La
vicenda degli ostaggi sequestrati sulla nave “U. Diciotti” della
Guardia costiera italiana, l’incontro ufficiale, a Milano, tra
Salvini e Orbán (che lo ha definito “il mio eroe”), il tono
sprezzante verso la magistratura col quale il primo ha commentato la
notizia della sua incriminazione per sequestro di persona a scopo di
coazione e per altri reati affini: tutto ciò configura in maniera
esemplare la vocazione eversiva che caratterizza il governo
fascio-stellato, in
primis
il suo ministro dell’Interno. Diciamo eversiva
in senso proprio, cioè tendente a violare e stravolgere elementi
basilari della Costituzione e del diritto internazionale. Che questo
disegno eversivo assuma caratteri rozzi, sguaiati,
farseschi non deve trarre in inganno: in non pochi casi storici le svolte autoritarie, fino ai totalitarismi, sono state sottovalutate anche perché si manifestavano con stile di tal genere, quello che, in realtà, ne permise l’adesione di massa.
farseschi non deve trarre in inganno: in non pochi casi storici le svolte autoritarie, fino ai totalitarismi, sono state sottovalutate anche perché si manifestavano con stile di tal genere, quello che, in realtà, ne permise l’adesione di massa.
Della
vicenda della “U. Diciotti”, ampiamente descritta e analizzata da
altr*, mi soffermerò su un solo “dettaglio”, emblematico e
rivelatore. La decisione di deportare verso l’Albania venti
dei centosettantasette profughi sequestrati, oltre che violare,
anch’essa, la Costituzione e il diritto internazionale, non ha
altro senso se non quello squisitamente e grottescamente
propagandistico. E’ solo per tale scopo che si compiono gravi
violazioni quali il respingimento collettivo e la denegazione del
diritto a veder esaminata la propria domanda d’asilo dalle autorità
del Paese d’approdo o da un’altra autorità europea. Quale peso,
infatti, nell’economia dell’invasione
– per usare il loro lessico – avrebbero potuto avere venti
persone, in un Paese che conta quasi sessanta milioni e mezzo di
abitanti? In realtà, persone
esse non sono, secondo Salvini e seguaci, bensì pura merce: la
reificazione degli altri
è, lo sappiamo, una delle tendenze più tipiche e ricorrenti del
razzismo. Un tale processo di reificazione induce, tra l’altro, a
sottovalutare o a ignorare del tutto a quale apice di orrore sia
giunta quella che da molti anni chiamiamo ecatombe
mediterranea.
Anch’essa è il frutto di politiche eversive, di atti del tutto
intenzionali, quali la guerra contro le Ong che praticano ricerca e
soccorso in mare. Sicché potremmo azzardarci a definire genocidio
quella strage. Il più recente rapporto, Viaggi
disperati,
dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, documenta che, se il
numero di arrivi è nettamente calato, il tasso di mortalità durante
le traversate del Mediterraneo è cresciuto vertiginosamente rispetto
al 2017, al punto da essere oggi giunto a 1 ogni 18 arrivi (1.095
vittime). Si consideri che nell’anno passato esso era stato di una
persona ogni 42. Tutto ciò mentre in Libia – il “Paese sicuro”,
col quale l’Italia ha sottoscritto stringenti accordi di
cooperazione “per il contrasto dell’immigrazione clandestina”–
furoreggia la guerra civile. Ben lungi da suscitare pietas,
la sorte delle persone costrette a emigrare a rischio della vita –
i sommersi
e
i salvati,
per parafrasare Primo Levi – è perlopiù motivo d’incremento
del razzismo, grazie alla propaganda, verbale e fattuale, del governo
in carica, soprattutto del suo vociante ministro dell’Interno.
