Ora tavolo tecnico di co-progettazione
L'immobile di corso Regina Margherita, destinato ad attività per la collettività
Serrature cambiate, locali vuoti, lucchetti alle porte. Quella di ieri non è stata una mattinata come le altre. Almeno non per il quartiere di Vanchiglia che, dopo 27 anni, ha visto finire l’occupazione dell’ex asilo Opera Pia Reynero, diventato poi la sede del centro sociale Askatasuna. Come avevano garantito lo psichiatra Ugo Zamburru, il fondatore dei Subsonica Max Casacci, Elisa Turro, Rosa Lupano e Loredana Sancin, i cinque cittadini che hanno proposto al Comune di trasformare Askatasuna in un «bene comune», l’immobile di corso Regina Margherita è stato liberato dagli occupanti.
Nessuno sgombero, nessuna azione di forza. E da oggi può cominciare la fase di co-progettazione per trasformare il cortile e il piano terra dello stabile in un centro di attività sociali. Il cammino non sarà però agevole. La decisione di legalizzare — di fatto — Askatasuna aveva sollevato le critiche delle opposizioni e degli stessi sindacati di polizia.
La giunta comunale, però, è intenzionata ad andare avanti e, dopo il verbale di consegna, il primo
passo della giornata odierna, venerdì 26 febbraio, sarà l’insediamento del tavolo tecnico nella sede dell’assessorato ai Beni Comuni. Oltre al comitato spontaneo dei cittadini (tutti vicini ad Askatasuna) parteciperanno i funzionari del Comune competenti per settore. Parallelamente dovranno partire gli
accertamenti degli ingegneri e dei tecnici incaricati di eseguire una
perizia sulle condizioni dell’immobile e sulle tempistiche degli
interventi di messa in sicurezza da eseguire.
I verbali dei vigili del fuoco e dell’Asl parlano chiaro. Dopo il blitz della Digos effettuato lo scorso dicembre,
il dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria aveva accertato
la presenza di «un impianto di riscaldamento centralizzato non
funzionante, stufe non stagne e ambienti riscaldati in maniera
empirica», oltre a «impianti elettrici realizzati e manutenuti in
condizioni di sicurezza non adeguate».
Le criticità maggiori riguardano i piani superiori (che non sono oggetto, almeno per il momento del progetto di co-gestione), ma anche al piano terreno non mancano i problemi. Vigili del fuoco e Asl hanno constatato l’abbattimento di un muro portante che «potrebbe portare alla compromissione della sicurezza statica dell’edificio». Una palazzina costruita nel 1892, probabilmente non con una struttura portante in calcestruzzo, i cui spazi, secondo l’Asl « per come sono stati realizzati, manutenuti e condotti non possono essere ricondotti ad alcuna attività regolamentata dalla normativa vigente». Un’inagibilità certificata anche dai vigili del fuoco che avevano riscontrato «un elevato rischio per gli occupanti in caso di incendio». Le tempistiche per trasformare l’ex asilo in un centro di aggregazione, sede di eventi culturali, palestra popolare e studio di registrazione non si annunciano brevi.
Torino, Askatasuna consegna l’immobile occupato al Comune
Domani si insedierà nella sede dell’assessorato ai Beni Comuni il tavolo tecnico di co-progettazione
TORINO – Il centro sociale Askatasuna ha consegnato al Comune l’immobile che occupava. Domani si insedierà domani nella sede dell’assessorato ai Beni Comuni il tavolo tecnico di co-progettazione per l’immobile di corso Regina Margherita 47, di proprietà della Città di Torino e destinato ad attività per la collettività.
Al tavolo parteciperanno il gruppo spontaneo di cittadini e cittadine proponenti del progetto, approvato dalla Giunta Comunale con delibera del 30 gennaio scorso, e i funzionari dell’amministrazione comunale competenti dei settori Trasformazioni Periferie, Beni Comuni, Rigenerazione Urbana, Patrimonio, Cultura e Politiche Giovanili.
Il tavolo prende avvio dopo il verbale di consegna dell’immobile di questa mattina. Parallelamente partiranno anche i necessari accertamenti dei tecnici strutturisti incaricati di una perizia sulle condizioni dell’immobile.
Askatasuna: “Così è, ci pare”
Abbiamo aspettato qualche giorno prima di prendere parola davanti alla delibera sull’Askatasuna emessa dal Comune di Torino. Fatecelo dire, le reazioni scomposte a cui abbiamo assistito ci hanno fatto ridere sotto e sopra i baffi.
