mercoledì 27 novembre 2024

pc 27 novembre - Narendra Modi e Amit Shah, due fascisti al governo dell’India

 

Questo blog periodicamente informa e controinforma sulla situazione in India attraverso articoli e documenti del Partito Comunista dell’India (Maoista), come denuncia delle condizioni del popolo e forma di sostegno e solidarietà alla guerra popolare in corso nel Paese.

Notizie e analisi che non si trovano certo sulla stampa e i mezzi di comunicazione borghesi di tutto il mondo per i quali l’India, governata attualmente dal fascista indù Narendra Modi, è “la più grande democrazia del mondo”, un paese in grande espansione economica (quinta potenza per prodotto interno lordo), con la quale fare accordi commerciali, accordi militari ecc.

Non solo questi media, quasi tutti nelle mani del governo (“L’India non aveva mai visto una stretta sulla libertà dell’informazione come quella imposta da Modi e Shah.” dice l’articolo), non parlano della vera opposizione che si sviluppa in India, e cioè quella portata avanti dalla guerra popolare in corso diretta dal Partito Comunista dell’India (Maoista), ma evitano di raccontare anche ciò che alcune organizzazioni e alcuni intellettuali dell’India, citiamo per tutti la nota scrittrice Arundhati Roy, denunciano da tempo, e cioè che l’India di Modi diventa ogni giorno di più un paese fascista. Questo aspetto lo racconta, senza peli sulla lingua, tra le pochissime eccezioni, un lungo e interessante articolo del settimanale Internazionale di questa settimana, dal titolo L’architetto di Modi, riferendosi al braccio destro di Modi, Amit Shah.

Modi e Shah, documenti e fatti alla mano, sono inseparabili ed entrambi responsabili dell’eccidio di centinaia di musulmani nel Gujarat (di cui Modi era primo ministro) del 2002: durante questa carneficina: “le donne musulmane venivano stuprate e poi bruciate vive. Le donne incinte ebbero il ventre squarciato, e le teste dei bambini musulmani furono spaccate con le pietre.”

Ma l’attività criminale di Modi e Shah, come si può leggere in questo articolo, non si è mai fermata, continua con gli omicidi mirati di oppositori politici o persone diventate ostacoli sul loro cammino… e non stiamo parlando dei combattenti della guerra popolare, ai quali Modi dedica invece una serie di “Operazioni” dai nomi più fantasiosi che causano prigionieri politici a migliaia, morti e distruzioni.

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L’architetto di Modi

Amit Shah è al fianco del premier indiano Narendra Modi da quarant’anni: è il suo confidente, consigliere e braccio destro. Oggi è il secondo uomo più potente del paese e lo sta rimodellando in modo radicale era responsabile delle azioni della polizia. Il suo nome era Amit Shah.

Una notte di novembre del 2005, nell’India occidentale alcuni poliziotti in borghese fermarono un pullman e fecero scendere un uomo, Sohrabuddin Sheikh, che fu raggiunto sul ciglio della strada dalla moglie Kausar. I due furono caricati su due diverse volanti e condotti a quasi mille chilometri di distanza, nel Gujarat. Non si sarebbero più rivisti.

Sheikh non aveva accuse a suo carico. La polizia non aveva alcun motivo legittimo per trattenerlo, e tanto meno per trattenere la moglie. Dopo aver raggiunto Ahmedabad, la città più popolosa del Gujarat, Sheikh e Kausar non furono portati in un commissariato, ma in due villette diverse in un quartiere residenziale. Due giorni dopo, il 26 novembre, Sheikh fu portato in auto a un incrocio nella zona sud di Ahmedabad e ucciso con un colpo d’arma da fuoco. La polizia dichiarò che faceva parte di un gruppo terroristico islamista ed era stato colpito mentre cercava di fuggire. Quattro giorni dopo la morte di Sheikh, il 29 novembre, fu uccisa Kausar. Fu avvelenata e il suo corpo trasportato fino al fiume Narvada, dove fu bruciato e i resti gettati in acqua.

Secondo le testimonianze ottenute in seguito dagli investigatori del governo centrale, gli agenti accusati di essere coinvolti nella vicenda fecero molte telefonate prima e dopo ciascun omicidio, e all’altro capo della linea c’era sempre un importante politico del Gujarat che dirigeva il ministero dell’interno dello stato e quindi era responsabile delle azioni della polizia. Il suo nome era Amit Shah.

Questi dettagli sono emersi nel 2010, quando il Central bureau of investigation (Cbi), l’equivalente indiano dell’Fbi statunitense, stava indagando sulle uccisioni. Il Cbi accusò Shah di sequestro di persona, estorsione e omicidio. Sostenne che i poliziotti responsabili dell’uccisione di Sheikh e della moglie rispondevano ai suoi ordini (il Cbi confermò anche che Sheikh era un criminale che aveva collaborato per anni con la polizia del Gujarat. Evidentemente, ormai non serviva più).

