domenica 3 giugno 2018

pc 3 giugno - 2 - POPULISMO DI SINISTRA E “ROTTURA DELL’EUROPA”

GLI ESITI DELLE ELEZIONI DEL 4 MARZO E LA LOTTA CONTRO IL POPULISMO DI SINISTRA - 

da Nuova Egemonia - nuovaegemonia@yahoo.com


2a parte

POPULISMO DI SINISTRA E “ROTTURA DELL’EUROPA”

Lo sganciamento della “rottura dell’Europa” dalla prospettiva proletaria
Lo sganciamento, nella propaganda e/o nella prassi politica, della “rottura dell’Europa” dalla prospettiva della rivoluzione proletaria e dall’affermazione del potere operaio e popolare, caratterizza oggi tutte le componenti del populismo di sinistra.  Sul versante delle forze di opposizione, tale “sganciamento” oggi rappresenta una delle principali caratteristiche se non la principale, che consente di identificare un partito, un organismo, un centro intellettuale, un orientamento ideologico ecc., come appartenente al campo del populismo  di sinistra .  Si può certo distinguere in questo campo tra le componenti che si collocano all’ala destra di tale campo e che sostengono che la rottura dell’Europa è, in quanto tale, un elemento di progresso ed una condizione più favorevole (se non addirittura una necessaria premessa) per la trasformazione politica e sociale e chi  invece, collocandosi alla sua ala sinistra, pone l’obiettivo della rottura dell’Europa in termini tattici nel
quadro di un programma minimo, eventualmente collegato alla battaglia per l’affermazione di un governo alternativo o di “emergenza nazionale”.  La sostanza di fondo è però simile in entrambi i casi, con la conseguenza di determinare i medesimi effetti sul piano politico, perché comunque, o per convinzione o per un’erronea impostazione tattica, si pone l’accento sulla necessità che si affermi a livello di massa un orientamento favorevole alla rottura capitalistica  dell’imperialismo europeo svincolato dalla necessaria costruzione della coscienza di classe, dell’organizzazione e della prassi finalizzate  alla rottura proletaria della catena imperialista.
 

