I ministri del Lavoro, dello Sviluppo economico e dell’Economia,
sotto la cappella del Ministro dell’Economia Gualtieri, hanno cominciato a
chiarire la vera sostanza dell’odierna politica economico-sociale
del nuovo governo, molto di più delle frasette sugli asili sparse a
piene mani da Conte e dai parlamentari PD/5stelle nel dibattito sulla
fiducia.
Però c’è qualcosa
di osceno in questo. La nuova Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo che
si presenta come la madre del reddito di cittadinanza, trova subito
il “padre” nel Renzi del jobs act. La campagna elettorale dei
5stelle, ancor più che l’esplicito filo padroni, Salvini, si era
molto caratterizzata contro il jobs act che era stato uno dei motivi
del voto di molti lavoratori e precari al M5S.
Già il governo
fascio-populista si era ben guardato dal toccarlo. Ora il nuovo
governo rivaluta il jobs act e il nuovo Ministro del Lavoro dice
subito che non butta via questo provvedimento, anzi, “lei non è
faziosa”, che guarda con lucidità alla riforma nel suo complesso,
e che l’Anpal, la nuova Agenzia per l’occupazione, è un fatto
positivo e importante, così come le altre politiche sul lavoro; e
aggiunge “il mondo del lavoro ha mille punti di vista che vanno
tenuti in considerazione”.
Ora la Boschi e la
nuova Ministra si disputano un sedicente aumento dell’occupazione,
quando l’unica cosa che cresce è la precarietà. L’Istat dice:
si arresta la crescita degli occupati a tempo pieno invece prosegue
l’aumento dei contratti a tempo parziale, l’incidenza del part
time involontario è stimato al 64,8%, più 1.2 punti, mentre
prosegue il calo occupazionale anche precario nel Mezzogiorno.
Questo governo in
Economia ha intenzione di mettere insieme il peggio dei provvedimenti
economici dei governi targati PD, con i provvedimenti demagogici dei
5stelle; una mistura antioperaia e contro i diritti dei lavoratori,
che rivaluta e rilancia la precarietà assistita.
D’altra parte il sì
al jobs act e la sua considerazione come un fatto compiuto da cui non
si può tornare indietro è comune a tutte le forze parlamentari. La
destra reazionaria di Salvini, Meloni e Berlusconi, vogliono ancora
più potere per le imprese, cioè per i padroni, e non certo quindi
per i lavoratori. E anche la forza che in parlamento si presenta più
a “sinistra”, LeU è ormai dentro il governo.
Ferruccio
De Bortoli, nella parte economica del Corriere della Sera, consiglia
soprattutto, ispirato com’è dalle posizione della Confindustria,
di dare un lavoro ai giovani. Ma la proposta che lui fa è di
eliminare i tirocini e dare spazio all’apprendistato. E’ evidente
che questa proposta ha lo scopo di azzerare di fatto il valore del
titolo di studio, cavalcando la tigre della denuncia della
disoccupazione/sottoccupazione dei laureati, si marcia decisi verso
il ripristino dell’apprendistato in una situazione in cui i giovani
hanno una scolarizzazione molto più alta. Con questa strada, oltre
che trasformare gli attuali laureati disoccupati in apprendisti, se
vogliono lavorare, si pongono le premesse per un attacco più
generale al diritto di studio e alle politiche verso le università
fondate sul ‘numero chiuso’.
I sindacati, con il suo
esponente ora più rappresentativo, Landini, chiedono al governo la
solita manfrina degli ultimi 20 anni, meno tasse sul lavoro e un
grande piano per gli investimenti e non spendono una sola parola sul
jobs act.
I padroni, con
l’esponente della Confindustria, Bonomi, chiedono un patto con i
sindacati e governo, per “alzare gli stipendi dei giovani”, ma
naturalmente il jobs act non si tocca, i finanziamenti alle imprese
non si toccano, Reddito di cittadinanza e Quota 100 invece si possono
toccare o ridimensionare, sapendo ora che nel governo vi sono i loro
rappresentanti, i ministri del PD, che avevano già dato “buona
prova di sè”.
Ma torniamo ai
provvedimenti annunciati dal nuovo governo.
Sulle tasse sul lavoro
si è sentito un canto unico. Il nuovo Ministro erede di Di Maio allo
Sviluppo economico dichiara che “bisogna ridurre le tasse sul
lavoro a totale vantaggio dei lavoratori, con l’obiettivo di
aumentare i loro salari”. A questo si aggiunge il cosiddetto
“salario minimo”. Su quest’ultimo aspetto torneremo con più
dettagli inseguito.
I 5stelle sono però i
primi a dire che occorre innanzitutto pensare a sterilizzare
l’aggravio di costi per le imprese. Quindi è ben difficile pensare
ad una riduzione delle tasse sul lavoro che vada a solo vantaggio dei
lavoratori.
Il PD parla di
“meccanismo di detrazione fiscale”, aggiungendo che
assorbirebbero anche gli 80 euro. Ciò vuol dire: da una mano dare e
dall’altra togliere.