Inseparabili

Il Cbi accertò che, il giorno del sequestro, Shah e l’ufficiale di polizia presente sulla scena si erano scambiati cinque telefonate. Nei giorni successivi si parlarono regolarmente. Il giorno in cui Sheikh fu ucciso, Shah parlò con l’ufficiale cinque volte. La telefonata successiva avvenne il giorno dell’uccisione di Kausar (Shah non ha negato di aver fatto quelle telefonate, ma ha dichiarato che riguardavano un altro caso). Nel luglio 2010 fu spiccato un mandato d’arresto contro Shah, ma lui riuscì a sfuggire per quattro giorni e poi riapparve a una conferenza stampa in cui negò ogni responsabilità. Dichiarò alla stampa di essere la vittima di una caccia alle streghe di natura politica orchestrata dal governo centrale, che all’epoca era guidato dal partito del Congress, il principale partito d’opposizione allo schieramento di Shah, il Bharatiya janata party (Bjp). “I capi d’accusa erano già stati preparati per conto del Congress. Sono fabbricati a tavolino e non hanno nulla a che fare con la richiesta dei giudici”, disse Shah. “Io non ho paura di nessuno. Combatteremo in tribunale e denunceremo chi ha cercato di farci torto”. Shah passò tre mesi in carcere e poi fu rilasciato su cauzione. Per impedire qualunque tentativo d’influenzare testimoni o giudici, una condizione della cauzione era che Shah rimanesse lontano dal Gujarat fino al termine del processo.

Cacciato dal suo stato, i giornalisti ufficiosamente lo chiamavano tadipaar, il fuggitivo. Le testimonianze registrate dal Cbi, tra cui l’accusa che Shah avesse diretto un racket di estorsioni attraverso la polizia dello stato, furono pubblicate dai principali giornali del paese. Ma quattro anni dopo, nel dicembre 2014, tutte le accuse furono ritirate. Facendo eco alla difesa di Shah, il giudice dichiarò che l’intera vicenda aveva “motivazioni politiche”. Dopo anni di lavoro sul caso, il Cbi non contestò la decisione della corte.

                                                                         Amit Shah

Nei mesi precedenti c’erano state le elezioni nazionali e l’agenzia ora rispondeva al nuovo governo che si era insediato a New Delhi sotto la guida dall’ex leader del Gujarat, al cui fianco Shah aveva passato tutta la sua vita da adulto: Narendra Modi. Shah e Modi si erano conosciuti negli anni ottanta, quand’erano semplici militanti del Bjp, il partito nazionalista indù che dal 2014 governa l’India. Negli ultimi quarant’anni hanno fatto molta strada insieme, dalle pendici della politica indiana alla sua vetta. E in tutti questi anni Shah è stato confidente, consigliere e gendarme di Modi. È impossibile tracciare il corso della vita dell’uno senza l’altro.

Oggi Amit Shah non è più ministro dell’interno del Gujarat, ma di tutta l’India. Dal cuore del potere, a New Delhi, è a capo della politica interna, comanda la forza di polizia della capitale e sovrintende all’apparato d’intelligence del paese. In parole semplici, è la seconda persona più potente del paese. Nell’ultimo decennio è stato l’architetto principale della trasformazione dell’India secondo l’ideologia nazionalista indù del Bjp.

Un elemento distintivo della vita in India oggi è la soffocante atmosfera di pericolo e minaccia per chi critica il governo. Shah è il volto e l’incarnazione di questa paura che si annida ovunque, dalle redazioni dei mezzi d’informazione ai tribunali, e che ispira un senso di allarme più grande della somma dei fatti e degli aneddoti che si possono accumulare per spiegarla. Sospesa tra i margini di quanto è risaputo e quanto si può dire, nessuna storia individuale spiega l’India contemporanea meglio di quella di Amit Shah.

Lo scudo del primo ministro

Amit Shah è attento ai dettagli. Ha a sua disposizione il vasto apparato dello stato; un esercito di militanti del partito è in attesa dei suoi ordini nel ciclo costante di elezioni locali, regionali e nazionali; è scaltro, sempre pronto a indebolire l’opposizione creando nuove alleanze e strappando candidati agli altri partiti; segue attentamente i pettegolezzi. L’anno scorso un lobbista di New Delhi mi ha raccontato una storia: un ministro del governo Modi si era intascato una piccola parte della donazione fatta al Bjp da un uomo d’affari pensando che nessuno lo avrebbe scoperto, invece, aveva ricevuto una telefonata da Shah, che aveva casualmente incontrato il donatore all’aeroporto di New Delhi e accertato la cifra. A quanto sembra Shah disse al ministro di versare la somma al partito. Non ho mai potuto avere conferma di questa storia ma, a prescindere dalla verità, fotografa l’immagine del ministro dell’interno diffusa tra gli indiani. “Shah ha qualcosa come l’occhio di Sauron: vede tutto”, ha commentato il lobbista ridendo dello sfortunato ministro.