Ci sembra di aver capito che a raccogliere firme contro Askatasuna e per la legalità ci andrà Augusta Montaruli, quella condannata per peculato per essersi comprata borsette Swarovski e cene di lusso coi soldi della Regione. Auguri! Qualcuno un po’ più sveglio di lei nel partito le ha fatto capire che, ad andare a chiedere in giro di Askatasuna, la destra cittadina potrebbe finire a gamba all’aria. Ma capiamo che per chi vive di politica da quando aveva 16 anni, la realtà fuori dai palazzi può apparire un po’ sbiadita. Ci sembra poi di aver inteso che c’è chi sogna un commissariato dentro il centro sociale. Vedere il livello di rodimento di fegato raggiunto a causa nostra da quegli stessi sindacati di polizia che applaudivano gli assassini di Federico Aldrovandi è un’ennesima medaglia. Abbiamo poi visto quattro pellegrini con striscioni contro l’Aska davanti a palazzo di città in una manifestazione oceanica che non avrebbe bloccato manco un monopattino. Abbiamo infine visto una procura nel pallone provare a intervenire in extremis con le ennesime misure cautelari sincronizzate con i desiderata della destra cittadina. Pulci sulla schiena di una realtà che anima i loro incubi da quasi 40 anni. Visto che il senso del ridicolo manca a questi giullari di corte, tocca a noi essere seri e provare a spiegare cosa siamo e cosa rappresenta per noi questa “uscita dall’alto”.
Non pretendiamo che faccia consenso, capiamo che a molti non vada giù, comprendiamo che ciò risulti incomprensibile in procura ma partiamo da un dato di fatto: tantissimi giovani si sono avvicinati e continuano ad avvicinarsi alla realtà del centro sociale Askatasuna. Non per oscure manipolazioni di un gruppo di viziosi violenti, come vorrebbero far credere i deliri questurini, ma perché l’Askatasuna prova a rispondere a un bisogno che va al di là dell’immobile di corso Regina 47. Il bisogno di un sogno comune, la voglia di costruire una potenza collettiva lontana dall’ipocrisia della politica istituzionale ma capace di pesare sulla città. È da questo bisogno che è nata una realtà che, come abbiamo visto in questi giorni, è cresciuta fino a diventare ossessione delle destre e cattiva coscienza di una sinistra che troppo spesso ha abdicato il ruolo di rappresentare la sua parte, quella degli oppressi. In un mondo in cui regna rassegnazione e individualismo siamo gente col pallino di fare politica. In un mondo in cui fare politica significa farsi pagare abbiamo invece capito che per fare politica bisogna pagare. Energie, tempo e anche, talvolta, libertà. Perché la storia dei popoli che lottano ci restituisce il fatto che legalità non sempre coincide con giustizia sociale e che serve lottare per fare prevalere i diritti, anche quelli fondamentali, sugli interessi di parte.
Da quando abbiamo commesso l’imperdonabile peccato di dare gambe e continuità alle proteste in Val di Susa, lo stato ha deciso di far pagare a decine di militanti un prezzo assai alto. In una decina d’anni gli indagati sono stati oltre 200, forse il numero più alto per un collettivo politico dagli anni ’70. Questo a fronte di un livello di conflitto tutto sommato estremamente contenuto sia rispetto alla storia del nostro paese sia rispetto a quanto vediamo altrove in Europa. Ma d’altronde c’è poco da lamentarsi: se c’è risacca è sempre più difficile nuotare liberi. Tanti, a volte appena adolescenti, hanno scontato carcere preventivo, tantissimi lunghi arresti domiciliari. I processi si sono risolti per la maggior parte in nulla di fatto, condanne “bagatellari” o addirittura assoluzioni. Ma questo importa poco, perché l’intento è sempre stato solo quello di fiaccare i vecchi e spaventare i giovani. In molti hanno continuato però, incredibilmente, ad aggregarsi a un progetto che, senza tante menate, prova a mettersi al servizio del conflitto sociale. Questura e procura aprono quindi un secondo fronte, quello per provare a disarticolare il legame tra Askatasuna e la città, con livelli di infamia da Guinness dei primati. Se il modello cattivi e violenti non funziona, proviamo a farli passare da ras e magnaccia. La digos arriva a inseguire chi spacciava crack davanti alla scuola elementare di Vanchiglia per strappargli una denuncia contro i ragazzi del centro sociale che avrebbero osato tirar loro un calcio in culo. Rintraccia un marito violento cacciato da un’occupazione abitativa per chiedergli di identificare i cattivi che l’avrebbero messo alla porta. E via culminando fino alla tentata operazione “associazione sovversiva” del 2022. Il modello doveva essere quello dell’asilo occupato di via Alessandria: reato associativo, sgombero e demolizione dello stabile. C’è però un intoppo, “l’associazione sovversiva” non viene firmata dal Gip e, per salvare parte del teorema, il Tribunale del Riesame tira fuori dal cappello il reato di “associazione a delinquere”, lo sgombero va a monte. Si apre quindi il terzo fronte, quello del logoramento amministrativo. Interventi dei vigili del fuoco, sigilli, mezzucci, tentativo di far passare uno spazio ricreativo in cui nessuno ha mai preso una lira per discoteca. L’obiettivo è uno, togliere il terreno sotto ai piedi a una realtà che non si piega e non si spezza, e l’epilogo ricercato evidente.
