconto completo anche di dettagli tecnici. Questo suo modo di essermi vicina era parte integrante di una condivisione totale della nostra vita e aveva in effetti il potere di alleviare tante giornate
difficili, così come mi aiutava il bellissimo, profondo legame con i nostri figli.
Ma anche al lavoro mi aiutavano i contatti umani. Ci tenevo a stabilire rapporti di amicizia prima che professionali; una risata, una battuta, qualche aneddoto ci faceva superare le giornate più pesanti. Avevo buoni rapporti con tutti o quasi e avevo rispetto per i superiori come per l'ultimo arrivato: in passato avevo subito troppe vessazioni solo per essermi opposto a delle ingiustizie da parte di capi tesi ad affermare il proprio ruolo, per non nutrire rispetto per chi avevo di fronte. Oltretutto lavoravo quasi sempre al fianco dei miei operai per condividere rischi e fatica.
Era nel periodo delle"fermate", vale a dire il blocco produttivo di un settore del cantiere che permetteva a noi di intervenire, che divenivo duro ed esigente, preoccupato che tutto andasse per il meglio.
Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. Non lo lasciavo perché volevo mettere un po' di risparmi da parte per avviare una attività indipendente, magari nella ristorazione. Cosa non facile con una famiglia monoreddito e due figli in crescita. D'altro canto, per quanto ancora avrei potuto svolgere un lavoro così usurante con due vertebre schiacciate,un menisco lesionato e una tendinite al braccio destro? E comunque sognavo un lavoro che mi lasciasse più tempo per vivere insieme alla mia famiglia e programmare finalmente delle ferie in estate, seguire il calcio, la politica, fare passeggiate senza sentirmi stanco e stressato.
E se la stanchezza era dovuta alla manualità del lavoro, lo stress derivava dal carico di responsabilità per l'esecuzione tecnica secondo precisi parametri e tempi sempre troppo limitati, dettati da gare al ribasso, che ci imponevano turni impossibili, arrivando a volte a lavorare per 16 e
addirittura 24 ore di seguito! Nel contempo bisognava fare attenzione che nessuno si facesse male e, a dire il vero, la frequenza degli incidenti in tutta l'Ilva non lasciava ben sperare.
A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di tutti i tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta si moriva anche. Le morti ci lasciavano attoniti a pensare all'esagerato tributo da pagare in cambio di un lavoro di per sé duro e alienante. Eroi, martiri del lavoro?
Nessuna medaglia, non funerali di stato.
E credo che nessuno di quegli uomini avesse voglia di immolarsi a un dio che chiedeva sacrifici in nome di interessi economici e non si prodigava ad attuare migliori misure di sicurezza, definendo"morti fisiologiche" quelle 2-3 che in media si verificavano per anno in un cantiere dove operavano circa 20.000 persone.
Ci sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto di un colosso; protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare, cercavamo di scongiurare la morte cercando di non pensarci.
D'altronde nella nostra ditta non era mai morto nessuno.
Sono passati ormai quasi nove anni dal mio ingresso in Ilva e sono ancora qui, alle prese con un'ennesima"fermata"che si presenta particolarmente complicata e che mi ha caricato di tensione già da qualche settimana.
Neppure questa pausa pasquale è servita a ricaricarmi, neppure la giornata di ieri passata in campagna respirando aria pura, cosa non comune per me.
Ho avuto da ridire con mia moglie anche prima di andare a dormire, col pretesto che non aveva sistemato bene la piega del lenzuolo. Lei ci è rimasta male perché era stanca, ma io ero nervoso e intrattabile e non ci siamo neppure dati la buonanotte. Più tardi appena avrò un po' di tempo la
chiamerò per scusarmi, tanto ormai lo sa che se non termina la fermata non torno sereno.
E questo lavoro ci dà già delle noie, un'operazione che non va per il verso giusto, ci tocca smontare e rimontare.
Siamo a venti metri da terra per sostituire delle valvole di un enorme tubo che è stato svuotato, così ci hanno assicurato, del gas che trasportava.
Indossiamo maschere collegate a bombole d'aria perché potrebbero esserci residui di gas, non è la prima volta che torno a casa con nausea e mal di testa da scoppiare.