Uno dei ruoli principali di Shah è essere lo scudo del primo ministro. Modi ha tenuto una sola conferenza stampa in India da quando ha vinto per la prima volta le elezioni, dieci anni fa. Nell’estate 2019, nel quartier generale del Bjp a New Delhi, incontrò gli esponenti dei mezzi d’informazione insieme ad alcuni leader del Bjp. Accanto a lui sedeva Shah, allora presidente del partito, che rispose a tutte le domande al suo posto. Quando un giornalista rivolse una domanda a Modi – sulle dichiarazioni di un leader del Bjp che aveva elogiato l’assassino di Gandhi – Modi si tirò indietro indicando Shah. “Siamo solo soldati disciplinati”, scherzò il premier. “Per noi il presidente del partito è tutto”. Shah respinse le domande per mezz’ora nel suo solito stile intimidatorio. Accusò i leader dell’opposizione, finse di offendersi per le critiche e ordinò ai reporter di controllare i fatti. Il messaggio era chiaro: Modi non doveva preoccuparsi dei giornalisti molesti; se ne sarebbe occupato lui.

Nelle interviste televisive il ministro appare impaziente e parla in tono brusco e senza mezzi termini, come se spuntasse delle caselle su una lista preparata in anticipo. I conduttori lo ringraziano per aver “onorato” il loro programma ed evitano di interrompere i suoi monologhi. In queste interazioni controllate, è Shah ad apparire al comando. In parte per i suoi trascorsi nel Gujarat e in parte per il ricorso ampiamente documentato del governo indiano a un software israeliano per spiare giornalisti, attivisti e avversari, nell’immaginario pubblico la figura di Shah è quella di un uomo che ha in pugno i segreti di tutti. “Modi ha un certo fascino, il che è forse il suo lato più pericoloso”, mi ha detto la scrittrice e attivista indiana Arundhati Roy. “Amit Shah è uno strumento con una sola corda: l’unica nota che sa suonare è quella della paura”.

Shah ha un sito personale che comprende una pagina intitolata “Il lato leggero”, con vignette politiche su di lui. In una di queste, l’agenzia investigativa del ministero delle finanze è rappresentata come un cane sguinzagliato da Shah per dare la caccia a un leader dell’opposizione. “Gli piace spaventare la gente”, mi ha detto un avvocato del Gujarat che conosce Shah da anni.

Molte delle persone che ho contattato per questo articolo mi hanno parlato solo a condizione di restare anonime o si sono rifiutate di parlare. Giudici della corte suprema in pensione, ex ministri del governo centrale e perfino giornalisti politici mi hanno detto di non aver niente da dire sul suo conto. Un ex ministro dell’interno mi ha detto – cosa piuttosto improbabile – di non avere più nessuna opinione sul ministero. I pochi che hanno accettato di parlare non erano disposti a farlo per telefono. Uno dei più noti avvocati del paese ha reagito con una risata alla proposta di rilasciare un’intervista via Zoom. E quando ha finito di ridere ha detto: “No.”

Lo stesso Shah in un primo momento aveva accettato di incontrarmi, mi ha detto un portavoce del Bjp, ma poi ha cambiato idea senza nessuna spiegazione, e il portavoce stesso ha smesso di rispondere. A maggio, quando gli ho mandato un elenco dettagliato di domande, ha detto che sarebbe stato impossibile per Shah trovare il tempo per un commento prima della fine delle elezioni, a giugno.

“Bisogna stare attenti a come si parla di Amit Shah”, mi ha detto Roy quando l’ho chiamata per la prima volta. “Le cose che vale la pena di dire in realtà non si possono dire o pubblicare”. Qualche settimana dopo, durante un incontro con un importante esponente del Bjp, ho sentito di nuovo lo stesso commento: “Ci sono cose su Shah che non si possono dire”.

Un “uomo rude” è come lo ricorda Aakar Patel, ex capo di Amnesty International in India, che ha avuto a che fare con lui per un breve periodo in Gujarat una ventina d’anni fa. Mostrava già allora una certa arroganza. Era un uomo piuttosto corpulento e dall’atteggiamento pigro che di regola indossava una kurta della misura sbagliata. Pelato come una palla da biliardo, aveva la faccia tonda, una barba ribelle e occhi astuti. Ora, a 59 anni, la barba è corta, la kurta di ottimo taglio è impreziosita da sciarpe Burberry, e dietro un paio di occhiali senza montatura gli occhi si sono assestati in uno sguardo fisso, inquietante.

Il trattamento Haren Pandya

È tra le fiamme dei disordini scoppiati in Gujarat nel 2002 che è cominciata la fase attuale della storia indiana. In tre giorni ad Ahmedabad la folla indù uccise centinaia di musulmani. La polizia fece poco per fermare la violenza, perfino quando le donne musulmane venivano stuprate e poi bruciate vive. Le donne incinte ebbero il ventre squarciato, e le teste dei bambini musulmani furono spaccate con le pietre. Un’indagine condotta dal governo britannico nel 2004 e resa nota solo di recente riteneva Modi “direttamente responsabile” per il “clima d’impunità” che rese possibile il massacro. Per quasi un decennio gli fu vietato l’ingresso negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Modi ha sempre negato ogni responsabilità per le violenze. Ma in un discorso tenuto qualche mese fa nel Gujarat, Shah ha dichiarato con orgoglio alla folla: “Modi gli ha dato una lezione (ai musulmani indiani) e da allora nessuno si è più ribellato”.

