MA COSA C’È, DIETRO AL RAZZISMO?
Torino, 10 dicembre. Alle Vallette, la notizia di un falso stupro provoca un pogrom contro gli zingari, che si salvano solo grazie alla loro atavica sensibilità a schivar persecuzioni.
Firenze, 13 dicembre. Al mercato di Rifredi un italiano di cinquant’anni spara contro un gruppo di senegalesi, ne ammazza due; si reca poi al mercato di San Lorenzo, spara di nuovo e ferisce tre senegalesi. Poi si uccide.
Entrambi gli episodi hanno destato grande sconcerto.
Il primo, per la furia selvaggia del branco.
Il secondo, per la lucida determinazione dell’assassino.
Tutte le anime belle della democrazia si sono gettate in spiegazioni più o dotte; tutte politicamente corret-te, ma assolutamente inconsistenti. Nessuna ha centrato l’obiettivo, ovvero la causa degli attuali rigurgiti razzisti; anche se, inevitabilmente, ci hanno corso intorno. E non potevano fare diversamente. Perché la causa vera è la crisi. Ma parlare di crisi significa mettere in discussione il modo di produzione capitalistico, che genera le crisi, il razzismo e tante altre nefandezze.
È lo stesso «uovo di serpente» che, ieri, generò il nazismo, la guerra e la shoa. Da allora, nulla è mutato, se non in peggio.
Nel ricco Occidente, giorno dopo giorno, la crisi sbriciola certezze costruite in mezzo secolo di benessere. I più turbati sono i ceti che maggiormente hanno creduto nella crescita economica e nel progresso sociale, e ci hanno anche marciato. E sono soprattutto coloro che hanno legato i propri destini ai commerci e alla finanza; costoro si sono immersi in un mondo che via via si è staccato dalla realtà della produzione materia-le, vivendo l’illusione che il denaro producesse denaro. Non è un caso che l’assassino di Firenze fosse un ragioniere, un commercialista fallito, e che le vittime fossero dei «vu cumprà», che tanto fastidio danno ai bottegai, e anche agli immobiliaristi, che in quelle aliene presenze vedono pregiudicato il valore, in gran parte fittizio, delle loro merci, case, negozi e servizi.
A questo punto, stendiamo un velo pietoso sulle sinistre sirene, che cantavano la produzione «immateriale» (il «cognitariato»!), offrendo un’estrema illusoria dignità al mondo in sfacelo della piccola borghesia intellettuale, che fa da contraltare alla piccola borghesia dei traffici e degli intrallazzi.
Diversamente, gli operai e, in genere, i proletari da molti anni hanno dovuto fare i conti con situazioni sempre più disastrate. Che li hanno spinti a diretto scontro con la realtà – molto materiale – della produzione capitalistica: la realtà dei rapporti di lavoro salariato, la realtà dei rapporti tra operaio e padrone. E qui le furbe scappatoie si sono presto rivelate inconsistenti. Certo, anche gli operai italiani, soprattutto al Nord, hanno avuto qualche cedimento razzista. E hanno votato per la Lega. Ma anche quel tempo è finito. In vent’anni di governo – a Roma e negli enti locali –, la Lega ha sposato l’affarismo più smaccato. Ed era inevitabile.
Proprio quando sono apparsi i primi segni della crisi, la Lega ha trascurato i lavoratori dipendenti, ma an-che i piccoli industriali, come Giovanni Schiavon, che si è ucciso per colpa di quelle banche, verso cui la Le-ga manifesta un crescente interesse.
E privilegiando piccoli e grandi faccendieri, la Lega ha suonato sempre di più la gran cassa del razzismo. Un modo rumoroso, e fetente, per spostare l’attenzione dai problemi reali. E soprattutto dai reali nemici: pa-droni e padroncini, affaristi e speculatori.
Sono mille le occasioni in cui la Lega ha soffiato sul fuoco razzista, trovando sempre appoggi compiacen-ti (anche a «sinistra»): la legge Bossi-Fini ha aperto la caccia all’extra-comunitario, che si è scatenata poi nelle amministrazione locali con le più luride iniziative. A Milano, si è distinta la coppia Salvini-De Corato, con l’esercito e il coprifuoco nei quartieri popolari; nel ricco Nord-est si sono sbizzarriti i discepoli di Hitler: a Verona quel bel tomo di Flavio Tosi, a Treviso Gian Paolo Gobbo, e così via. E intorno a loro cresceva la protervia dei fascisti di Forza Nuova, di Casa Pound e di tante altre piccole e ottuse congreghe.
Ma tanto innocenti non sono neppure le amministrazioni «progressiste». Proprio a Firenze, dove in questi giorni i coccodrilli hanno pianto le vittime del razzismo, pochi anni fa (estate 2007), il sindaco PD Leonardo Domenici lanciò una schifosa campagna contro i lavavetri, e quindi contro i mendicanti. Trovando il consenso di molti compari «progressisti» della giunta. Poi si scoprì che costoro erano coinvolti in intrallazzi con l’immobiliarista Ligresti. Dietro al razzismo, c’è sempre qualche sordido interesse.
A Roma, sempre nel 2007, il sindaco PD Walter Veltroni mandò le ruspe a distruggere i campi rom di Tor Pagnotta, di Tor Vergata e via via di altre borgate. L’esempio dei due sindaci «progressisti» ebbe poi numerosi seguaci nelle città «rosse», da Bologna a Livorno ...
C’è poco da stupirsi, dal momento che la deriva razzista fu aperta proprio da un governo di «sinistra», il governo Prodi, con la presenza di Rifondazione comunista e frattaglie; fu questo sinistro governo a varare la legge Turco Napolitano (1998), che istituì i Centri di Permanenza Temporanea, i piccoli lager che hanno a-perto la via alla Bossi-Fini e ai Centri di Identificazione ed Espulsione, dando poi la stura alle ordinarie vio-lenze dell’emergenza securitaria, accompagnate dai respingimenti-affogamenti in mare di migliaia di profu-ghi.
Per negare questa evidenza, ci vuole tutta quell’ipocrisia, tipicamente italiana, per cui basta cambiare il nome alle cose per cambiarne anche la sostanza.
Intanto, in questo brodo di cultura bipartisan (fatto di tanto comune «buon senso»!), il razzismo è cresciuto, e ha offerto una comoda sponda ai piccoli pesci dei commerci, degli affari e dei malaffari, che vedono in pericolo il loro benessere. Lo sfogo razzista gli consente di rimuovere ed eludere la vera causa dei propri mali, il capitalismo, perché questo vorrebbe dire sputare nel piatto in cui finora hanno mangiato, e vogliono ancora mangiare. E sarebbe anche pericoloso. Molto più rassicurante è vedere la causa dei propri mali in ambienti e persone che, ai loro occhi, appaiono destabilizzanti: i nuovi e i diversi, in poche parole gli immigrati. Ancor meglio se sono una facile preda.
E’ dalle viscere di questa società di classe che prende forma e sostanza il nesso inscindibile crisi e razzi-smo, contro cui le battaglie sul fronte dell’etica e della cultura sono perse in partenza. Anzi, sono fuorvianti. Non fanno altro che eludere il vero e unico obiettivo contro cui ha senso combattere: l’abbattimento del modo di produzione capitalistico.
DINO ERBA, Milano, 21 dicembre 2011
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