ricordo di Soumaila, assassinato a 29 anni
Sono Soumaila ho 29 anni, sono rifugiato dal Mali.
Lavoravo come responsabile della comunicazione in un partito di opposizione al Governo.
Un lavoro, il mio, che segna il destino in un paese come il Mali.
Dopo una conferenza pubblica in cui abbiamo denunciato i crimini del governo venni a sapere
che il mio nome compariva sulla lista delle persone accusate, da arrestare. Dovevo trovare
una soluzione, avevo paura: ho saputo solo dopo che tanti miei amici e colleghi sono stati
imprigionati o uccisi.
Sono scappato in Algeria. Pensavo che la mia vita fosse al sicuro.
Ma durò solo un anno. L’ebola, scoppiata a centinaia di chilometri da lì fu la mia nuova
condanna. Se sei nero e africano, allora hai l’ebola. Non mi era permesso uscire di casa per
fare la spesa o per andare a lavorare. Un amico maliano, anche lui rifugiato, capì la situazione
prima di me, scappò in Libia e poi negli Stati Uniti. Decisi di fare lo stesso, lo stigma sociale mi
stava uccidendo. Come tanti migranti africani sono stato costretto a passare dalla Libia per
tentare di arrivare in Europa.
Poco dopo essere entrato nel paese, mi hanno fermato delle persone armate e mi hanno tolto
soldi e documenti. Mi hanno messo in prigione, una cella di meno di due metri per due, con
altre trenta persone, da dove esci solo se paghi. Sono uscito grazie all’aiuto di un amico che
pagò per me. Mi dissero che potevo andare via dalla Libia, facilmente,. Non era vero, l’ho
scoperto quando era troppo tardi: pagai il trafficante, ma mi ritrovai su una spiaggia isolata con
altre centinaia di persone e davanti a me c’era solo un gommone.
Era la notte del 24 dicembre 2014. Faceva freddo, era buio. Volevo tornare indietro ma
minacciarono di uccidermi. Siamo saliti su quel gommone. Eravamo in 120. Non passò
nemmeno un’ora che affondò. Ho visto annegare tante persone. Ci siamo salvati in 30. Io
sapevo nuotare, rimasi in acqua 45 minuti prima di riuscire a tornare indietro. Il giorno dopo, il
25 dicembre, ci hanno fatto imbarcare di nuovo, con altre 100 persone, su un altro gommone.
Un altro viaggio. Siamo rimasti in mare per un giorno finché il 26 dicembre siamo stati salvati
dalla Marina Militare Italiana. Ci hanno fatto sbarcare a Palermo, in Sicilia.
L’Europa mi ha accolto, nonostante le resistenze, le chiusure, i muri, nonostante avrebbe
preferito non farlo. L’Europa accoglie ogni giorno me e tanti rifugiati che non si lasciano
fermare. Perché a scappare dalla morte si impara in fretta e un muro, un filo spinato, il mare,
anche se d’inverno, come è successo a me, non fanno paura a chi non ha più nulla da
perdere.
Ora, però, penso solo a costruire il mio futuro. Spero che la mia laurea in giurisprudenza
venga riconosciuta: sogno di fare l’avvocato qui e di sentirmi un giorno finalmente accolto.
Un giorno, però, se avrò la possibilità, vorrei tornare in Mali ma non so quando questo potrà
accadere.
Lavoravo come responsabile della comunicazione in un partito di opposizione al Governo.
Un lavoro, il mio, che segna il destino in un paese come il Mali.
Dopo una conferenza pubblica in cui abbiamo denunciato i crimini del governo venni a sapere
che il mio nome compariva sulla lista delle persone accusate, da arrestare. Dovevo trovare
una soluzione, avevo paura: ho saputo solo dopo che tanti miei amici e colleghi sono stati
imprigionati o uccisi.
Sono scappato in Algeria. Pensavo che la mia vita fosse al sicuro.
Ma durò solo un anno. L’ebola, scoppiata a centinaia di chilometri da lì fu la mia nuova
condanna. Se sei nero e africano, allora hai l’ebola. Non mi era permesso uscire di casa per
fare la spesa o per andare a lavorare. Un amico maliano, anche lui rifugiato, capì la situazione
prima di me, scappò in Libia e poi negli Stati Uniti. Decisi di fare lo stesso, lo stigma sociale mi
stava uccidendo. Come tanti migranti africani sono stato costretto a passare dalla Libia per
tentare di arrivare in Europa.
Poco dopo essere entrato nel paese, mi hanno fermato delle persone armate e mi hanno tolto
soldi e documenti. Mi hanno messo in prigione, una cella di meno di due metri per due, con
altre trenta persone, da dove esci solo se paghi. Sono uscito grazie all’aiuto di un amico che
pagò per me. Mi dissero che potevo andare via dalla Libia, facilmente,. Non era vero, l’ho
scoperto quando era troppo tardi: pagai il trafficante, ma mi ritrovai su una spiaggia isolata con
altre centinaia di persone e davanti a me c’era solo un gommone.
Era la notte del 24 dicembre 2014. Faceva freddo, era buio. Volevo tornare indietro ma
minacciarono di uccidermi. Siamo saliti su quel gommone. Eravamo in 120. Non passò
nemmeno un’ora che affondò. Ho visto annegare tante persone. Ci siamo salvati in 30. Io
sapevo nuotare, rimasi in acqua 45 minuti prima di riuscire a tornare indietro. Il giorno dopo, il
25 dicembre, ci hanno fatto imbarcare di nuovo, con altre 100 persone, su un altro gommone.
Un altro viaggio. Siamo rimasti in mare per un giorno finché il 26 dicembre siamo stati salvati
dalla Marina Militare Italiana. Ci hanno fatto sbarcare a Palermo, in Sicilia.
L’Europa mi ha accolto, nonostante le resistenze, le chiusure, i muri, nonostante avrebbe
preferito non farlo. L’Europa accoglie ogni giorno me e tanti rifugiati che non si lasciano
fermare. Perché a scappare dalla morte si impara in fretta e un muro, un filo spinato, il mare,
anche se d’inverno, come è successo a me, non fanno paura a chi non ha più nulla da
perdere.
Ora, però, penso solo a costruire il mio futuro. Spero che la mia laurea in giurisprudenza
venga riconosciuta: sogno di fare l’avvocato qui e di sentirmi un giorno finalmente accolto.
Un giorno, però, se avrò la possibilità, vorrei tornare in Mali ma non so quando questo potrà
accadere.
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