Che l’analisi e la teoria  dell’imperialismo risultino negate apriori o deformate  perché sul terreno ideologicopolitico si sceglie una teoria economica borghese apologeta dell’imperialismo, o perché si sceglie di perseguire un’impostazione strategica e tattica che “suggerisce”, per presunta utilità e necessità politica, di depotenziare il carattere rivoluzionario della teoria leninista dell’ “Imperialismo”, in ogni caso la conseguenza è oggi simile sotto il profilo dello slittamento nella direzione del populismo e del riformismo.  Risultano quindi appartenere al campo del “populismo di sinistra” tutte quelle forze e quegli orientamenti che, anche richiamandosi all’anticapitalismo, e persino alla rivoluzione ed al socialismo,  che, in particolare nella situazione emergente dagli esiti delle elezioni, pongono in primo piano la contraddizione da un lato, tra il “capitale finanziario” europeo e gli assetti economici e politici dell’Unione europea e, dall’altro, le condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari, lo “stato sociale”, i “diritti”, i “sistemi di rappresentanza  democratici” e la “sovranità nazionale”.   La tesi del populismo di sinistra, ridotta alla sua sostanza teorica e politica, è che l’Europa del “capitale finanziario”  impone in Italia, anche a consistenti settori della stessa classe dominante, un ruolo subordinato sul piano economico (politiche commerciali , imposizioni in materia fiscale e di gestione della spesa pubblica, sistema monetario) e politico-statale (sistemi di rappresentanza, sovranità nazionale, politiche di sicurezza, politica estera ecc.), con conseguenze ulteriori e supplementari, su tutti i piani, a danno della stragrande maggioranza della popolazione. 
La confusione populista e sciovinista sulla questione dei caratteri strutturali del capitalismo italiano
L’imbroglio che porta sul piano politico e teorico, allo slittamento in direzione sciovinista e nazionalista, consiste nel confondere e porre sullo stesso piano due questioni di fondo radicalmente diverse. 
La prima è la questione relativa al carattere imperialista del capitalismo italiano. Rispetto a questa questione l’Italia è semplicemente un paese imperialista a tutti gli effetti e quindi come tale va considerato sul piano dell’analisi, della teoria e dell’iniziativa politica. 
La seconda è invece quella relativa alla natura specifica dell’imperialismo italiano.  Rispetto a questa ulteriore caratteristica, differente rispetto alla prima ed a quella subordinata, l’Italia è “un paese imperialista debole” che rispetto alle principali potenze europee, risulta non solo in posizione intermedia, ma persino relativamente più vicina alla Spagna e persino alla Grecia, piuttosto che alla Germania ed alla stessa Francia.   Queste due questioni attengono a problemi, necessità e compiti politici diversi tra loro. 
 L’Italia, un paese imperialista come gli altri
Dalla prima questione, ossia dal carattere imperialista dell’Italia deriva che la borghesia italiana è una componente a pieno titolo della borghesia  europea. L’’Italia imperialista coopera con le altre potenze europee, e questo avviene ovviamente anche tramite le istituzioni e le politiche dell’UE. La borghesia italiana opera nel quadro dell’Unione europea al fine di garantirsi, tramite questa ulteriore mediazione economico-istituzionale, l’affermazione dei propri interessi a danno della classe operaia e delle masse popolari non solo del “proprio paese”, ma anche della popolazione di tutti gli altri paesi europei. In questo la borghesia italiana procede esattamente come quella delle altre potenze europee. Non è quindi possibile, da un punto di vista di classe, senza cadere nel nazionalismo e nello sciovinismo, fare alcuna distinzione tra una presunta maggiore vocazione criminale e banditesca del “capitale finanziario tedesco” ed una presunta minore rapacità del “capitale finanziario italiano”.  Qui la questione dell’effettiva “debolezza” dell’imperialismo italiano non c’entra assolutamente nulla e chiunque invece la ritenga, a tale livello, pertinente, non può non scivolare verso il nazionalismo, il corporativismo e verso l’accodamento a questa o a quella frazione della borghesia.  Contro chi scivola nel pantano populista-riformista bisogna ribadire che  la borghesia italiana è anche la principale responsabile delle stesse politiche ed istituzioni europee che gravano oltre che sulle masse popolari italiane e su quelle degli altri paesi europei, anche sui popoli e sulle piccole nazioni di varie aree del mondo oggetto della banditesca iniziativa congiunta della borghesia dei paesi della stessa Unione Europea sul piano delle politiche economiche imperialiste, della repressione militare, delle politiche guerrafondaie e della cooperazione con gli Stati fascisti (Turchia, Israele, Ucraina, India, Filippine, Perù  ecc.) contro le lotte di  liberazione nazionale e le guerre popolari dirette dai partiti comunisti maoisti.  E’ quindi evidente che da questo punto di vista il populismo di sinistra finisce per operare come una insperata stampella per la borghesia italiana e per l’imperialismo italiano aiutando entrambi a negare o smussare, in modo corporativo, gli antagonismi di classe.
L’Italia, un anello debole della catena dell’imperialismo
La seconda questione attiene invece al dato per cui l’Italia è realmente un paese imperialista relativamente più debole rispetto alle principali potenze europee.  Da questa questione non deriva affatto che la borghesia italiana sia meno bellicosa, o addirittura che, almeno in parte, sia interessata a supportare un’ipotesi di rottura progressista dell’Europa, ma deriva invece il dato che in Italia le contraddizioni sociali e di classe sono più profonde, e che potenzialmente possono tradursi in modo più radicale, conseguente e duraturo anche sul piano delle condizioni soggettive,  come ben attesta la storia della lotta di classe nel nostro paese. Ne deriva ancora che in Italia i problemi per la borghesia sono maggiori, che gli assetti e gli equilibri politici sono più fragili e si logorano più facilmente. Ne deriva inoltre che a maggior ragione la borghesia italiana è oggi costretta, come dimostrano le elezioni del 4 marzo, ad essere più apertamente reazionaria di quella dei principali paesi europei.  Ne deriva infine che la borghesia italiana cerca di far fronte all’attuale situazione fomentando più apertamente il nazionalismo, il razzismo ed il fascismo, concepite sempre di più come la strada migliore e più efficace per affrontare la crisi economica, l’accentuata competizione imperialista ed il logoramento dell’ormai decrepito sistema di rappresentanza “democratico”.  