Nel 2002, subito dopo le violenze di massa, Modi partecipò a una “marcia dell’orgoglio” attraverso lo stato, soffiando in fischietti per cani con un sorriso e una strizzatina d’occhi. Shah fu l’uomo di punta di Modi per quell’iniziativa, che chiamò a raccolta l’elettorato indù e spianò la strada alla prima vittoria dell’attuale primo ministro nel 2002 (Modi originariamente fu designato, non eletto, primo ministro del Gujarat). Shah, eletto al parlamento del Gujarat, fu presto nominato ministro dell’interno dello stato.

Anche dopo quella vittoria, gli interrogativi sul ruolo di Modi nei disordini contro i musulmani rimasero aperti. Molte fonti credibili lo accusavano di aver deliberatamente permesso, se non addirittura incoraggiato, la violenza della folla. Tra le fonti più significative c’era un altro leader del Bjp, Haren Pandya, un ex collega di gabinetto di Modi e suo rivale nel partito, che ribadì queste accuse alla stampa e in una deposizione giurata. Nel marzo 2003 Pandya fu trovato nella sua auto con cinque pallottole in corpo. Il caso è rimasto irrisolto, ma la storia di Pandya è diventata proverbiale. Nel 2023 un importante leader del Bjp ha scritto su X di temere che Modi e Shah potessero “fargli un trattamento Haren Pandya”. Subramanian Swamy, il leader dissidente del Bjp autore del tweet, appartiene a una generazione di nazionalisti indù messa in soffitta da Modi e Shah. Swamy mi ha detto che il senso di quella dichiarazione era che Shah avrebbe potuto cacciarlo dal partito “come aveva fatto con Haren Pandya”. Questo perché, mi ha spiegato, Modi e Shah sono persone profondamente insicure che vogliono limitare l’influenza di dirigenti con la loro stessa base elettorale e statura politica. “È diventato un one-man show”, ha detto Swamy. E a suo giudizio Shah è il direttore di scena di questo show. “Amit Shah aiuta Modi a guidare il partito come una macchina, quasi come in Unione Sovietica”, ha detto Swamy.

Nel Gujarat, prima del suo arresto e del suo allontanamento nel 2010, Shah di fatto guidò lo stato per conto di Modi; ebbe dodici incarichi diversi nel gabinetto statale, e la sua influenza sulla macchina dello stato fu ancora più importante dei titoli. Nel 2012, quando la corte suprema decise di trasferire il caso relativo alla morte di Shaikh e sua moglie dal Gujarat a Mumbai, distante 500 chilometri, gli fu permesso di tornare nello stato. La corte dispose inoltre che il tribunale inferiore doveva accertarsi che il caso fosse rivisto dall’inizio alla fine da un unico giudice. Ma in seguito alla nomina di Modi alla carica di primo ministro, nel 2014, il primo giudice che stava esaminando il caso di Sheikh fu trasferito poco dopo aver chiesto a Shah di comparire in giudizio. Sei mesi più tardi, a dicembre, il secondo giudice, Brijgopal Harkishan Loya, morì improvvisamente per un attacco cardiaco – le circostanze della sua morte sono state messe in dubbio – mentre partecipava a un matrimonio. Il terzo giudice a cui fu affidato il caso ritirò le accuse contro Shah dopo tre settimane.

Nel 2014 Modi affidò a Shah la presidenza del Bjp. All’epoca Shah era ancora accusato di omicidio, ma il partito si allineò, ubbidiente. Shah ripagò la fiducia. Nei cinque anni seguenti gli iscritti al partito, che erano 35 milioni al momento del suo arrivo alla presidenza, crebbero di quasi sei volte fino a raggiungere quota 180 milioni. Nel 2018, grazie a Shah, il partito governava in 21 dei 28 stati dell’India.

Nessuno nega che sia un organizzatore politico estremamente efficace. Chi ha lavorato con lui dice che fa controlli pignoli e ossessivi. Ha concentrato l’esercito degli iscritti al Bjp intorno alla cabina elettorale locale, l’unità più piccola nella vasta impresa che è ogni elezione indiana. Ci sono circa un milione di seggi in India. Per ogni seggio in cui è presente il Bjp, un piccolo gruppo di organizzatori identifica i potenziali elettori del partito e si accerta che vadano a votare. Questi organizzatori riferiscono al loro supervisore, che riferisce a un supervisore regionale, che a sua volta riferisce a Shah, che perfeziona la strategia del partito di conseguenza.

“È un organizzatore instancabile dei quadri del partito”, mi ha detto un giornalista di New Delhi. “Rimane nella sede del Bjp fino a tarda notte, accertandosi che tutti lavorino e che tutti mangino; il suo telefono squilla di continuo, riceve aggiornamenti da ogni angolo del paese, ride, fa battute, gesticola”. Il potere di Shah è altrettanto innegabile. Durante il primo mandato di Modi, Shah, da presidente del Bjp tecnicamente non faceva parte del governo. Ma il lobbista di New Delhi mi ha detto di aver visto “ministri saltare sulla sedia quando arrivava una sua telefonata”. Rajiv Shah, un giornalista che ha seguito i primi anni di Modi e Shah, mi ha spiegato l’ordine di comando nel Gujarat, che rispecchia perfettamente il modo in cui oggi si governa a New Delhi. “Il numero uno è Modi, ed è anche tutti i numeri dall’uno al dieci”, ha detto. “Poi dall’11 al 30 c’è Amit Shah, e poi c’è un sacco di gente a cui i due dicono cosa fare”.

