“… «Il razzismo è un antico flagello dell’umanità». dissero lui
e la sua collega nel progetto diversità Mary-Clair King in una famosa audizione
davanti al Senato americano del 1993.”
“… «i gruppi che formano la popolazione umana non sono
nettamente separati, ma costituiscono un continuum…”
Scienza. Scomparso a 96 anni nella sua casa di Belluno uno
dei più grandi scienziati del Ventesimo secolo. Come gli astronomi osservano
nelle galassie lontane cose accadute nel passato, così, grazie a lui, i
genetisti leggono nel Dna la firma di eventi accaduti migliaia di anni fa e ne
traggono la storia dei popoli
Quando il giornale su cui scrivi da quasi 20 anni ti chiama un
sabato pomeriggio per raccontare uno dei più grandi scienziati del ventesimo
secolo, sentire una certa vertigine è inevitabile. Scrivere di Luigi Luca
Cavalli Sforza, morto a 96 anni ieri nella sua casa di Belluno, è un po’ come
rispondere ai perché innocenti di tua figlia cinquenne su come funziona il
mondo: ti mancano le parole, le conoscenze e le letture per sperare di poter
dare una spiegazione semplice, corretta ed efficace.
MA L’EREDITÀ CULTURALE che lascia
Cavalli Sforza va molto più in là dei suoi straordinari risultati scientifici.
Nato a Genova nel 1922, si laurea nel 1944 a Pavia in
medicina, dopo che uno dei suoi professori a Torino, Giuseppe Levi, il maestro dei tre futuri premi Nobel Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini, viene allontanato dalla cattedra per le leggi razziali. E questo non è solo un triste aneddoto personale, perché la questione della razza sarà centrale nella vita scientifica di Cavalli Sforza.
medicina, dopo che uno dei suoi professori a Torino, Giuseppe Levi, il maestro dei tre futuri premi Nobel Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini, viene allontanato dalla cattedra per le leggi razziali. E questo non è solo un triste aneddoto personale, perché la questione della razza sarà centrale nella vita scientifica di Cavalli Sforza.
Non è la medicina però la sua vera passione. Prima della laurea
si era dedicato a studiare il batterio dell’antrace, o carbonchio, e i suoi
effetti sui polmoni. Ma subito dopo la laurea, inizia a collaborare con Adriano
Buzzati Traverso, che sarebbe diventato il primo professore di genetica in
Italia, e capisce che è la genetica il suo cammino. I primi oggetti del suo
studio furono i cromosomi dei moscerini della frutta – in quegli anni ancora
non era stato descritto il Dna – e la sessualità dei batteri. Conscio delle
proprie lacune matematiche, si mette anche a studiare statistica con Ronald
Fisher, il migliore dell’epoca nel campo: una scelta che avrebbe determinato il
suo futuro scientifico. La sua carriera si svolge, fin da quegli anni, fra
Italia, Inghilterra e Stati Uniti, dove insegnerà a partire dal 1970 a
Stanford. Ma è quando inizia a interessarsi della genetica umana che Cavalli
Sforza inizia il viaggio scientifico che cambia radicalmente la nostra visione
del mondo.
Fu uno dei primi a capire che lo studio comparato delle
popolazioni umane – la genetica delle popolazioni – avrebbe potuto fornire
delle informazioni chiave non solo per la genetica, ma anche per l’antropologia
e per lo studio dell’evoluzione dei primi esseri umani. Solo la sua
dimestichezza con la statistica gli permise di far fare alla disciplina un
salto di qualità. Prima iniziò studiando i fattori che modificano la
distribuzione dei gruppi sanguigni tra le diverse popolazioni, per poi
concentrarsi sul cromosoma Y – il pezzettino di cromosoma che hanno tutti i
maschi biologici – e da lì corroborò dal punto di vista genetico la teoria
paleontologica dell’«Out of Africa», secondo la quale i primi ominidi
lasciarono il continente africano circa 100mila anni fa per poi colonizzare il
resto del pianeta.
FU UNA VERA RIVOLUZIONE: la genetica delle
popolazioni era in grado di costruire un «albero genealogico» capace di
raccontare la nostra storia – e quella di tutti gli esseri viventi – attraverso
il Dna. Come gli astronomi – la disciplina a cui il padre l’aveva voluto
appassionare da bambino – osservano oggi negli astri e nelle galassie lontane
cose accadute nel passato, così, grazie a Cavalli Sforza, anche i genetisti
possono osservare oggi nel Dna la firma di eventi accaduti migliaia di anni fa,
e da lì trarre conclusioni sulla storia delle popolazioni. Non solo: nel suo
famoso saggio Geni,
popoli e lingue (1996), usando anche la demografia, traccia un
parallelismo fra le linee filogenetiche delle popolazioni mondiali, la
linguistica e l’archeologia e ne osserva la sostanziale sovrapponibilità. Non è
solo il primo «atlante genetico» dell’umanità. Le tre discipline raccontano
tutte coerentemente la storia dei popoli sulla terra: una storia di migrazioni
e meticciati, con buona pace dei salvini di tutta Europa.
E c’è una seconda conclusione altrettanto attuale. Proprio
mentre si stava portando a termine il Progetto Genoma Umano che avrebbe
sequenziato per la prima volta il nostro Dna, Cavalli Sforza coordinò un
progetto complementare, ma per studiare la diversità del genoma umano (Human
Genome Diversity Project), e cioè quello che ci rende differenti. E che invece,
ineluttabilmente, gettò le basi per smontare per sempre l’idea di «razza».
«Il razzismo», dissero lui e la sua collega nel progetto
diversità Mary-Clair King in una famosa audizione davanti al Senato americano
del 1993, «è un antico flagello dell’umanità». Il team scientifico guidato da
Cavalli Sforza dimostrò infatti che gli esseri umani sono piuttosto omogenei
geneticamente, che «i gruppi che formano la popolazione umana non sono
nettamente separati, ma costituiscono un continuum. Le differenze nei geni
all’interno di gruppi accomunati da alcune caratteristiche fisiche visibili
sono pressoché identiche a quelle tra i vari gruppi, e inoltre le differenze
tra singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra gruppi
razziali», come scrive efficacemente in Chi
siamo. La storia della diversità umana (1995). In altre
parole, il mio vicino potrebbe essere più diverso da me, geneticamente, di un
aborigeno australiano.
MA CAVALLI SFORZA, convinto della forza
dell’evidenza scientifica, non era un illuso. E nello stesso libro ricordava:
«Pensiamo che la scienza sia obiettiva. La scienza è modellata dalla società
perché è un’attività umana produttiva che richiede tempo e denaro, e dunque è
guidata e diretta da quelle forze che nel mondo esercitano il controllo sul
denaro e sul tempo. Le forze sociali ed economiche determinano in larga misura
ciò che la scienza fa e come lo fa».
Il manifesto 2 settembre 2018
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