Il 29 gennaio, nell'ambito delle 3 giornate (29-30-31 di sostegno alla guerra popolare in India) sviluppiamo iniziative, assemblee specifiche nelle e alle fabbriche delle multinazionali indiane, per noi in Italia e in Europa, per forgiare un legame internazionalista tra i lavoratori nei paesi imperialisti e dei lavoratori indiani.
Comitato internazionale di sostegno alla guerra popolare in India - Italia - csgpindia@gmail.com
(Da le
Monde diplomatique (Il Manifesto), gennaio 2015 –
di Naiké Desquesnes)
Comitato internazionale di sostegno alla guerra popolare in India - Italia - csgpindia@gmail.com
(Da le
Monde diplomatique (Il Manifesto), gennaio 2015 –
di Naiké Desquesnes)
Per
attirare gli investitori in India, il primo ministro Narendra Modi
propone di aumentare la flessibilità lavorativa. Come dimostra
l’importante sciopero del 2011-2012 alla Maruti-Suzuki, i giochi
non sono del tutto fatti. Solidarietà tra precari e dipendenti,
rinnovamento sindacale: i giovani lavoratori resistono e sconvolgono
il repertorio tradizionale della lotta in fabbrica.
Sesto
produttore mondiale con due milioni di autoveicoli costruiti nel
2013, l’India spera di salire al quarto posto entro il 2016. La
riforma del lavoro presentata a ottobre 2014 dal nuovo ministro
Narendra Modi dovrebbe favorire un ritorno alla crescita pari a
quella che il settore ha conosciuto
negli anni 2000 (nell’ordine dell’8% l’anno in media). Essa impone la diminuzione degli ispettorati del lavoro, la “semplificazione” di alcune leggi, l’allungamento della durata dell’apprendistato, spingendo al ricorso sistematico a una mano d’opera non stabile e pagata meno. Queste misure sono in parte destinate ad attirare gli investitori stranieri, mentre la campagna del governo “Made in India” è al suo culmine. Esse rischiano di aggravare la precarizzazione che coinvolge l’industria da parecchi anni e che ha fatto emergere negli operai giovani pratiche e aspirazioni nuove. Il conflitto che ha scosso il costruttore Maruti-Suzuki nel 2011 e 2012, dove la mobilitazione persiste malgrado la durezza della repressione, funge sempre da modello.
negli anni 2000 (nell’ordine dell’8% l’anno in media). Essa impone la diminuzione degli ispettorati del lavoro, la “semplificazione” di alcune leggi, l’allungamento della durata dell’apprendistato, spingendo al ricorso sistematico a una mano d’opera non stabile e pagata meno. Queste misure sono in parte destinate ad attirare gli investitori stranieri, mentre la campagna del governo “Made in India” è al suo culmine. Esse rischiano di aggravare la precarizzazione che coinvolge l’industria da parecchi anni e che ha fatto emergere negli operai giovani pratiche e aspirazioni nuove. Il conflitto che ha scosso il costruttore Maruti-Suzuki nel 2011 e 2012, dove la mobilitazione persiste malgrado la durezza della repressione, funge sempre da modello.
La
zona industriale di Manesar, sorta all’inizio del millennio, si
estende ai bordi dell’autostrada che collega New Delhi a Jaipur,
che si percorre in una nebbia di polvere e inquinamento, con i taxi
collettivi (autorickshaws) che faticano a farsi strada tra i
giganteschi camion. Tra un McDonald’s e una campo incolto dall’erba
ingiallita, grandi cartelli pubblicitari annunciano la prossima
nascita di un lotto di appartamenti – “lusso,
calma e serenità”. Una
volta superata la nuova città di Gurgaon, polmone economico di New
Delhi dove si costeggiano centri commerciali, call center, abitazioni
private, fabbriche tessili e agglomerati operai, un cartello
avvisa: “Benvenuti
nella zona industriale modello”. È
in questa città rettilinea e senza alberi di Manesar che si trovano
le nuove unità produttive della Maruti-Suzuki.