Sicché, dal momento dell’insediamento del nuovo governo, le
aggressioni razziste, fino agli omicidi, vanno susseguendosi con
cadenza costante, quasi quotidiana. En
passant
ricordo quanto “classico” e ben strutturato sia il razzismo
salviniano, se è vero che – per fare un solo esempio ben noto –
il 9 aprile del 2008, da capogruppo leghista del consiglio comunale
di Milano, osò affermare in pubblico “I topi sono più facili da
debellare degli zingari, perché sono più piccoli”, usando una
delle metafore zoologiche più tipiche dell’antisemitismo, più in
generale del razzismo nazista. Di fronte a tutto questo vi sono degli
intellettuali, illustri o quasi, più o meno di sinistra, che
denegano il peso che una tale propaganda martellante possa avere
sugli orientamenti e i comportamenti di massa. Qualcuno di loro è
arrivato a sostenere che l’attuale intensificazione del razzismo,
verbale e fattuale, non configurerebbe altro che “una fase
congiunturale, falsata dalla sensazione“.
https://www.democratica.com/focus/giornali-oggi-razzismo-migranti/
Altri
si dichiarano insofferenti verso le accuse di razzismo rivolte a
Salvini e ai suoi accoliti, poiché non sarebbero accompagnate da
alcun tentativo di analizzare il consenso di cui essi godono tra le
“masse” (come si diceva un tempo), perfino tra la classe operaia.
Per soddisfare questi ultimi, si potrebbe proporre qualche analogia
storica, non priva di pertinenza, traendola da Le
origini del totalitarismo
di Hanna Arendt (1948/1999), opera della quale – conviene precisare
– non tutto è condivisibile. Nondimeno, per spiegarci come mai la
propaganda salviniana abbia fatto breccia anche tra i meno
privilegiati, si potrebbe far ricorso alla teoria che Arendt propone
riguardo alla dissoluzione delle classi, propriamente intese, in
favore della plebe,
che, per causa soprattutto della crisi economica, si era formata
mediante i declassati
provenienti
dai più vari strati sociali. Come sostiene ancora Arendt, fu questa
plebe “disorganizzata e amorfa” (436), ormai slegata dai partiti
tradizionali, costituita da individui colmi di risentimento nonché
attratti “dall”uomo forte’, dal ‘grande capo’” (148), a
costituire uditorio e massa di manovra della propaganda nazista.
Quanto alla propaganda razzista odierna, essa rischia d’essere
rafforzata dalla “pornografia dei circuiti e delle reti”, come la
definì quasi profeticamente Jean Baudrillard nel lontano 1987
(L’altro
visto da sé,
1987/1997:14), la quale riduce tutti gli eventi, gli spazi, le
memorie a una sola dimensione, quella della comunicazione immediata,
incrementando così alienazione e individualismo, e indebolendo senso
critico e partecipazione. Dal canto suo, lo storico Walter Laqueur,
autore de La
Repubblica di Weimar
(1974/1977), sottolinea fino a qual punto il demagogismo
nazionalistico
(323) – com’egli lo definisce – dei nazisti esercitasse un
forte richiamo sulle masse. Ciò accadeva in un contesto rispetto al
quale l’attuale situazione italiana presenta analogie inquietanti:
“la paura della proletarizzazione nutrita dai ceti medi”, la
presenza di ben sei milioni di disoccupati, il calo dei salari e dei
sussidi di disoccupazione, il fatto che “la stragrande maggioranza
di laureati” non avesse “alcuna prospettiva di trovare
un’occupazione entro un futuro prevedibile” (315-318). Si
potrebbe obiettare che questi nostri frammenti di analisi manchino
del riferimento al passato più recente, se non aggiungessimo che,
certo, la situazione attuale è anche il retaggio – o il frutto
marcio, si potrebbe dire – di ciò che i governi precedenti hanno
seminato in abbondanza. Esemplificative delle loro politiche sono le
due leggi dell’aprile 2017: la 46, detta Minniti-Orlando
(“Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in
materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto
dell’immigrazione illegale”) e la 48, detta Minniti
(“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”),
accomunate dalla medesima, miope ideologia disciplinare, securitaria
e repressiva. Ciò per non dire dell’abbandono delle periferie e
dei quartieri popolari da parte delle formazioni di sinistra, con
qualche eccezione, cioè della rinuncia a compiere quel “lavoro di
massa”, fatto anche di partecipazione e convivialità, che un tempo
la contraddistingueva. Oggi essa, ridotta a uno stato frammentario e
di estrema debolezza, fatica perfino a immaginare la possibilità di
organizzare una manifestazione nazionale contro il governo
fascio-stellato. E’ dunque del tutto opportuno e benemerito
l’appello, lanciato dal manifesto,
in favore di una tale iniziativa.
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