giovedì 26 settembre 2019

pc 26 settembre - La politica economica del nuovo governo - dallo Speciale Governo - proletari comunisti settembre 2019


I ministri del Lavoro, dello Sviluppo economico e dell’Economia, sotto la cappella del Ministro dell’Economia Gualtieri, hanno cominciato a chiarire la vera sostanza dell’odierna politica economico-sociale del nuovo governo, molto di più delle frasette sugli asili sparse a piene mani da Conte e dai parlamentari PD/5stelle nel dibattito sulla fiducia.
Però c’è qualcosa di osceno in questo. La nuova Ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo che si presenta come la madre del reddito di cittadinanza, trova subito il “padre” nel Renzi del jobs act. La campagna elettorale dei 5stelle, ancor più che l’esplicito filo padroni, Salvini, si era molto caratterizzata contro il jobs act che era stato uno dei motivi del voto di molti lavoratori e precari al M5S.
Già il governo fascio-populista si era ben guardato dal toccarlo. Ora il nuovo governo rivaluta il jobs act e il nuovo Ministro del Lavoro dice subito che non butta via questo provvedimento, anzi, “lei non è faziosa”, che guarda con lucidità alla riforma nel suo complesso, e che l’Anpal, la nuova Agenzia per l’occupazione, è un fatto positivo e importante, così come le altre politiche sul lavoro; e aggiunge “il mondo del lavoro ha mille punti di vista che vanno tenuti in considerazione”.
Ora la Boschi e la nuova Ministra si disputano un sedicente aumento dell’occupazione, quando l’unica cosa che cresce è la precarietà. L’Istat dice: si arresta la crescita degli occupati a tempo pieno invece prosegue l’aumento dei contratti a tempo parziale, l’incidenza del part time involontario è stimato al 64,8%, più 1.2 punti, mentre prosegue il calo occupazionale anche precario nel Mezzogiorno.

Questo governo in Economia ha intenzione di mettere insieme il peggio dei provvedimenti economici dei governi targati PD, con i provvedimenti demagogici dei 5stelle; una mistura antioperaia e contro i diritti dei lavoratori, che rivaluta e rilancia la precarietà assistita.
D’altra parte il sì al jobs act e la sua considerazione come un fatto compiuto da cui non si può tornare indietro è comune a tutte le forze parlamentari. La destra reazionaria di Salvini, Meloni e Berlusconi, vogliono ancora più potere per le imprese, cioè per i padroni, e non certo quindi per i lavoratori. E anche la forza che in parlamento si presenta più a “sinistra”, LeU è ormai dentro il governo.
Ferruccio De Bortoli, nella parte economica del Corriere della Sera, consiglia soprattutto, ispirato com’è dalle posizione della Confindustria, di dare un lavoro ai giovani. Ma la proposta che lui fa è di eliminare i tirocini e dare spazio all’apprendistato. E’ evidente che questa proposta ha lo scopo di azzerare di fatto il valore del titolo di studio, cavalcando la tigre della denuncia della disoccupazione/sottoccupazione dei laureati, si marcia decisi verso il ripristino dell’apprendistato in una situazione in cui i giovani hanno una scolarizzazione molto più alta. Con questa strada, oltre che trasformare gli attuali laureati disoccupati in apprendisti, se vogliono lavorare, si pongono le premesse per un attacco più generale al diritto di studio e alle politiche verso le università fondate sul ‘numero chiuso’.
I sindacati, con il suo esponente ora più rappresentativo, Landini, chiedono al governo la solita manfrina degli ultimi 20 anni, meno tasse sul lavoro e un grande piano per gli investimenti e non spendono una sola parola sul jobs act.
I padroni, con l’esponente della Confindustria, Bonomi, chiedono un patto con i sindacati e governo, per “alzare gli stipendi dei giovani”, ma naturalmente il jobs act non si tocca, i finanziamenti alle imprese non si toccano, Reddito di cittadinanza e Quota 100 invece si possono toccare o ridimensionare, sapendo ora che nel governo vi sono i loro rappresentanti, i ministri del PD, che avevano già dato “buona prova di sè”.