E infatti verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è sentito male.
Questo gas è inodore e insapore, perciò più insidioso; un paio di noi hanno il rilevatore ma ormai è certo che da qualche parte c'è una perdita, comincio ad avere mal di testa.
Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta né l'Ilva si possono permettere di bloccare i lavori ogni volta che qualcosa non va, non gli conviene. A noi scegliere poi se ci conviene rischiare o non lavorare più.
Meno male almeno che i turni ora sono regolari, in fondo non è la prima volta che respiro questo maledetto gas, mi dà nausea,vertigini, mal di testa, ma una volta a casa mi riprendo, devo resistere fino ad allora.
Intanto il cellulare continua a squillare, sono quelli dell'altra squadra ed io per rispondere e richiamarli devo togliere la maschera, non posso ogni volta scavalcare questo tubo che ha 3m di diametro per raggiungere la postazione di sicurezza, perderei troppo tempo. Anche la scala di accesso è dall'altra parte, così mi allontano del massimo che mi è consentito.
Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele fosse qui e ci vedesse, capirebbe perché insisto tanto sul fatto che studi; ultimamente sono stato anche un po'duro con lui, ma non vorrei mai che si trovasse costretto un giorno a fare questo.
Ora non ce la faccio proprio più, mi sento mancare le forze.
Mi allontano verso l'ufficio, vorrei chiamare Franca ma si accorgerebbe che qualcosa non va, non voglio preoccuparla.
Nella mente mi scorrono delle immagini, mi rivedo ragazzino a bottega dal fabbro, durante le vacanze estive, mentre i miei amici giocano nel cortile dell'oratorio vicino. Ma io ho perso mio padre a nove mesi e son dovuto crescere in fretta. Mia madre, contadina, ha dovuto tirare su cinque figli
da sola.
Con un diploma professionale, non ho trovato di meglio da fare che il muratore, stringendo i denti per la fatica eccessiva per un fisico esile come il mio. Qualche anno dopo sono diventato un bravo venditore di macchinari per falegnameria, con i cui proventi ho potuto costruire la mia casa.
Dopo nove anni il mercato ristagna, torno così alla condizione di operaio stavolta metalmeccanico, nel Petrolchimico di Brindisi. Dopo altri nove anni la ditta ci impone la condizione di trasferisti; non ce la faccio ad allontanarmi dalla mia famiglia e rifiuto, ritrovandomi così in mobilità.
Fino ad oggi ho trascorso quasi nove anni qui in Ilva e chissà, forse la mia vita avrà una nuova svolta.
Non cerco di dare un senso a questa mia vita di fatica e sacrifici. Il senso è già tutto negli affetti. D'altronde la felicità non è una condizione continua, se non nelle fiabe. Noi dobbiamo accontentarci delle piccole cose e vivere intensamente i momenti di felicità che ci capitano, come dice mia moglie, che sa restituirmi la gioia di vivere. Ora devo tornare al lavoro, non mi sento ancora bene.
Qualcuno mi sconsiglia di risalire, non ho un bell'aspetto, dice.
Non posso, siamo una squadra e io ne sono anche responsabile. Infatti i problemi non sono ancora risolti; insistiamo, ricominciano le telefonate.
Cambia il turno, mi sollecitano a lasciare ad altri il completamento del lavoro. Non posso, ci sono quasi riuscito, è un lavoro pericoloso, meglio completarlo.
Stasera a casa voglio abbracciare Franca,Gabriele e Roberta, dire loro quanto li amo, proporgli di fare una crociera, è tanto che ci penso e poi voglio cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono stanco, stanco, così stanco che all'improvviso ho voglia di dormire, mi si chiudono gli occhi, squilla il cellulare, dormo.
Amore mio, è passato un anno da quando non ci sei più. Quante volte mi sono chiesta se non sentivi lo squillo della mia chiamata, se proprio in quel momento cadevi, se pensavi a noi.
Di quel giorno posso ricordare tutto, posso anche rivivere lo straziante dolore di una realtà dura da accettare, così dura da far crescere in un attimo i nostri ragazzi, proiettati improvvisamente davanti alla morte, quella del loro adorato papà.
Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto cadere tra le sue braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata prima.
Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a proteggerci col tuo amore e la tua tenerezza.
Dev'essere così, altrimenti non saprei spiegarmi perché continuo ad amarti tanto e ad avere la forza di vivere senza di te.
Franca Caliolo
In questa occasione pubblichiamo ancora una volta, il racconto di Franca Caliolo, che rendono ben viva questa morte e un grido di rabbia e ribellione contro il capitale che uccide
rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro
sede di Taranto
347-1102638
La svolta di Francesca Caliolo
Il giorno in cui misi piede per la prima volta come operaio nel cantiere Ilva di Taranto, fui preso dallo sconforto, come mai mi era accaduto nella mia lunga esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla fine di quella giornata.
Trovare quel lavoro non era stato facile: dopo mesi di mobilità e decine di domande inoltrate a ditte del settore, un contratto a due mesi mi aveva dato respiro. Conoscevo già il cantiere per averci lavorato in trasferta qualche anno prima.
Quella sensazione che avevo ora però, era di definitiva appartenenza a quel luogo e questo mi infondeva pessimismo per il futuro.
Dovevo avere un'espressione molto avvilita se, tornato a casa, mia moglie mi abbracciò forte dicendosi sicura che presto avrei trovato qualcosa di meglio.
Invece restai in quella ditta per due anni, passai in un'altra come caposquadra per altri due, per poi tornare alla prima divenendo vice-capocantiere circa tre anni dopo. Questo scatto di livello mi gratificò, gravandomi al tempo stesso di una grande responsabilità a causa di lavori molto impegnativi che eravamo chiamati a fare.
Ciò che restava immutato era il paesaggio.
Contro un cielo velato dai fumi, si stagliavano bizzarre architetture: come cattedrali futuriste consacrate alla grande economia, svettavano numerose ciminiere attorniate da condutture metalliche che percorrevano in lungo e in largo la città-cantiere, trasportando enormi quantità di gas, per arrivare ai potenti altiforni capaci di ridurre i metalli in lava incandescente.
A fumi e vapori si aggiungeva il 'polverino'come lo chiamavano qui, che si sollevava dalle nere colline di carbone dei parchi minerali, in una sorta di moderna rivisitazione dell'Inferno dantesco. Di tanto in tanto, paradossalmente,il tutto era avvolto dalle note dell'"Inno alla gioia" di Beethoven, diffuse dagli altoparlanti per sottolineare il momento culmine della "colata". A questo scenario pian piano non ci feci più caso se non per il fatto che gradualmente contribuiva ad aggravare la mia allergia.
La prima estate che affrontai in Ilva fu una delle più calde in assoluto, toccò i 40°e a noi toccò ristrutturare un altoforno ancora caldo situato vicino a un altro in funzione, a 1.800°. In seguito bisognò revisionare dei silos contenenti residui oleosi che impregnavano le nostre tute rendendole
inutilizzabili; condutture buie e fuligginose che ci rendevano irriconoscibili come minatori a fine turno; strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse una qualche capacità funambolica.
Difficile raccontare questo stato di cose a chi non conosceva quell'ambiente.
E infatti non lo raccontavo. Non lo raccontavo ai conoscenti, non lo raccontavo ai parenti. Non lo raccontavo agli storici amici insieme ai quali avevo condiviso battaglie sociali: col tempo le nostre vite erano cambiate, dal punto di vista del lavoro però, la mia vita era cambiata più delle loro.
Lavoratori per lo più"di concetto", li ritenevo teorici idealisti, lontani anni luce dal mondo cui accennavo loro con battute ironiche.
Mia moglie era l'unica a conoscere nei dettagli la mia realtà lavorativa.
Quasi ogni mattina mi chiamava per un rapido saluto che mi rincuorava e poi, una volta a casa, mi martellava di domande per conoscere tutto della mia giornata.
Benché restio a raccontare aspetti poco rassicuranti per lei, mi ritrovavo poi a farle un resoconto completo anche di dettagli tecnici. Questo suo modo di essermi vicina era parte integrante di una condivisione totale della nostra vita e aveva in effetti il potere di alleviare tante giornate
difficili, così come mi aiutava il bellissimo, profondo legame con i nostri figli.