In questo contesto ci è sembrato fondamentale riprendere l’iniziativa. Rilanciare politicamente per uscire dall’angolo in cui i nostri avversari ci avrebbero voluto tenere. Non abbiamo mai avuto problemi col fatto che le istituzioni riconoscano il valore di quanto fatto dal basso (i doposcuola, le feste per bambini, la musica, la palestra, il cinema), anzi. Lo stesso csa Murazzi fu concesso dal Comune nel lontano 1989 dopo una serie di occupazioni, sgomberi e mobilitazioni. E da lì in poi ci pare che tutto ci si possa imputare, tranne di essere stati indulgenti col centro sinistra torinese, dall’occupazione della sede dei DS per protestare contro l’arresto di Ocalan nel lontano 1999. A seguire, le dure contestazioni contro la sinistra di guerra che bombardava Belgrado e l’irruzione nel centro sociale in modalità che anticipavano quanto poi accadde alla Diaz di Genova. La storia è lunga… e arriva fino all’operazione di venerdì scorso con una decina di nuove restrizioni e divieti di dimora per giovanissimi compagni e compagne.
L’importante per noi è come si arriva a quello che può essere, a seconda dei contesti, un passaggio utile, inutile o deleterio. L’azione politica è plasmata al ribasso dalla necessità di farsi riconoscere dalle istituzioni? Peggio, ci si fa riconoscere per provare a ottenere un posto al sole per qualche capo o capetto? Oppure si costruisce pazientemente un radicamento fino a far diventare uno spazio occupato un punto di riferimento imprescindibile per la città? Detto questo, per noi il centro sociale è sempre stato un mezzo e non un fine. Se per qualche motivo, strettamente politicista, questo percorso in futuro dovesse arenarsi, non cambia il dato di fatto che è già evidente per una grande fetta di Torino. Dai bimbi dell’asilo di via Balbo che vengono a festeggiare il compleanno coi loro amichetti dentro l’Aska, fino ai ragazzi venuti sin dalla provincia torinese a danzare sulle note della tecno nessuno ha aspettato un pezzo di carta per sapere che Askatasuna è già un bene comune della città.
Precisiamo un paio di punti, per dissipare ogni dubbio e levare qualche grillo per la testa. Siamo più che disponibili a investire le nostre energie per migliorare la sicurezza dello stabile e garantire una maggiore fruibilità e facilitarne l’accesso. Perché siamo convinti, insieme a tanti altri, che il centro è ormai diventato patrimonio comune che va al di là del collettivo politico che lo ha curato fino a oggi, garantendo lo svolgimento di tante attività per la città. Il nostro impegno in tal senso non significa però in alcun modo abdicare ai legami che abbiamo costruito col quartiere Vanchiglia e al nostro impegno politico sul territorio. Ci siamo stati per questo quartiere quando era un deserto di servizi. Ci siamo stati quando le amministrazioni hanno avviato un processo per trasformarlo in “tavolinificio”, rilasciando licenze a destra e a manca. Ci siamo stati quando si è voluto militarizzare il quartiere per reprimere una vita notturna spostata lì di forza dalle scelte scellerate fatte a palazzo di città. Ci siamo stati per dare attività all’aria aperta ai bambini del quartiere durante la pandemia quando le famiglie sono state lasciate sole dalle istituzioni. Capiamo che per politici che ragionano con scadenze elettorali a 4 o 5 anni siano dinamiche secondarie, ma per noi che abbiamo plasmato la vita di Vanchiglia e siamo stati plasmati da essa, sono cose centrali. Per quel che ci riguarda, siamo all’inizio di un percorso, tutto può ancora accadere: è un terreno per noi inesplorato ma lo pratichiamo con la stessa determinazione e parzialità con cui da decenni siamo parte viva delle lotte sul territorio, in città, in valle e ovunque sarà necessario mobilitarsi.