A differenza di Modi, a cui piace mitizzare la sua vita, Shah ha coltivato un’aura di assoluta opacità che rende difficile accertare perfino i più banali dettagli della sua biografia. Di lui si sa così poco che i leader dell’opposizione hanno perfino chiesto pubblicamente se è indù. Quando ho rivolto la stessa domanda a un giornalista del Gujarat che segue le vicende dello stato da più di vent’anni, compreso tutto il periodo di attività di Shah, lui ha assicurato: “È un indù kattar.” Il termine hindi, che letteralmente significa “devoto, fedele”, suggerisce anche un violento fondamentalismo.

Biografia riadattata

Questi sono i fatti. Shah è nato nel 1964 in una famiglia ricca del Gujarat di una casta elevata. Un suo bisnonno era il nagarseth – un consigliere straordinariamente ricco del re in carica – nel piccolo stato principesco di Mansa, a un’ora di macchina da Ahmedabad. Ha trascorso l’infanzia in un haveli, la residenza di famiglia. Suo padre era il presidente della borsa di Ahmedabad e aveva un’azienda che fabbricava tubature con materiali termoplastici. Shah avrebbe potuto tranquillamente vivere giocando in borsa, commerciando o gestendo un’attività di qualche tipo.

Nel 2016 ha detto al giornalista Patrick French di non essere stato “entusiasta degli studi formali” e di aver passato gli anni dell’adolescenza nella shakha (scuola) locale dell’Rss, l’organizzazione nazionalista indù di cui il Bjp è l’ala politica. Quand’era giovanissimo, la sua famiglia si trasferì ad Ahmedabad, all’epoca la capitale del Gujarat, dove ha conosciuto Modi, che aveva il doppio dei suoi anni. “Allora avevo 16 o 17 anni”, ha detto a French. “Modi era responsabile di tre distretti dell’Rss nel Gujarat, compresa Ahmedabad. Aveva formato migliaia di militanti”. Quando il giornalista gli ha chiesto di raccontare qualcosa di più, Shah ha chiuso l’argomento: “Non intendo parlare del mio rapporto personale con Narendra”.

È possibile che Shah abbia frequentato una shakha. Oggi sono molti in India a sostenere di aver frequentato le scuole dell’Rss nella loro infanzia: essersi crogiolati nell’atmosfera del suprematismo indù è ormai un motivo d’orgoglio politicamente vantaggioso. Ma in Gujarat i giornalisti locali non ricordano niente del genere a proposito degli anni giovanili di Shah. Non ci sono sue foto nella caratteristica uniforme dell’Rss, camicia bianca e calzoncini color kaki. L’Rss impone la castità ai suoi membri, ma Shah ha una famiglia: si è sposato nel 1987 e ha un figlio, Jay Shah, che guida la federazione indiana di cricket ed è stato definito “la persona in assoluto più importante di qualunque sport in qualunque paese del mondo”.

Dhirendra Jha, un giornalista che vive a New Delhi e che ha scritto molti libri sull’Rss, mi ha detto di credere che Shah abbia aggiornato la storia della sua vita per farsi accettare dai fedeli seguaci dell’organizzazione. Il racconto della sua infanzia e adolescenza è contraddittorio. In un libro pubblicato nel 2022 per celebrare i vent’anni di governo Modi – dodici nel Gujarat e otto a New Delhi – Shah sosteneva di averlo conosciuto nel 1987, quando aveva 23 anni e non 17. Ma ancora una volta non dice niente di più. Il rapporto tra Modi e Shah, uno dei legami più importanti nella storia della politica indiana, è ammantato di nebbia e segretezza fin dall’inizio. Anche quando sembra che non ci sia niente che valga la pena di nascondere, s’insiste a non dire niente.

Mentre studiava biochimica in un college privato, nei primi anni ottanta, Shah lavorava già per l’impresa di famiglia. Tra i suoi amici c’erano altri uomini d’affari come Gautam Adani, oggi l’uomo più ricco d’India. Un arrampicatore sociale con grandi disponibilità finanziarie, grande riservatezza e agganci nella comunità imprenditoriale del Gujarat, Shah era un uomo utile per Modi. Negli anni della sua scalata del Bjp, Modi lo ha portato con sé. “Modi è riuscito a conservare un’immagine pubblica pulita”, ha detto nel 2010 un politico del Gujarat all’Hindustan Times, “perché ha delegato tutto il lavoro sporco a Shah, che l’ha svolto senza pietà”.