Nata
sulle macerie dell’impresa di stato Maruti Motors Limited,
creazione del figlio del primo ministro Indira Gandhi, la società
nel 1981 prende la forma di una join-venture con la giapponese
Suzuki Motors, società straniera pioniera sul suolo indiano.
Da questo parternariato pubblico-privato nasce la prima fabbrica a
Gurgaon, dove si assembla la famosa Maruti 800, piccola utilitaria
dalle forme angolose. In una situazione di quasi monopolio, l’impresa
avvia allora la “rivoluzione delle quattro ruote”: commercializza
dei motori a buon mercato accessibili alle classi medie-basse. Ben
presto le principali arterie urbane si riempono di Maruti, simbolo
dell’India moderna. Nel corso degli anni Novanta, decennio della
liberalizzazione dell’economia, lo Stato si disimpegna
progressivamente fino alla privatizzazione completa nel 2007 in
favore di Suzuki, che detiene il 54.2% del capitale. Quell’anno a
Manesar sono costruite delle linee di produzione supplementari
progettate per diventare la fabbrica d’eccellenza del gruppo.
Dagli
anni ’80 e per la prima volta nel mondo industriale indiano, il
management di Maruti-Suzuki inculca la “cultura del lavoro”
attraverso la puntualità, le scadenze rispettate, lo spirito di
performance. La direzione applica il “toyotismo”, ricette di
gestione del personale elaborate dal gigante giapponese Toyota.
Macchine timbra cartellini sono installate ai portoni di entrata,
“anche per i direttori”, precisa R. C. Barghava, presidente del
gruppo Maruti e autore di un libro sulla sua storia. Gli operai
arrivano quindici minuti prima per una serie di esercizi fisici
obbligatori. Secondo il famoso principio del kaizen (messo a punto in
Giappone), riunioni di emulazione collettiva, i “cerchi di qualità”
ora diffusi complessivamente nel mondo dell’automobile intimano
agli impiegati di proporre ciò che potrebbe migliorare la
produttività giornaliera. Coloro che partecipano guadagnano in più
il privilegio di pranzare con il capo. Un solo sindacato è tollerato
nell’azienda: il Maruti Udyog Kamgar Union (Muku), un sostituto
della direzione impiantato nel sito storico di Gurgaon. La fabbrica
di Manesar non dispone di alcun delegato.
Aperte
nel 2007, le nuove unità sono edificate “sul
modello della fabbrica di Kosai, in Giappone, per introdurvi un alto
livello di automazione e le migliori pratiche
Maruto-Suzuki” s’inorgoglisce
Barghava. Venuti dai villaggi vicini – molti precari tornano per la
mietitura -, i circa quattromila operai lavorano sei giorni su sette,
otto ore e mezza al giorno, senza contare il lungo tragitto in
autobus e il quarto d’ora d’anticipo obbligatorio. Come lo
raccontano Sateesh Kumar e Kushi Ram, rimossi nell’agosto
2012, “per
i figli di contadini era prestigioso entrare in Maruti, ma la
disillusione è stata veloce. Sulla catena di montaggio la pressione
è permanente. Abbiamo quaranta secondi per ogni automobile per
effettuare le nostre verifiche. Ci prendono per dei robot! Quando il
collega non arriva a dare il cambio, dobbiamo continuare, e non siamo
pagati per gli straordinari”.
I
DIPENDENTI RIFIUTANO L’ADESIONE AL SINDACATO INTERNO
Gli
operai sanno ugualmente che i loro stipendi non raggiungono, e di
gran lunga, quelli della fabbrica madre di Gurgaon, dove i lavoratori
strutturati (in minoranza) guadagnano circa 30.000 rupie al mese (350
euro), una somma che talvolta vale loro il soprannome di
“aristocratici della classe operaia”. A Manesar la quota fissa
dei salari prima del 2012 era soltanto di 5.000 rupie (58 euro), con
una retribuzione totale che raggiungeva in media 8.000 rupie (85
euro) per un interinale, e 17.000 rupie (200 euro) per un lavoratore
fisso.