I padroni a Cernobbio e
su Sole 24 Ore, ponendo anch’essi la fiducia al nuovo governo si
sentono abbastanza tranquilli che alle briciole concesse ai
lavoratori, corrisponderanno una nuova montagna di soldi per i
padroni; sanno bene che i problemi su questa “montagna di soldi”
vengono dal debito pubblico e dalla politica comune europea che
qualche concessione la vuole fare all’Italia per tenerla agganciata
al carro dentro la contesa economica mondiale, ma chiaramente lo
sviluppo diseguale non si tocca, e quindi i padroni italiani dovranno
pensare più a togliere ai lavoratori e al bilancio dello Stato
piuttosto che a dare.
Sul salario minimo,
partiamo da un dato. Il salario minimo nelle fabbriche sarebbe un
abbassamento del salario e quindi su questo gli operai non hanno
nulla da concertare e devono avere massima preoccupazione su quello
che intendono fare padroni, governo e sindacati. Invece il salario
minimo, insieme alla generalizzazione/estensione del Reddito di
cittadinanza sono in questo contesto di nuovo governo non pilotato da
Salvini misure urgenti e necessarie per dare reddito ai disoccupati e
alle masse povere ed elevare i bassi salari del grande universo della
precarietà, degli appalti degli Enti locali, del lavoro nero e
sottopagato, dilagante in tutto il paese e in particolare al sud.
Misure che non si
potranno certo ottenere contando sulle decisioni dall’alto di
questo governo e meno che mai dagli accorti
governo-padroni-sindacati; ma solo dallo sviluppo della lotta
proletaria di massa che utilizzando la contraddizione tra quanto il
governo dice e quello che realmente fare possa alimentarsi, strappare
risultati, e senza di essi contribuire alla messa in crisi sociale
del nuovo governo.
Questo terreno è
necessario e urgente perché è in oggettiva contrapposizione alla
opposizione demagogico fascista e reazionaria che invece si alimenta
della crisi e della povertà per spingere verso la guerra anti
immigranti e il consenso/arruolamento elettorale. La Lega è contro
il salario minimo e il Reddito di cittadinanza.
Il salario minimo da
strumento per garantire ai lavoratori un salario meno di fame di
quello attuale, il nuovo governo lo utilizzerà per dare più potere
ai sindacati confederali. Vale a dire inserire nell’estensione erga
omnes dei contratti con un “effetto tutto politico”, un premio ai
sindacati maggiormente rappresentativi. Su questo vi è un accordo
tra padroni e sindacati.
Secondo una fotografia
dell’Ista – chiaramente da prendere con le molle – i lavoratori
con retribuzioni inferiori alle 9 euro sarebbero 2.940.762, pari al
20,9%. ma scorporando impiegati e dirigenti, che facciamo fatica a
pensare che prendono meno del salario di 9 euro, la percentuale
diventa del 28,1 tra gli operai, del 60’3 tra gli apprendisti, del
37,6 dei giovani e 24% delle donne, ecc. Secondo quanto scrive il
Sole 245 Ore, il nuovo governo partirà da due disegni di legge già
presentati in parlamento, presentati da M5S e PD. Entrambi fanno
riferimento al contratto siglato dalle organizzazioni più
rappresentative. Solo in quello dei 5stelle è contenuta la cifra di
9 euro all’ora. Occorre dire che anche la stessa Ocse ritiene che
fissato a 9 euro lordi sarebbe il più alto tra i paesi
dell’organizzazione. Il riferimento ai contratti nazionali firmati
dalle organizzazioni più rappresentative toglie di fatto le
possibilità per i lavoratori che sono organizzati fuori da queste
organizzazioni di ottenere con la lotta risultati maggiori dei 9
euro, e siccome si va estendendo il pianeta dei lavoratori che si
organizzano coi sindacati di base (vedi settori logistica, servizi,
ecc.), evidentemente che blindato in questa maniera da governo,
padroni e sindacati, diventa un ulteriore catena alle lotte dei
lavoratori. E’ì eloquente che nella proposta dei 5stelle è
assente qualsiasi sanzione per i datori di lavoro che non applicano
il salario minimo, mentre in quella del PD sono prevista ma tutte
affidate ai famosi ‘controlli contro il lavoro nero’ che finora
hanno dato ben scarsi risultati per i lavoratori.
La lotta sul salario
minimo è un cuneo anche nell’attuale alleanza di governo. Il PD,
ad esempio, è disponibile al salario minimo solo a condizione che
esso sia realmente minimo e quindi che le 9 euro siano comprensivi
anche di tutti gli elementi indiretti o differiti (ferie, mensilità
aggiuntive, Tfr, ecc.). Nello stesso tempo sia 5stelle che PD sono
pronti a venire incontro alle imprese, ad alcune spiegando che ai
padroni conviene, ad altre, quelle che pagano realmente di meno, ad
occuparsi dell’eventuale aggravio di costi. I sindacati su questo
cavalcano la tigre dei contratti collettivi per potere irregimentare
questo salario minimo in una compatibilità con i padroni, come tutti
i contratti collettivi, alzando la bandiera del possibile riduzione
dell’occupazione che esso potrebbe portare. Come si sa i padroni
quando vengono messi alle strette sul salario, e padroncini ancor
più, reagiscono tagliando l’occupazione o ricattando i lavoratori.
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