L’impronta di Shah

Se si guarda alla storia del nazionalismo indù nell’India moderna, si cominciano a vedere ovunque le impronte di Amit Shah. Alla fine degli anni ottanta, il Bjp era unito sull’idea di costruire un tempio nell’ipotetico luogo di nascita di Rama, una divinità indù, che a loro dire si trovava nel sito di un’antica moschea nella città di Ayodhya. Per sostenere questa causa, Lal Krishna Advani, all’epoca presidente del Bjp, fece un viaggio di due mesi attraverso l’India centrale, tenendo discorsi provocatori a ogni tappa. Usava un pickup della Toyota decorato con l’iconografia indù per farlo somigliare a un carro vedico. Negli ottanta giorni dall’inizio del viaggio, ha osservato lo storico K.M. Panikkar, i comizi di Advani incitarono 116 tumulti tra indù e musulmani in 14 stati, causando la morte di 564 persone. Shah sostiene di aver guidato la “campagna per mobilitare le masse” durante il viaggio di Advani, che raggiunse il culmine due anni dopo, quando gli uomini dell’Rss demolirono la moschea di Ayodhya, scatenando violenze in tutto il paese.

Nel 1991, quando Advani partecipò alle elezioni nazionali candidandosi in un collegio del Gujarat, Shah organizzò la sua campagna elettorale. In una foto sgranata di quel periodo, in una stanza piena di gente si vede Advani che firma la sua nomina elettorale seduto accanto a Modi; Shah è il personaggio con la barba vicino al bordo, madido di sudore, con il pugno appoggiato sul tavolo.

Nella seconda metà del novecento, il Gujarat – oggi epicentro del nazionalismo indù – si trasformò in una polveriera. Nel 1969 e nel 1985 ci furono disordini diffusi che presero di mira la comunità musulmana. Shah è cresciuto in quel periodo. Negli anni novanta, come ha osservato lo storico del Gujarat Achyut Yagnik, era ormai frequente che durante le violenze fossero colpiti anche donne e bambini.

Queste tendenze raggiunsero l’apice nei tumulti del 2002. Rajiv Shah, il giornalista del Gujarat, vive da decenni a Sarkhej, il quartiere di Ahmedabad che è stato il vecchio collegio di Amit Shah nelle elezioni parlamentari dello stato. Nel 2023, quando ci siamo incontrati nel suo appartamento, ha ricordato di essersi imbattuto in Shah da giovane. “Quando le tensioni erano ancora forti, vidi Shah uscire dall’ufficio di Modi”, mi ha raccontato. “Gli dissi che c’era una grande inquietudine nella comunità e gli chiesi se pensava di riunire i leader di indù e musulmani per raggiungere la pace”. Amit Shah, stando al racconto di Rajiv, sorrise e gli chiese dove viveva. A Sarkhej, indù e musulmani erano segregati. Sentito l’indirizzo di Rajiv, Shah gli disse di non preoccuparsi. Nella sua parte del quartiere non sarebbe successo niente, assicurò. Sarebbe successo dall’altra parte.

I disordini causarono più di mille morti, e sulla loro scia sarebbero rimasti molti altri cadaveri. La morte di Haren Pandya fu vista come un avvertimento (in seguito la moglie di Pandya ha pubblicamente accusato Modi di essere implicato nella sua morte, che ha definito “un omicidio politico”). Nel 2005 furono uccisi Sohrabuddin Sheikh e la moglie. Anni dopo, durante il processo dei presunti assassini di Sheikh – a quel punto le accuse contro Shah erano state ritirate – un testimone affermò che lo stesso Sheikh era stato coinvolto nell’omicidio di Pandy, e aveva agito seguendo le istruzioni di un alto ufficiale di polizia. Nel 2006 Tulsiram Prajapati, un complice di Sheikh che era sul pullman la notte in cui Sheikh e la moglie furono prelevati dagli agenti in borghese, fu ucciso mentre era sotto custodia della polizia. Era l’ultimo testimone del sequestro di Sheikh, e sarebbe stato coinvolto anche nell’omicidio di Pandya.

Due anni dopo l’incriminazione per il caso di Sheikh, nel 2012, Shah fu di nuovo accusato di essere “la mente del complotto” per l’uccisione extragiudiziale di Prajapati. Due anni più tardi, B.H. Loya, il giudice che presiedeva il caso di Shah, fu trovato morto in circostanze sospette. Anche se le dinamiche di queste morti sono avvolte nella nebbia, è quanto meno possibile che siano tutte legate ai disordini del 2002. Le prove contro Shah erano così convincenti da spingere un periodico nazionale a dedicargli la copertina, nel 2012, con il titolo: “Perché quest’uomo è ancora libero?”. Dodici anni dopo, è inimmaginabile che la stampa indiana pubblichi un titolo del genere su un importante uomo politico del Bjp. “Sono riusciti a sfuggire al loro passato”, ha detto Aakar Patel di Amnesty International – parlava insieme di Modi e di Shah, come spesso fanno gli indiani – “e i mezzi d’informazione e il sistema giudiziario li hanno aiutati a farlo”.

L’India non aveva mai visto una stretta sulla libertà dell’informazione come quella imposta da Modi e Shah. A differenza della sospensione della libertà di stampa voluta da Indira Gandhi durante lo stato d’emergenza del 1975-1977, questo giro di vite è stato ottenuto con una tacita coercizione e minacce precise.

