La lotta degli operai storicamente è sempre la lotta sindacale degli operai, ed è concentrata su due problemi, vale a dire l'orario di lavoro e il salario come due questioni centrali che animano lo scontro tra padroni e operai. I padroni dicono sempre che “siamo nella stessa barca”, se vado bene io andrete bene voi lavoratori. E il governo lo stesso. Lo dice Meloni esplicitamente: noi lavoriamo perché le imprese guadagnino così guadagnano i lavoratori.
Sappiamo che si tratta di una favola. Chi ha un minimo di cervello sul posto di lavoro sa bene che non funziona così.
Però in ogni caso due questioni sono al centro e che sono al centro oggi proprio perché siamo in difficoltà come movimento operaio, come lotte degli operai e dei lavoratori: la questione del salario e la questione dell'orario.
In Germania, per esempio, la lotta di 80.000 siderurgici ha ottenuto la riduzione d'orario da 35 a 32 ore
retribuite 33, insieme ad una tantum di 3.000 € che hanno tenuto nel ‘94 e un aumento salariale del 5,5% dal 2025.La giustificazione dei sindacati tedeschi è semplice: dopo l'introduzione di nuovi impianti serviranno meno ore di lavoro per la produzione dell'acciaio. Da qui nasce il discorso delle 4 giornate di lavoro a parità di salario che trovano una giustificazione nello sviluppo stesso della produzione, e nel minor tempo di lavoro che serve per produrre quello che prima si produceva in maggior tempo.
I padroni non ci stanno mai, perché per loro tutto ciò che non è lavoro necessario è plusvalore, cioè profitto. Quindi dice il quotidiano degli imprenditori in Germania: “si, sarebbe bello ma sbagliato”.
Il buon senso dice che “una settimana di 4 giorni, a parità di retribuzione, potrebbe dare un contributo significativo a mantenere il settore auto attraente per i giovani. Sarebbe un rimedio collaudato per la carenza di manodopera”. Questo non lo dice chissà quale marxista o quale comunista ma lo dice il presidente del sindacato metalmeccanico principale in Germania.
Sembrano espressioni di puro buon senso e il buon senso dovrebbe essere addirittura alla base delle piattaforme sindacali e della lotta in seno alle fabbriche.
D'altra parte basterebbe chiedere ai lavoratori e in Germania lo hanno fatto. Un sondaggio riportato dal giornale francese, Le Monde, lo riprende e dice: il 75% dei lavoratori tedeschi vorrebbe passare a 4 giorni a parità di salario. E riafferma che questo sarebbe anche più appetibile per i giovani, che certo pensare che devono stare sul posto di lavoro 8 ore e poi straordinari e poi ecc ecc non è che gli sembra un futuro accettabile.
La lotta per la riduzione da orario di lavoro a parità di paga è la lotta delle lotte per il movimento operaio. Oggi in tutte le fabbriche d'Italia, come d'Europa e del mondo.
Certo, la crisi, l'attacco al posto di lavoro, la riduzione dei salari, dissuadono dal pensare che questa lotta si possa fare. E quindi fare questa lotta sembra più un problema che una soluzione.
Questo è ciò che è da rovesciare. Siamo partiti che questa cosa è avvenuta innanzitutto tra i siderurgici. Pensiamo come dentro la crisi dell'industria siderurgica - tanto per non fare nomi dell'ex Ilva, di Acciaierie Italia - come la riduzione d'orario di lavoro a parità di paga sia la rivendicazione giusta e necessaria per fronteggiare anche gli stati di crisi, di conversione/trasformazione che queste industrie necessariamente devono attraversare.
Ma il problema è sempre questo: la difficoltà di lottare per la riduzione dell'orario di lavoro a fronte di salari che non vengono difesi. La difesa del salario è l'alimento necessario per poter fare seriamente la lotta per la riduzione orario di lavoro ma è sul fronte del salario che invece vediamo il più forte arretramento dei lavoratori.
Il rapporto tra l'inflazione e il recupero dei salari è chiaramente a sfavore dei salari.
La lotta per il salario, però, non può essere fatta con contratti che producono aumenti di salario di poco più che un caffè al giorno. Se il salario è stato tagliato seccamente è evidente che va recuperato seccamente e le strade sono sempre state solo due: la reintroduzione della scala mobile per attenuare gli effetti del carovita, dell'inflazione e dell'aumento dei prezzi e l'aumento salariale corrispondente alla produttività, non quella calcolata dai padroni, ma quella obiettivamente visibile dalla quantità di lavoro per fare i prodotti che in seno alle fabbriche si fanno.
E’ intorno a queste due cose che si innesta l'aumento salariale che oggi, per essere imposto, deve partire dai posti di lavoro. Così è avvenuto anche in Francia e in altri paesi. Non bisogna aspettare i contratti. Quando i salari scendono – e in questo periodo scendono - bisogna partire con vertenze salariali vere, ci vorrebbero almeno richieste di 500 € per poter riequilibrare. Poi se ne ottengono un pò meno, ma l'importante è il fatto di partire, la lotta salariale è certo anche nei contratti, battersi e ciò che non si tocca è la richiesta salariale. Invece normalmente si parte da una cifra e si arriva a un caffè al giorno.
Dentro però la questione salariale c'è la questione della discriminazione in seno alle fabbriche. E su questo bisognerebbe parlarne a lungo. Le differenze salariali tra lavoratori e lavoratrici. I salari che vengono dati ai settori meno tutelati, ai lavoratori immigrati. E così via. Su questo esistono dati inconfutabili della permanenza ed estensione della discriminazione salariale.
A parità di lavoro vi deve essere parità di salario. Questo vale innanzitutto per le lavoratrici e ancor più - data la situazione - per i lavoratori immigrati.
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