Ma torniamo ai provvedimenti annunciati dal nuovo governo.
Sulle tasse sul lavoro si è sentito un canto unico. Il nuovo Ministro erede di Di Maio allo Sviluppo economico dichiara che “bisogna ridurre le tasse sul lavoro a totale vantaggio dei lavoratori, con l’obiettivo di aumentare i loro salari”. A questo si aggiunge il cosiddetto “salario minimo”. Su quest’ultimo aspetto torneremo con più dettagli inseguito.
I 5stelle sono però i primi a dire che occorre innanzitutto pensare a sterilizzare l’aggravio di costi per le imprese. Quindi è ben difficile pensare ad una riduzione delle tasse sul lavoro che vada a solo vantaggio dei lavoratori.
Il PD parla di “meccanismo di detrazione fiscale”, aggiungendo che assorbirebbero anche gli 80 euro. Ciò vuol dire: da una mano dare e dall’altra togliere.
I padroni a Cernobbio e su Sole 24 Ore, ponendo anch’essi la fiducia al nuovo governo si sentono abbastanza tranquilli che alle briciole concesse ai lavoratori, corrisponderanno una nuova montagna di soldi per i padroni; sanno bene che i problemi su questa “montagna di soldi” vengono dal debito pubblico e dalla politica comune europea che qualche concessione la vuole fare all’Italia per tenerla agganciata al carro dentro la contesa economica mondiale, ma chiaramente lo sviluppo diseguale non si tocca, e quindi i padroni italiani dovranno pensare più a togliere ai lavoratori e al bilancio dello Stato piuttosto che a dare.
Sul salario minimo, partiamo da un dato. Il salario minimo nelle fabbriche sarebbe un abbassamento del salario e quindi su questo gli operai non hanno nulla da concertare e devono avere massima preoccupazione su quello che intendono fare padroni, governo e sindacati. Invece il salario minimo, insieme alla generalizzazione/estensione del Reddito di cittadinanza sono in questo contesto di nuovo governo non pilotato da Salvini misure urgenti e necessarie per dare reddito ai disoccupati e alle masse povere ed elevare i bassi salari del grande universo della precarietà, degli appalti degli Enti locali, del lavoro nero e sottopagato, dilagante in tutto il paese e in particolare al sud.
Misure che non si potranno certo ottenere contando sulle decisioni dall’alto di questo governo e meno che mai dagli accorti governo-padroni-sindacati; ma solo dallo sviluppo della lotta proletaria di massa che utilizzando la contraddizione tra quanto il governo dice e quello che realmente fare possa alimentarsi, strappare risultati, e senza di essi contribuire alla messa in crisi sociale del nuovo governo.
Questo terreno è necessario e urgente perché è in oggettiva contrapposizione alla opposizione demagogico fascista e reazionaria che invece si alimenta della crisi e della povertà per spingere verso la guerra anti immigranti e il consenso/arruolamento elettorale. La Lega è contro il salario minimo e il Reddito di cittadinanza.
Il salario minimo da strumento per garantire ai lavoratori un salario meno di fame di quello attuale, il nuovo governo lo utilizzerà per dare più potere ai sindacati confederali. Vale a dire inserire nell’estensione erga omnes dei contratti con un “effetto tutto politico”, un premio ai sindacati maggiormente rappresentativi. Su questo vi è un accordo tra padroni e sindacati.
Secondo una fotografia dell’Ista – chiaramente da prendere con le molle – i lavoratori con retribuzioni inferiori alle 9 euro sarebbero 2.940.762, pari al 20,9%. ma scorporando impiegati e dirigenti, che facciamo fatica a pensare che prendono meno del salario di 9 euro, la percentuale diventa del 28,1 tra gli operai, del 60’3 tra gli apprendisti, del 37,6 dei giovani e 24% delle donne, ecc. Secondo quanto scrive il Sole 245 Ore, il nuovo governo partirà da due disegni di legge già presentati in parlamento, presentati da M5S e PD. Entrambi fanno riferimento al contratto siglato dalle organizzazioni più rappresentative. Solo in quello dei 5stelle è contenuta la cifra di 9 euro all’ora. Occorre dire che anche la stessa Ocse ritiene che fissato a 9 euro lordi sarebbe il più alto tra i paesi dell’organizzazione. Il riferimento ai contratti nazionali firmati dalle organizzazioni più rappresentative toglie di fatto le possibilità per i lavoratori che sono organizzati fuori da queste organizzazioni di ottenere con la lotta risultati maggiori dei 9 euro, e siccome si va estendendo il pianeta dei lavoratori che si organizzano coi sindacati di base (vedi settori logistica, servizi, ecc.), evidentemente che blindato in questa maniera da governo, padroni e sindacati, diventa un ulteriore catena alle lotte dei lavoratori. E’ì eloquente che nella proposta dei 5stelle è assente qualsiasi sanzione per i datori di lavoro che non applicano il salario minimo, mentre in quella del PD sono prevista ma tutte affidate ai famosi ‘controlli contro il lavoro nero’ che finora hanno dato ben scarsi risultati per i lavoratori.

La lotta sul salario minimo è un cuneo anche nell’attuale alleanza di governo. Il PD, ad esempio, è disponibile al salario minimo solo a condizione che esso sia realmente minimo e quindi che le 9 euro siano comprensivi anche di tutti gli elementi indiretti o differiti (ferie, mensilità aggiuntive, Tfr, ecc.). Nello stesso tempo sia 5stelle che PD sono pronti a venire incontro alle imprese, ad alcune spiegando che ai padroni conviene, ad altre, quelle che pagano realmente di meno, ad occuparsi dell’eventuale aggravio di costi. I sindacati su questo cavalcano la tigre dei contratti collettivi per potere irregimentare questo salario minimo in una compatibilità con i padroni, come tutti i contratti collettivi, alzando la bandiera del possibile riduzione dell’occupazione che esso potrebbe portare. Come si sa i padroni quando vengono messi alle strette sul salario, e padroncini ancor più, reagiscono tagliando l’occupazione o ricattando i lavoratori.





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