Durante il primo mandato del governo Modi, era lui a telefonare ai proprietari dei mezzi d’informazione quando gli articoli sul governo non rispettavano la linea desiderata. Gli editori di tv e giornali in India sono quasi tutti uomini d’affari con interessi più redditizi di cui occuparsi e che per questo dipendono dal governo. I princìpi etici del giornalismo di solito restano confinati ai discorsi nelle serate dedicate ai mezzi d’informazione, ma non valgono nelle redazioni. Mentre i telegiornali magnificavano e approvavano qualunque cosa facesse Modi, i redattori della carta stampata che offendevano lui e Shah erano messi alla porta.

I limiti del sapere

Fare il reporter in India significa scontrarsi spesso con i limiti di ciò che si può sapere. Negli ultimi dieci anni, quando lavoravo a New Delhi e seguivo le vicende giudiziarie, ho avuto molti incontri confidenziali con i giudici della corte suprema. In un primo momento ho pensato che volessero dare informazioni che l’opinione pubblica doveva conoscere. Ma questi incontri spesso si trasformavano in conversazioni di tre ore, qualche volta nel corso della cena. Una sera tardi, uscendo da una villetta al centro di New Delhi, mi resi improvvisamente conto che mi invitavano perché pensavano che ne sapessi più di loro. I cronisti mi hanno assicurato che spesso è proprio per questo che sono convocati, ma io ho trovato molto inquietante che gli stessi giudici della corte suprema non avessero un quadro chiaro di cosa succedeva nell’alta corte. Era in momenti come questo che mi accorgevo di come l’intera istituzione dell’alta corte fosse in balìa di chiunque.

Se la fragilità istituzionale in India non è niente di nuovo, ciò che distingue Modi da quanti lo hanno preceduto è la spietatezza nell’imporre la sua volontà a questo sistema traballante e usarlo per i propri fini. Era successo nel Gujarat, ora sta succedendo a New Delhi. Da più di vent’anni Modi è il volto di questa manipolazione del potere statale, e tutto questo tempo, dietro le quinte, a muovere le fila per il suo capo c’è stato Shah.

Fin dall’inizio del secondo mandato di Modi, nel 2019, organizzazioni per i diritti umani, gruppi di esperti e mezzi d’informazione internazionali hanno cominciato a preoccuparsi per l’India come non era mai successo prima. Per molti versi, ogni volta l’oggetto dei loro timori è Amit Shah. È stato lui a manovrare gli eventi a cui si devono i titoli allarmati dei giornali.

Nell’agosto 2019, due mesi dopo aver giurato come ministro dell’interno, Shah si alzò dal suo seggio in parlamento per realizzare una parte del programma dell’Rss, che da tempo stava diventando più reazionario. Annunciò che il governo avrebbe modificato la costituzione indiana per revocare le protezioni speciali riconosciute al Jammu e Kashmir, l’unico stato indiano a maggioranza musulmana. Nessun altro ministro era stato a conoscenza della decisione fino a quella mattina. Il piano era stato elaborato per mesi in assoluta segretezza da Shah e dal consigliere per la sicurezza nazionale. Solo Modi ne era al corrente. Due ore prima dell’annuncio fu informato il resto del governo, compreso il ministro degli esteri, osservava un resoconto dell’Economic Times, il quotidiano finanziario più diffuso del paese, e ai ministri fu chiesto “di non parlare con i mezzi d’informazione fino al discorso di Shah”. Nel giro di poche ore, si sarebbero tutti allineati davanti alle telecamere per elogiare l’iniziativa del ministro dell’interno.

Ai giornalisti stranieri fu immediatamente negato l’accesso alla regione. L’intera popolazione del Kashmir, circa quattro milioni di persone, si ritrovò isolata, con tutte le linee di comunicazione interrotte. L’esercito impose un rigido coprifuoco. Nell’area vi erano già mezzo milione di addetti alla sicurezza, prima che Shah ne trasportasse in aereo altre decine di migliaia. Per mesi gli abitanti del Kashmir non poterono accedere agli ospedali e a internet, però potevano vedere i telegiornali, dove avevano buone probabilità di trovare Shah che spiegava, fra i cenni di assenso di chi lo intervistava, che nel Kashmir andava tutto bene. Prima che qualcuno potesse valutare le conseguenze di questo brutale esperimento sociale, Shah era già passato a un altro progetto. Nell’ottobre 2019 lanciò l’idea di sottoporre a un test di cittadinanza tutti gli indiani, un miliardo e trecento milioni di persone, per fare un registro nazionale dei cittadini. Per rendere chiaro l’obiettivo del suo progetto, disse che una nuova legge sulla cittadinanza avrebbe garantito lo status di rifugiati a indù, sikh, buddisti, giainisti, parsi e cristiani arrivati in India dai paesi vicini. I musulmani erano esplicitamente esclusi. Qualche mese prima, durante una campagna elettorale, Shah aveva definito gli immigrati musulmani “termiti” che il Bjp avrebbe gettato “uno dopo l’altro” nel golfo del Bengala.