Così è, ci pare
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Torino laboratorio di repressione è un frame ricorrente e una realtà che chi protesta in città vive sulla pelle. La scelta di Askatasuna e del Comune di intraprendere un percorso di dialogo e sperimentare forme nuove, quali il bene comune e la co-progettazione, lo infrange.
Lasciando intravvedere un’altra città possibile. E specifico: città, perché la delibera sul bene comune è da leggere non come risoluzione di un problema di ordine pubblico, ma come idea di un territorio vivo, dove la conflittualità non è neutralizzata e la partecipazione valorizzata. Un altro modello di democrazia. Utopia? La sterilizzazione di una esperienza di alternativa radicale?
Intendiamoci. Non sarà un percorso facile, si regge su un sottile filo di equilibrio. Dalla parte di Askatasuna, c’è il mantenimento di una radicalità forte nel contesto di una cornice condivisa con il Comune; da parte delle istituzioni, c’è il confronto con un progetto politico e una protesta che urta e inquieta. Ma questa è la complessità di una democrazia conflittuale, è l’indicatore di un suo buono stato di salute. È un segnale controcorrente rispetto all’immagine di una democrazia che non tollera gli scioperi, che reprime l’eco-attivismo, che espelle il pensiero divergente, così come di una democrazia atrofizzata.
È una sperimentazione «antagonista», per riprendere provocatoriamente un’etichetta utilizzata in senso squalificante e generalizzante, rispetto al modello imperante: repressivo, omologante e passivizzante.
Fra i connotati più evidenti di Torino «laboratorio di repressione», si segnala un attivismo giudiziario attento a tutte le possibili violazioni di legge, civili, penali, amministrative, sperimentato sugli appartenenti al movimento no Tav ed applicato a chi agisce il conflitto sociale. Colpisce leggere sul sito della Procura che il pool di magistrati che abitualmente si occupa dei reati inerenti la protesta è rubricato sotto la voce «Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico». Il dissenso e la protesta, lungi dall’essere ascrivibili al terrorismo (i tentativi in merito sono stati cassati dalla stessa magistratura) non sono eversivi dell’ordine democratico ma elemento imprescindibile della democrazia. Il concetto di un ordine presupposto è lontano da un orizzonte che implica pluralismo e discussione.
Certo, il compimento di reati va perseguito, ma la responsabilità penale è personale. Ragionevolezza e proporzionalità devono essere il parametro per determinare fattispecie incriminatrici, misure cautelari e pene, come, a maggior ragione, le misure di prevenzione adottate dal Questore, retaggi fascisti, di assai (e più che) dubbia legittimità costituzionale. E poi c’è il comportamento violento delle forze dell’ordine nelle proteste. Penso al primo maggio, dove la volontà di impedire l’ingresso nella piazza allo spezzone sociale produce scontri ormai «classici» (solo nel 2023 evitati, grazie a un intenso dialogo preventivo), ai manganelli sugli studenti antifascisti all’università, ma il discorso può estendersi agli sgomberi di edifici occupati o alla resistenza agli sfratti.
Torino è un laboratorio, ma la tendenza è globale: reprimere, dissuadere, intimidire la protesta. È una parte del mondo che di fronte a diseguaglianze insostenibili, agli effetti di una competitività sempre più violenta, si blinda.
La Torino che guarda oltre la stigmatizzazione dei centri sociali come covo di illegalità e riconosce valore all’autorganizzazione di attività sociali e culturali, alla partecipazione dal basso, indica un altro percorso possibile, che – per inciso – è nel segno della Costituzione. È il tentativo di cogliere le potenzialità di una categoria, il «bene comune», come modo per ripensare il bene pubblico come «dei cittadini», senza anestetizzare la divergenza, anche radicale, che assicura la dinamicità plurale, la vitalità, la possibilità di trasformazione, della democrazia.
Starà alle forze politiche in campo far sì che questo sia un modo diverso per mantenere «la forza della critica totale» (Pasolini) senza scivolare in una «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà» (Marcuse).
È un piccolo passo, la delibera e non lo sgombero, che rinvia al grande scontro sul modo di intendere la democrazia: democrazia come strumento di controllo e gestione del potere o democrazia contro il potere, nel segno di una effettiva emancipazione sociale e politica?
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