Ma anche al lavoro mi aiutavano i contatti umani. Ci tenevo a stabilire rapporti di amicizia prima che professionali; una risata, una battuta, qualche aneddoto ci faceva superare le giornate più pesanti. Avevo buoni rapporti con tutti o quasi e avevo rispetto per i superiori come per l'ultimo arrivato: in passato avevo subito troppe vessazioni solo per essermi opposto a delle ingiustizie da parte di capi tesi ad affermare il proprio ruolo, per non nutrire rispetto per chi avevo di fronte. Oltretutto lavoravo quasi sempre al fianco dei miei operai per condividere rischi e fatica.
Era nel periodo delle"fermate", vale a dire il blocco produttivo di un settore del cantiere che permetteva a noi di intervenire, che divenivo duro ed esigente, preoccupato che tutto andasse per il meglio.
Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. Non lo lasciavo perché volevo mettere un po' di risparmi da parte per avviare una attività indipendente, magari nella ristorazione. Cosa non facile con una famiglia monoreddito e due figli in crescita. D'altro canto, per quanto ancora avrei potuto svolgere un lavoro così usurante con due vertebre schiacciate,un menisco lesionato e una tendinite al braccio destro? E comunque sognavo un lavoro che mi lasciasse più tempo per vivere insieme alla mia famiglia e programmare finalmente delle ferie in estate, seguire il calcio, la politica, fare passeggiate senza sentirmi stanco e stressato.
E se la stanchezza era dovuta alla manualità del lavoro, lo stress derivava dal carico di responsabilità per l'esecuzione tecnica secondo precisi parametri e tempi sempre troppo limitati, dettati da gare al ribasso, che ci imponevano turni impossibili, arrivando a volte a lavorare per 16 e
addirittura 24 ore di seguito! Nel contempo bisognava fare attenzione che nessuno si facesse male e, a dire il vero, la frequenza degli incidenti in tutta l'Ilva non lasciava ben sperare.
A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di tutti i tipi: ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta si moriva anche. Le morti ci lasciavano attoniti a pensare all'esagerato tributo da pagare in cambio di un lavoro di per sé duro e alienante. Eroi, martiri del lavoro?
Nessuna medaglia, non funerali di stato.
E credo che nessuno di quegli uomini avesse voglia di immolarsi a un dio che chiedeva sacrifici in nome di interessi economici e non si prodigava ad attuare migliori misure di sicurezza, definendo"morti fisiologiche" quelle 2-3 che in media si verificavano per anno in un cantiere dove operavano circa 20.000 persone.
Ci sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto di un colosso; protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare, cercavamo di scongiurare la morte cercando di non pensarci.
D'altronde nella nostra ditta non era mai morto nessuno.
Sono passati ormai quasi nove anni dal mio ingresso in Ilva e sono ancora qui, alle prese con un'ennesima"fermata"che si presenta particolarmente complicata e che mi ha caricato di tensione già da qualche settimana.
Neppure questa pausa pasquale è servita a ricaricarmi, neppure la giornata di ieri passata in campagna respirando aria pura, cosa non comune per me.
Ho avuto da ridire con mia moglie anche prima di andare a dormire, col pretesto che non aveva sistemato bene la piega del lenzuolo. Lei ci è rimasta male perché era stanca, ma io ero nervoso e intrattabile e non ci siamo neppure dati la buonanotte. Più tardi appena avrò un po' di tempo la
chiamerò per scusarmi, tanto ormai lo sa che se non termina la fermata non torno sereno.
E questo lavoro ci dà già delle noie, un'operazione che non va per il verso giusto, ci tocca smontare e rimontare.
Siamo a venti metri da terra per sostituire delle valvole di un enorme tubo che è stato svuotato, così ci hanno assicurato, del gas che trasportava.
Indossiamo maschere collegate a bombole d'aria perché potrebbero esserci residui di gas, non è la prima volta che torno a casa con nausea e mal di testa da scoppiare.
E infatti verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è sentito male.
Questo gas è inodore e insapore, perciò più insidioso; un paio di noi hanno il rilevatore ma ormai è certo che da qualche parte c'è una perdita, comincio ad avere mal di testa.
Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta né l'Ilva si possono permettere di bloccare i lavori ogni volta che qualcosa non va, non gli conviene. A noi scegliere poi se ci conviene rischiare o non lavorare più.
Meno male almeno che i turni ora sono regolari, in fondo non è la prima volta che respiro questo maledetto gas, mi dà nausea,vertigini, mal di testa, ma una volta a casa mi riprendo, devo resistere fino ad allora.
Intanto il cellulare continua a squillare, sono quelli dell'altra squadra ed io per rispondere e richiamarli devo togliere la maschera, non posso ogni volta scavalcare questo tubo che ha 3m di diametro per raggiungere la postazione di sicurezza, perderei troppo tempo. Anche la scala di accesso è dall'altra parte, così mi allontano del massimo che mi è consentito.
Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele fosse qui e ci vedesse, capirebbe perché insisto tanto sul fatto che studi; ultimamente sono stato anche un po'duro con lui, ma non vorrei mai che si trovasse costretto un giorno a fare questo.
Ora non ce la faccio proprio più, mi sento mancare le forze.
Mi allontano verso l'ufficio, vorrei chiamare Franca ma si accorgerebbe che qualcosa non va, non voglio preoccuparla.
Nella mente mi scorrono delle immagini, mi rivedo ragazzino a bottega dal fabbro, durante le vacanze estive, mentre i miei amici giocano nel cortile dell'oratorio vicino. Ma io ho perso mio padre a nove mesi e son dovuto crescere in fretta. Mia madre, contadina, ha dovuto tirare su cinque figli
da sola.
Con un diploma professionale, non ho trovato di meglio da fare che il muratore, stringendo i denti per la fatica eccessiva per un fisico esile come il mio. Qualche anno dopo sono diventato un bravo venditore di macchinari per falegnameria, con i cui proventi ho potuto costruire la mia casa.
Dopo nove anni il mercato ristagna, torno così alla condizione di operaio stavolta metalmeccanico, nel Petrolchimico di Brindisi. Dopo altri nove anni la ditta ci impone la condizione di trasferisti; non ce la faccio ad allontanarmi dalla mia famiglia e rifiuto, ritrovandomi così in mobilità.
Fino ad oggi ho trascorso quasi nove anni qui in Ilva e chissà, forse la mia vita avrà una nuova svolta.
Non cerco di dare un senso a questa mia vita di fatica e sacrifici. Il senso è già tutto negli affetti. D'altronde la felicità non è una condizione continua, se non nelle fiabe. Noi dobbiamo accontentarci delle piccole cose e vivere intensamente i momenti di felicità che ci capitano, come dice mia moglie, che sa restituirmi la gioia di vivere. Ora devo tornare al lavoro, non mi sento ancora bene.
Qualcuno mi sconsiglia di risalire, non ho un bell'aspetto, dice.
Non posso, siamo una squadra e io ne sono anche responsabile. Infatti i problemi non sono ancora risolti; insistiamo, ricominciano le telefonate.
Cambia il turno, mi sollecitano a lasciare ad altri il completamento del lavoro. Non posso, ci sono quasi riuscito, è un lavoro pericoloso, meglio completarlo.
Stasera a casa voglio abbracciare Franca,Gabriele e Roberta, dire loro quanto li amo, proporgli di fare una crociera, è tanto che ci penso e poi voglio cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono stanco, stanco, così stanco che all'improvviso ho voglia di dormire, mi si chiudono gli occhi, squilla il cellulare, dormo.
Amore mio, è passato un anno da quando non ci sei più. Quante volte mi sono chiesta se non sentivi lo squillo della mia chiamata, se proprio in quel momento cadevi, se pensavi a noi.
Di quel giorno posso ricordare tutto, posso anche rivivere lo straziante dolore di una realtà dura da accettare, così dura da far crescere in un attimo i nostri ragazzi, proiettati improvvisamente davanti alla morte, quella del loro adorato papà.
Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto cadere tra le sue braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata prima.
Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a proteggerci col tuo amore e la tua tenerezza.
Dev'essere così, altrimenti non saprei spiegarmi perché continuo ad amarti tanto e ad avere la forza di vivere senza di te.
Franca Caliolo
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