A dicembre, quando gli studenti musulmani protestarono contro la modifica delle leggi indiane sulla cittadinanza in base all’ideologia dell’Rss, la polizia di New Delhi, ormai sotto il comando di Shah, prese d’assalto l’università. Attaccò gli studenti e li costrinse a marciare fuori dal campus con le mani dietro la testa. Nelle settimane seguenti le proteste si estesero a tutto il paese. A New Delhi migliaia di donne musulmane occuparono le strade. I leader del Bjp incitarono le masse indù a spazzarle via. La folla, senza che la polizia intervenisse, scatenò disordini nella capitale per tre giorni. Pennacchi di fumo nero si levavano dai quartieri musulmani mentre Donald Trump, all’epoca presidente degli Stati Uniti, era in visita in città e beveva tè con Modi a pochi chilometri di distanza.

“Quando nomini presidente del partito un uomo come Shah, il messaggio a tutti i funzionari è molto chiaro. Si dilatano i limiti di ciò che è accettabile o che ci si aspetta da loro”, mi ha detto un ex ministro del Bjp. Oggi i dirigenti di medio livello del partito sembrano gareggiare per superarsi in ferocia nella speranza di farsi notare dal comando supremo.

Nel 2018 un giovane ministro ha pubblicamente inghirlandato le persone condannate per aver linciato un musulmano; nel 2020 in un raduno del Bjp a New Delhi un ministro del governo ha lanciato lo slogan “spariamo ai bastardi” riferendosi a chi critica Modi; nel 2022, un parlamentare del Bjp a New Delhi ha apertamente esortato a boicottare le attività commerciali dei musulmani; qualche mese fa, l’assistente di un leader del Bjp è stato visto urinare sulla faccia di un uomo di una comunità tribale. E in cima a tutti ci sono Modi e Shah, che personificano gli ideali d’impunità a cui tutti aspirano.

A giugno Modi si è assicurato il terzo mandato. L’India rimane una democrazia elettorale, anche se solo occasionalmente una democrazia costituzionale, ma il modo in cui si svolgono le elezioni è stato profondamente corrotto. La tattica di ricatto politico ben collaudata da Shah – sguinzagliare le agenzie del governo contro i cittadini e aziende – ha trovato la sua espressione più chiara in un progetto che ha fruttato al Bjp circa un miliardo di dollari “in donazioni”. Nel 2017 il governo ha approvato un progetto di legge per introdurre una nuova forma di finanziamento politico, nota come obbligazioni elettorali. Si tratta di una sorta di titoli venduti dalla banca nazionale a singoli individui e aziende, e dati a un partito senza rendere pubblica l’identità del donatore. Nel febbraio 2024 – dopo sette anni, un’elezione nazionale e più di una decina di elezioni statali – la corte suprema ha vietato questo sistema perché incostituzionale.

Ormai si sapeva che quasi la metà della cifra totale raccolta con queste obbligazioni era andata al Bjp, ma quando la corte ha chiesto alla banca di rivelare l’identità dei donatori è emerso un quadro ancora più impressionante. Quasi la metà dei trenta maggiori donatori del Bjp aveva versato cifre enormi subito dopo un’incursione delle agenzie investigative del governo. Alcune obbligazioni erano state acquistate da singoli cittadini e aziende nella stessa settimana in cui avevano subìto un’ispezione delle autorità fiscali e dell’agenzia che persegue i reati finanziari – quegli stessi cani da combattimento che Shah mostra di sguinzagliare sul suo sito. I tempi delle donazioni suscitavano domande inquietanti. Il giorno in cui furono resi noti questi dettagli, un vecchio titolo del 2011 fece il giro di X: “Amit Shah guidava una banda di estortori”.

Nel marzo 2024, durante un’intervista in occasione della festa annuale del gruppo India Today, un gruppo editoriale che possiede molte riviste e canali d’informazione influenti, Shah si è degnato di affrontare la questione. In risposta a una cortese domanda dell’intervistatore ha fatto un discorso di otto minuti, punteggiato qua e là dagli applausi del pubblico, in cui ha elencato le cifre incassate da altri partiti grazie alle obbligazioni elettorali (anche se il Bjp ha ricevuto più denaro di chiunque altro), e ha sostenuto che questo strumento di fatto ha reso trasparente il finanziamento politico (anche se il procuratore generale si era ripetutamente opposto alla pubblicazione dei dettagli delle transazioni e se c’erano voluti sette anni per ottenere questa “trasparenza”). L’intervistatore non ha incalzato Shah per avere risposte precise. Sarebbe stato rischioso. Shah avrebbe potuto infastidirsi, avrebbe potuto decidere di non partecipare più all’India Today Conclave 2025. O, peggio ancora, i proprietari del gruppo editoriale il giorno dopo avrebbero potuto ricevere la visita di un funzionario dell’agenzia delle entrate. Il pubblico invece ha ottenuto qualcosa che somigliava a un’intervista e tutti sono riusciti a salvare il loro posto di lavoro.

Con Shah le conseguenze indesiderabili sono sempre all’orizzonte. Tutti hanno un’idea di lui, di cosa potrebbe essere pronto a fare, e nessuno sa con certezza se c’è qualcosa che non farà. gc

L’AUTORE

Atul Dev è un giornalista indiano. Ha lavorato al mensile The Caravan di New Delhi e oggi è ricercatore della Columbia Journalism School, negli Stati Uniti.

Atul Dev, The Guardian, Regno Unito

Internazionale 1590 | 22 novembre 2024 pag.58

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