Qualche
minuto di ritardo, e la direzione preleva la metà dello stipendio
giornaliero. Un’urgenza familiare senza aver avvertito con
anticipo, e quasi tutta la quota variabile scompare. “Gli
errori sono registrati nelle lettere di richiamo. Se tu ne hai due o
tre, allora non puoi diventare un lavoratore dal posto fisso”,
riferisce Bouddhi Prakash, operaio presso Suzuki Powertrain, che
produce motori diesel e trasmissioni. L’intensificazione e la
differenza di status tra dipendenti fissi e interinali sono al centro
del conflitto che scoppia nel 2011. Nel mese di giugno, quando
Maruti-Suzuki annuncia il passaggio di ruolo per la metà soltanto
dell’organico di Manesar, gli operai presentano all’amministrazione
locale una domanda di iscrizione a un sindacato indipendente. Fin dal
giorno dopo, la direzione spinge i dipendenti a firmare una
dichiarazione che attesti la loro adesione al sindacato interno. Solo
il 10% si piega all’intimazione, altri cominciano un sit-in.
È l’inizio del movimento.
“Quando
siamo arrivati, uscivamo tutti dagli stessi istituti tecnici. Assieme
eravamo apprendisti in fabbrica, si sono creati forti legami di
amicizia. Di colpo alcuni si sono trovati ad essere di ruolo, altri
sono rimasti precari, per lo stesso lavoro e per metà retribuzione”,
testimoniano Kumar e Ram. Oltre alle differenze di stipendio, gli
interinali non hanno accesso agli autobus aziendali e al premio di
Diwali (festa delle luci, equivalente al Natale). Provenienti da
famiglie contadine povere, questi giovani tra i 20 e i 25 anni
provano un misto di invidia e rivolta nei confronti del modo di
vivere dei centri urbani e commerciali di Gurgaon ai quali non
possono accedere. Ranjana Padhi, membro dell’organizzazione non
governativa People’s Union for Democratic Right (Pudr), analizza la
mobilitazione come “il
frutto di una forte consapevolezza di ciò che lo sfruttamento vuol
dire, in un contesto dove la precarietà è la norma, mentre l’80%
della mano d’opera era regolarmente assunta negli anni ’80. È ciò
che ha fatto nascere questa solidarietà inedita tra lavoratori fissi
e precari”.
Un’unità favorita dall’occupazione della fabbrica, un metodo
d’azione poco diffuso a Manesar, dove ci si raggruppa di solito
davanti ai cancelli del sito senza entrarvi.
Dopo
molte sospensioni e scioperi bianchi, la direzione decide la chiusura
(lock-out) per trenta giorni per sciopero illegale con l’obbligo di
firmare un impegno di “buona condotta”, per poter tornare al
lavoro. Sebbene i sindacati siano legali dal 1927, il diritto di
sciopero non esiste in India, che non ha ratificato la convenzione
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) sulla
contrattazione collettiva. Dopo nove mesi di lotte, nel marzo 2012,
gli operai ottengono il riconoscimento del loro sindacato, il Maruti
Suzuki Workers Union (Mswu). Non si era visto un tale braccio di
ferro dal movimento contro la precarizzazione del 2005 presso il
produttore delle due ruote Honda Hero.
Tuttavia,
poiché la direzione disdegna sempre le rivendicazioni, la tensione
si accresce il 18 luglio 2012 quando un caporeparto insulta un
operaio facendo riferimento alla sua appartenenza alla casta degli
intoccabili e lo licenzia. Il conflitto degenera. Avnish Kumar Dev,
direttore generale delle risorse umane, trova la morte nell’incendio
di uno degli edifici. Sono arrestati 148 operai, tra i quali i dodici
rappresentanti del nuovo sindacato. Il mese successivo, la direzione
licenzia senza preavviso più della metà del personale organico. “I
lavoratori indiani non sono degli assassini, commenta
l’esperto dei movimenti operai Djallal Heuzé. Si
ricorre alla violenza quando non ci si può più esprimere
altrimenti, quando il sentimento di ingiustizia è così forte che
tutto esplode”.