Logoramento a sua volta dovuto alle crescenti contraddizioni inter-borghesi ,  alla crisi di consenso a livello di massa ed alla necessità di un ruolo più attivo ed intervenzionista sulla scena della politica internazionale, in particolare in quelle aree dove i rapporti internazionali consentono all’Italia imperialista residuali margini di manovra.  Sotto questo profilo l’Italia imperialista ha meno “gradi di libertà” e meno possibilità di scelte alternative sul piano interno  ed è quindi maggiormente costretta, in una fase ed in una situazione come l’attuale, in tutte le sue componenti a demandare al grande capitale la direzione complessiva ed a delegare, di volta in volta, la propria rappresentanza politica ed istituzionale a quelle forze politiche ed istituzionali che emergono efficacemente, sotto il profilo delle politiche manipolatorie di costruzione del consenso di massa, come in grado di farsi portatrici delle politiche più reazionarie ed espansionistiche.  In modo corrispondente l’Italia imperialista, in quanto “imperialismo debole”, ha meno “margini di manovra” sul piano della  concorrenza economica e della politica estera dove deve quindi cercare di sfruttare con rapidità, aggressività e decisione gli spazi che le vengono lasciati,  in posizioni ed aree generalmente secondarie, dalle potenze imperialiste egemoni.   Quello che l’Italia imperialista può dunque fare, cosa che d’altronde storicamente ha sempre fatto, è cercare di far valere la propria, pur subordinata posizione, per favorire una certa ridefinizione degli assetti egemonici piuttosto che un'altra al fine di trarre il massimo vantaggio per la propria borghesia ed il massimo danno per le masse popolari e per le popolazioni del proprio paese come di quelle che vengono assoggettate alle proprie specifiche aree di penetrazione e d’influenza.  Dalla seconda questione per cui l’Italia è un paese imperialista relativamente più debole rispetto alle principali potenze europee non deriva dunque la possibilità di un’ “opposizione nazionale” e “popolare” democratica e progressiva  all’Europa del “capitale finanziario” che si presuppone capace come tale di comprendere rilevanti strati di borghesia, non deriva affatto una maggiore propensione ad un assetto politico “democratico” e “progressivo” sul piano interno, e ad una minore bellicosità ed aggressività sul piano delle politiche economiche, diplomatiche e militari sul piano esterno, deriva viceversa la piena applicabilità all’Italia della nota tesi leninista per cui la catena imperialista tende a rompersi dove gli anelli sono più deboli. I questo senso anche gli esiti delle elezioni del 4 marzo, che rappresentano un salto di qualità nell’accumulo e nella concentrazione delle contraddizioni sociali e politiche, attestano e ripropongono questo dato.
  L’imbroglio nazional-sciovinista dell’italexit: “sovranità nazionale” senza rivoluzione proletaria
Se consideriamo insieme queste due caratteristiche dell’imperialismo italiano per cui da un lato l’Italia è un paese imperialista a tutti gli effetti e dall’altro è un “paese imperialista debole” ne consegue necessariamente come l’Italia imperialista debba per forza mirare, all’interno dell’accentuarsi della crisi e della destabilizzazione degli equilibri internazionali, ad una ridefinizione, eventualmente anche drastica sotto il profilo formale, degli assetti egemonici interni all’Europa. Questa ridefinizione può benissimo passare, dopo una fase transitoria interna, anche per una rottura imperialista dell’Unione europea alimentata dalle guerre commerciali e pompata dal populismo di destra, dal nazionalismo e dalla propaganda xenofoba e razzista. Da questo punto di vista l’Italia imperialista può diventare tanto più apertamente e sgangheratamente nazionalista, sciovinista e razzista, quanto più i suoi specifici interessi le impongono la ricerca di nuovi assetti egemonici all’interno della stessa Europa. Assetti rispetto a cui non ha la minima possibilità di metterne in discussione le relazioni gerarchiche con la relativa perdurante egemonia delle principali potenze. Questo a parte assai improbabili eventuali esiti a lei favorevoli di una guerra imperialista su vasta scala.  La propaganda della “sovranità nazionale” e della necessità di un’emancipazione dell’Italia dalla posizione subordinata all’interno della gerarchia internazionale, è quindi, in ultima analisi, un imbroglio nazionalista e populista, che copre e serve sia l’arrabattarsi brutale e prepotente dell’imperialismo italiano in nicchie e aree d’influenza secondarie, sia la propensione, tipica della borghesia italiana, a legarsi al carro del più forte ossia a lottare per scegliersi quegli assetti egemonici per lei più favorevoli, ma che comunque non possono mai vederla operare in modo autonomo ed indipendente dalle potenze imperialiste più forti.   Da questo punto di vista il “populismo di sinistra” con la sua battaglia per una rottura capitalistica dell’Europa e con la sua parola d’ordine della rivendicazione della  “sovranità nazionale” si avvicina pericolosamente, in modo paradossale, ai partiti ed agli orientamenti populisti di destra e parafascisti (M5S, Lega) cosiddetti “euroscettici”. Questi partiti e questi orientamenti sono favorevoli ad una disgregazione degli attuali assetti egemonici europei, ed eventualmente anche ad una loro rottura imperialista, il tutto nella prospettiva di una radicale ridefinizione degli assetti europei con uno spostamento maggiormente centrato sull’economia imperialista tedesca (a cui oggi è già strettamente legata  buona parte di quell’economia dell’Italia del  Nord e del Nord-Est, cosa che trova espressione  politica ed istituzionale proprio nel leghismo e in altre forze autonomiste e federaliste dell’Italia del Nord).  Si può comprendere quindi come le posizioni sull’Europa del populismo di sinistra abbiano pesanti conseguenze sul piano dell’iniziativa politica, sociale, sindacale, culturale. C’è una bella differenza infatti tra l’indirizzare la battaglia politica contro la borghesia imperialista italiana smascherando sistematicamente i suoi imbrogli populisti e nazionalisti e invece l’indirizzarla verso la costruzione di un blocco sociale politico corporativo con  rilevanti componenti della stessa borghesia (con conseguenti complicità, accodamenti  ed “astuzie tattiche” nei confronti di forze populiste di destra come il M5S)  contro un “capitale finanziario europeo” peraltro spesso connotato strumentalmente, a copertura della sua effettiva natura imperialista, in senso puramente tecnocratico.  

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