Il
“piano industriale per il paese” presentato da Calenda e
Bentivogli non è un semplice piano di proposte su ciò che serve al
sistema economico dell’Italia, ma è un progetto di cambiamento del
rapporto capitale/forza-lavoro.
“La
rapidissima innovazione tecnologica – si scrive - mette in
discussione i modelli produttivi e l’organizzazione del lavoro”.
Il capitale ha bisogno di una forza-lavoro più adatta all’industria
4.0, più flessibile. Basta quindi definitivamente con la difesa dei
diritti conquistati, basta con il “posto” a tempo indeterminato.
Questo
lavoratore non deve poi aspettarsi un salario fisso, uguale per tutti
i lavoratori di un settore, collegato alla mansione. “Basta –
si scrive – con determinazione delle condizioni salariali
lontane dal contesto competitivo delle singole imprese…. Va
incoraggiato un vero decentramento contrattuale, utile ai programmi
di miglioramento della produttività”
Per
dirla in maniera più esplicita, “vi devono essere salari
coerenti con le condizioni economiche territoriali ma anche di
stabilimento”.
Qui
andiamo oltre lo stesso, più volte evocato, ripristino della “gabbie
salariali”; qui il salario diventa dipendente dalla situazione
della singola zona, o peggio dalla situazione del singolo
stabilimento, per
cui anche nella stessa zona, tra aziende dello stesso settore, i lavoratori possono avere, a pari lavoro e mansioni, salari differenti se la condizione economica delle proprie aziende è differente.
cui anche nella stessa zona, tra aziende dello stesso settore, i lavoratori possono avere, a pari lavoro e mansioni, salari differenti se la condizione economica delle proprie aziende è differente.
A
questo nuova determinazione del salario, si aggiunge la
contrattazione per il welfare, vale a dire di soldi sottratti al
salario e dati come benefit “flessibilmente tarati sui bisogni
dei singoli lavoratori e dei loro nuclei
familiari”.
Quindi,
non solo i lavoratori di uno stesso territorio, di due aziende dello
stesso settore avrebbero salari differenti, ma addirittura un operaio
di una azienda avrebbe una parte del salario differente da quella del
lavoratore che lavora al suo fianco, perché ha altri “bisogni”.
Siamo
allo schiavismo salariale. E’ il padrone che decide (alt! Insieme
al sindacato, chiaramente...”) quanto dare all’operaio in base
alla sua condizione economica aziendale, alla valutazione dei bisogni
del lavoratore e del suo nucleo familiare. Marx si rivolterebbe nella
tomba. L’operaio direbbe al padrone: ma almeno pagami come una
qualsiasi altra merce che tu compri, dammi il salario corrispondente
al tempo di lavoro necessario per comprare ciò che mi serve per
vivere e tornare il giorno dopo a lavorare. No, anche questa sua
legge oggi sta stretta al capitale.
Altro
“cavallo di battaglia” del piano industriale per il paese è
quello della “formazione”.
La
formazione ha uno scopo differente, a seconda che si rivolge ai
lavoratori in attività, o ai giovani. Per i lavoratori è il mezzo
trovato per mettere fuori, liberarsi di forza-lavoro inutile per il
capitale, un “ammortizzatore sociale” con corsi di formazione
come parcheggio al licenziamento, con anche il ricatto che la non
partecipazione cancella la cig ai lavoratori; verso i giovani, nella
scuola, lo scopo è porre in maniera ancora più esplicita il legame
formazione-forza lavoro al servizio del capitale. In questa
direzione, il piano di Calenda/Bentivogli pensa a un sostegno
finanziario alle scuole tecnico-professionali, da cui può venire il
“capitale umano” utile per l’Industria 4.0.
“Veloce,
disponibile, formato ai livelli di innovazione tecnologica, pagato
per quello che il padrone può dare, precario per principio” - Ecco
il lavoratore del nuovo piano industriale per l’Italia.
Nessun commento:
Posta un commento