Lucia Uva: quando la vittima siede al banco degli accusati
mario de vito - contropiano
Lucia Uva è stata, alla fine, assolta dall’accusa di aver diffamato le forze dell’ordine perché «il fatto non costituisce reato». La sentenza, pronunciata dalla giudice Cristina Marzagalli nel pomeriggio di ieri a Varese, è arrivata una manciata di minuti dopo che la procura aveva chiesto una condanna a un anno e due mesi e una multa di 458 euro per la sorella di Giuseppe, morto nel 2008 dopo essere stato
arrestato e condotto nella locale caserma dei Carabinieri.
L’imputazione riguardava delle dichiarazioni rese da Lucia nell’ottobre del 2011 alla trasmissione televisiva Le Iene e un’intervista inserita nel documentario «Nei secoli fedele» realizzato da Adriano Chiarelli (autore anche del libro ‘Malapolizia’): in entrambi i casi si sosteneva che Giuseppe Uva sia stato riempito di botte e stuprato nella caserma di via Saffi, dove era stato portato nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo essere stato beccato ubriaco mentre spostava delle transenne in mezzo alla strada, nel centro di Varese. Secondo i pm, queste ipotesi sarebbero «frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo». La tesi della difesa invece era tutta incentrata sullo stato emotivo di Lucia Uva durante una fase complicata delle indagini sulla morte di suo fratello. «Quelle dichiarazioni – ha detto l’avvocato Fabio Ambrosetti – erano giustificate da quanto emerso nelle perizie. Lei ha tutto il diritto di pensare che suo fratello sia stato picchiato, e continuerà nella sua battaglia per la verità». Il tribunale ha accolto in pieno questa versione, e Lucia Uva incassa così una piccola vittoria sul piano giudiziario dopo la batosta arrivata venerdì sera con l’assoluzione dei due carabinieri e dei sei poliziotti che erano finiti alla sbarra con l’accusa di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte di Giuseppe Uva.
I legali delle divise, dopo la sentenza di ieri, hanno fatto sapere che non in futuro non cercheranno alcuna rivalsa nei confronti della sorella della vittima, «nonostante le sue pesanti e incaute affermazioni contro poliziotti e carabinieri risultati poi estranei alla morte del suo congiunto, ma comunque amplificate dai mass media e divenute una gogna ingiusta per chi svolge ogni giorno una pubblica funzione». Sette anni di indagini, tre pubblici ministeri diversi e due processi (uno ai medici dell’ospedale di Varese e un altro, più noto, ai poliziotti e ai carabinieri) conclusi con due assoluzioni piene, non sono riusciti a spiegare come sia morto Giuseppe Uva. La battaglia per la verità andrà ancora avanti, anche se è chiaro che, almeno a livello legale, la faccenda sia finita venerdì scorso con l’assoluzione delle divise: l’ipotesi che ad otto anni dai fatti possano emergere nuovi elementi tali da poter riaprire l’inchiesta è più impossibile che improbabile. Le indagini non hanno portato prove, e comunque la si voglia pensare, è chiaro che ad aver perso in questa storia è soprattutto la giustizia italiana, ancora una volta incapace di venire a capo di un caso di malapolizia. Semplicemente ieri il tribunale di Varese ha riconosciuto a una donna – una vittima finita per l’ennesima volta sul banco degli accusati – il diritto a gridare il proprio dolore. Non era affatto scontato.
Lucia Uva è stata, alla fine, assolta dall’accusa di aver diffamato le forze dell’ordine perché «il fatto non costituisce reato». La sentenza, pronunciata dalla giudice Cristina Marzagalli nel pomeriggio di ieri a Varese, è arrivata una manciata di minuti dopo che la procura aveva chiesto una condanna a un anno e due mesi e una multa di 458 euro per la sorella di Giuseppe, morto nel 2008 dopo essere stato
arrestato e condotto nella locale caserma dei Carabinieri.
L’imputazione riguardava delle dichiarazioni rese da Lucia nell’ottobre del 2011 alla trasmissione televisiva Le Iene e un’intervista inserita nel documentario «Nei secoli fedele» realizzato da Adriano Chiarelli (autore anche del libro ‘Malapolizia’): in entrambi i casi si sosteneva che Giuseppe Uva sia stato riempito di botte e stuprato nella caserma di via Saffi, dove era stato portato nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo essere stato beccato ubriaco mentre spostava delle transenne in mezzo alla strada, nel centro di Varese. Secondo i pm, queste ipotesi sarebbero «frutto di una congettura non supportata da alcun elemento di riscontro oggettivo». La tesi della difesa invece era tutta incentrata sullo stato emotivo di Lucia Uva durante una fase complicata delle indagini sulla morte di suo fratello. «Quelle dichiarazioni – ha detto l’avvocato Fabio Ambrosetti – erano giustificate da quanto emerso nelle perizie. Lei ha tutto il diritto di pensare che suo fratello sia stato picchiato, e continuerà nella sua battaglia per la verità». Il tribunale ha accolto in pieno questa versione, e Lucia Uva incassa così una piccola vittoria sul piano giudiziario dopo la batosta arrivata venerdì sera con l’assoluzione dei due carabinieri e dei sei poliziotti che erano finiti alla sbarra con l’accusa di omicidio preterintenzionale in relazione alla morte di Giuseppe Uva.
I legali delle divise, dopo la sentenza di ieri, hanno fatto sapere che non in futuro non cercheranno alcuna rivalsa nei confronti della sorella della vittima, «nonostante le sue pesanti e incaute affermazioni contro poliziotti e carabinieri risultati poi estranei alla morte del suo congiunto, ma comunque amplificate dai mass media e divenute una gogna ingiusta per chi svolge ogni giorno una pubblica funzione». Sette anni di indagini, tre pubblici ministeri diversi e due processi (uno ai medici dell’ospedale di Varese e un altro, più noto, ai poliziotti e ai carabinieri) conclusi con due assoluzioni piene, non sono riusciti a spiegare come sia morto Giuseppe Uva. La battaglia per la verità andrà ancora avanti, anche se è chiaro che, almeno a livello legale, la faccenda sia finita venerdì scorso con l’assoluzione delle divise: l’ipotesi che ad otto anni dai fatti possano emergere nuovi elementi tali da poter riaprire l’inchiesta è più impossibile che improbabile. Le indagini non hanno portato prove, e comunque la si voglia pensare, è chiaro che ad aver perso in questa storia è soprattutto la giustizia italiana, ancora una volta incapace di venire a capo di un caso di malapolizia. Semplicemente ieri il tribunale di Varese ha riconosciuto a una donna – una vittima finita per l’ennesima volta sul banco degli accusati – il diritto a gridare il proprio dolore. Non era affatto scontato.
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