A
seguito della carcerazione dei dodici rappresentanti sindacali, è
stato costituito un comitato provvisorio per sostenerli e proseguire
il lavoro di sindacalismo autonomo. La direzione di Maruti Suzuki ha
fatto concessioni. Ha risposto a molte rivendicazioni, predisponendo
degli autobus per gli interinali, aumentando i loro salari del 25% e
quelli dei lavoratori fissi del 75%: in particolare ha annunciato il
progressivo abbandono del lavoro interinale, sostituito dal ricorso a
lavoratori occasionali assunti direttamente dall’impresa. Questi
operai sono pagati un po’ meglio degli interinali, con 12.000 rupie
(140 euro) al mese, ma sono rimossi ogni sei mesi e sostituiti da
altri. Essi vengono da regioni più lontane, al fine di evitare i
contatti con le persone licenziate e la solidarietà con gli abitanti
dei villaggi.
Nella
primavera del 2013, la casa madre giapponese ha riorganizzato la
direzione indiana e imposto due dei suoi – un amministratore
aggiunto e un consigliere alle risorse umane. “In
Giappone non ci sono stati scioperi durante gli ultimi cinquantotto
anni. L’idea è di importare i metodi delle risorse umane del
Giappone in India”,
rivela un dirigente nel giornale economico Mint. Per Suzuki la posta
in gioco è enorme: la multinazionale punta sull’Asia, e la sua
fabbrica indiana è la più redditizia delle sue filiali. Polmone
economico della regione, indispensabile ai subappaltatori che
impiegano circa trentamila operai nei quartieri popolari e nelle
baraccopoli di Gurgaon. Maruti-Suzuki sa esercitare il suo potere
presso le autorità locali dello Stato dell’Haryana. Essa ha più
volte brandito la minaccia della delocalizzazione, evocando
allettanti proposte da altri Stati indiani. Allora il governo
regionale ha usato il metodo forte.
UNIONE
SACRA TRA GIUSTIZIA, STATO E MULTINAZIONALE
Un
migliaio di poliziotti inviati dall’amministrazione locale sono
appostati in modo permanente alla fabbrica di Manesar e all’interno
dei suoi pullman. Sono state installate nuove video-camere. Fino a
oggi, i centoquaranta operai, tutti accusati di omicidio, non hanno
ottenuto la libertà provvisoria, un diritto accordato di solito dopo
alcune settimane di carcerazione. “L’incidente
ha compromesso la reputazione dell’India nel mondo. Gli investitori
stranieri temono di investire i loro capitali in India per paura
dell’agitazione operaia”,
si può leggere nel testo della sentenza dell’Alta Corte del
Punjab, dove è stato trasferito il processo.
Nonostante
quest’unione sacra tra la giustizia, lo Stato e la multinazionale,
la gioventù operaia non abbandona la sua rivendicazione di organi
rappresentativi autonomi, indipendenti dalle confederazioni
sindacali. Prima confederazione fondata nel 1920, la All India Trade
Union Congress (Aituc), legata al Partito comunista indiano, è stata
a lungo la più influente sulla zona industriale Gurgaon-Manesar. “È
molto istituzionalizzata e lontana dalla gente: i suoi dirigenti sono
dei notabili anglicizzati, formati a risolvere i conflitti dinanzi ai
tribunali”,
spiega Heuzé. Con la liberalizzazione dell’economia e l’arrivo
delle imprese straniere, i sindacati confederali si sono ripiegati
sulla funzione pubblica e su alcune imprese di Stato. Deboli nel
settore privato, essi rappresentano solo i lavoratori dipendenti,
tralasciando gli interinali che ormai costituiscono il grosso della
mano d’opera. Dopo un tentativo di affiliazione alla All IndiaTrade
Union Congress,“gli
operai hanno deciso di agire senza il suo avvallo”,
spiega Nayan Jyoti, studente sindacalista e membro
dell’organizzazione Krantikari Naujawan Sabha. Hanno dato vita a
sessioni di autoformazione e a modalità decisionali proprie, per
essere rappresentati dai lavoratori della fabbrica piuttosto che da
quadri esterni. Una mobilitazione che paga: nell’aprile del 2014,
il sindacato indipendente Mswu è stato eletto nelle due fabbriche,
Manesar e Gurgaon.
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