Libia. La rivolta dei migranti nel lager: temono di essere venduti ai trafficanti
Paolo Lambruschi – L’AvvenireAll’improvviso a decine spariscono. Finiscono nelle mani di persone che chiedono un riscatto alla famiglia o li vendono come schiavi. Onu e diplomatici faticano ad avere accesso ai campi di detenzione
La tensione accumulata da mesi è esplosa domenica nel sovraffollato centro di detenzione libica di Sharie (o Tarek) al Matar, nei sobborghi di Tripoli, con scontri con le guardie e tre feriti. Le drammatiche testimonianze di alcuni detenuti raccolte da noi in diretta telefonica, le foto dei feriti, gli audio e il video su Facebook postato da Abrham,
(ora anche sul nostro canale Youtube, linkato a questo articolo) giovane rifugiato eritreo di Bologna, domenica pomeriggio documentano l’esasperazione e la protesta dei prigionieri per le condizioni da tutti gli osservatori considerate inumane di prigionia e contro trasferimenti in altri centri per paura di essere venduti ai trafficanti di esseri umani.
Paura giustificata dalla sparizione di 20 detenuti nei giorni scorsi e di 65 donne con bambini che
i libici giustificano come alleggerimento dell’affollatissima struttura
e sulla quale sta compiendo verifiche l’Alto commissariato Onu per i
rifugiati. Per protesta i prigionieri eritrei, molti in carcere da mesi,
parecchi intercettati e sbarcati dalla guardia costiera libica dopo la
chiusura delle coste di questi mesi, hanno incendiato due materassi
provocando la repressione durissima della polizia libica, la quale ha
ferito tre richiedenti asilo, due dei quali hanno dovuto essere
ricoverati in ospedale. Negli stanzoni roventi, lerci e stipati come pollaisono stati sparati lacrimogeni e le guardie hanno picchiato i detenuti con i fucili per riportare la calma.
«Sono
stati momenti di battaglia tra eritrei e libici – spiega il nostro
contatto Solomon, pseudonimo di un prigioniero fuggito dal regime
dell’Asmara, nel campo da maggio scorso dopo aver trascorso i precedenti
sei mesi nell’altro lager di Gharyan – loro ci ripetono che siamo
troppi e che vogliono venderci. Siamo disperati, molti parlano di
suicidio. Non vediamo vie di uscita. Non possiamo tornare in Eritrea e
l’Europa non ci vuole». La tensione insomma potrebbe portare ad altre
rivolte.
I libici sono accusati di rallentare il processo di registrazione dei detenuti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite chiudendo
le porte per ragioni di sicurezza e spostando senza preavviso le
persone non ancora iscritte nelle liste Onu dei richiedenti asilo per
venderli ai trafficanti.
Ieri
funzionari del Palazzo di Vetro sono riusciti a entrare di mattina
presto a Tarek al Matar e a proseguire nella difficile registrazione di
200 eritrei. L’intento, spiegano fonti Acnur a Tripoli, è duplice:
registrare tutti e offrire ai soggetti più vulnerabili – donne, minori,
ammalati che non possono venire rimpatriati per timore di persecuzioni –
una evacuazione umanitaria nel centro Onu in Niger per alleggerire il
campo e favorire il reinsediamento in Paesi terzi. Ma i posti a
disposizione non bastano per i 1.800 dannati di Tarek Al Matar,
dove il precedente governo aveva avviato progetti per due milioni per
l’emergenza ormai conclusi, come anche nei centri di Tarek Al Sika a
Tagiura. Anche l’Onu ammette che le condizioni del campo sono
peggiorate.
E il sovraffollamento deriva dal fatto che la Guardia costiera libica ha intercettato finora 13 mila persone. In tutto il 2017 ne aveva intercettati oltre 15mila.
Secondo una fonte libica, sempre ieri a una diplomatica dell’Unione europea sarebbe stato impedito l’accesso al centro di detenzione.
La motivazione ufficiale è che non avrebbe presentato richiesta in
tempo. Ma si sospetta che in realtà le autorità tripoline vogliano
nascondere all’Ue i danni dell’incendio e le violenze sui detenuti.
Secondo dati dell’Acnur, al 31 luglio nel Paese erano stati registrati 54.416 richiedenti asilo e rifugiati, 9.838 solo nel 2018.
Ma se le proporzioni sono quelle del campo di Tarek al Matar, solo un
terzo è stato identificato, gli altri galleggiano tra violenze,
condizioni igienico sanitarie inumane e il rischio di sequestri nel
limbo dei centri di detenzione, sia ufficiali che quelli nelle mani
delle milizie. Ieri con un tweet eloquente la sezione italiana dell’Oim,
organizzazione internazionale delle migrazioni, ha puntualizzato che il
suo personale è presente agli sbarchi nei porti libici, ma la gestione
dei campi è in carico alle autorità locali.
Le tensioni a Tarek Al Matar sono esplose principalmente per il terrore di venire venduti ai trafficanti, i quali gestiscono sì le partenze sui barconi, ma solo dopo aver torturato i prigionieri per estorcere riscatti alle famiglie, oppure rivenderli come schiavi.
Dal campo abbiamo scritto sabato su Avvenire che erano sparite 20 persone, uno solo dei quali è riuscito a tornare.
«Chiamiamolo
Fish, mi ha contattato – racconta Abrham, rifugiato eritreo in Italia
che raccoglie le grida di aiuto della sua generazione rinchiusa – perché
è riuscito a tornare a Tarek al Matar. Sono stati trasferiti in uno
stanzone in un luogo sconosciuto senza cibo e senza acqua. Hanno
sentito due libici che dicevano che la notizia della loro sparizione era
girata in rete e quindi la vendita doveva essere interrotta. Lo hanno riportato indietro, adesso aspetta i suoi compagni».
La circolazione delle notizie
via social avrebbe salvato anche gli oltre 200 prigionieri “trasferiti”
due settimane fa dal centro di Tarek Al Siqa senza preavviso in un
luogo sconosciuto e pressoché privo di sorveglianza dove un
trafficante eritreo che collabora con i libici spacciandosi per
mediatore culturale li ha contattati invitandoli a seguirlo. Il gruppo,
che teme di essere già stato venduto e dove ci sono persone non
registrate nelle liste umanitarie, prosegue il braccio di ferro a colpi
di messaggi via social urlando nel silenzio della rete il proprio
diritto ad essere accolto.
Perché il paradosso,
scorrendo le nazionalità censite dall’Onu in Libia, è che molti
detenuti sono rifugiati e richiedenti asilo che dovrebbero trovarsi
legalmente in Paesi sicuri a chiedere asilo oppure essere liberi di
circolare in Libia. Come gli oltre 9mila sudanesi, e i 6mila eritrei e i
3mila somali e gli oltre mille etiopi cui persino Tripoli, che pure non
ha firmato la Convenzione di Ginevra, riconosce lo status. Senza
contare che un terzo ha meno di 18 anni e dovrebbe essere protetto dai
civilissimi Stati europei. Ma nel caos libico si trovano ingabbiati
sotto la sorveglianza di miliziani rivestiti con una divisa da
poliziotto senza uno straccio di formazione e che considerano i
prigioneri migranti illegali e merce da rivendere.
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