Genova 2001/2011: I morti siete voi
“Nessuno potrà mettere in atto iniziative spontanee, di qualunque tipo, anche perché gli appuntamenti per discutere e organizzare la disobbedienza civile sono stati pubblici. (…) Seguire le indicazioni delle tute bianche. (…) Qualunque iniziativa va concordata con le tute bianche. Non ci deve essere né lancio di alcunché né altro che non sia concordato con gli organizzatori. (…) Durante il corteo nessuna iniziativa personale o di gruppo deve essere messa in atto. Si prega di segnalare alle tute bianche qualunque cosa succeda.”
Disobbedienza civile, istruzioni per l’uso; volantino distribuito in occasione del corteo contro Tebio a Genova, 25/05/2000
Al mondo esistono due tipi di persone: c’è chi può contare solo sulle proprie braccia per sopravvivere e chi invece vive grazie al sudore altrui; c’è chi ha un ruolo che lo eleva e non parla mai nel proprio nome, e chi è un numero di un ingranaggio superiore e un nome non lo ha più; c’è chi lotta quotidianamente per campare e chi, nel gioco delle parti, è nato direttore. C’è sfruttamento e privilegio, manovalanza e prevaricazione. Vita pratica da una parte, spettacolo dall’altra. Non basta dichiarare guerra all’ordine sociale per sottrarsi ad una dinamica connaturata nella civiltà. Per uscire dalla pantomima servono ben altro che parole, è un tumore che si insinua fin dentro le nostre cerchie.
Dieci anni fa una ristretta élite di privilegiati è scesa a Genova con l’intento di decidere delle sorti altrui. Otto scimmioni di corte chiusi nei palazzi, avvoltoi “di movimento” nelle strade. Entrambi con proclami e comparse televisive, entrambi separati dai loro sottoposti per mezzo di guardie e servizi d’ordine. Uno sull’altro cercarono di calare la propria egemonia sull’individualità delle persone.
Le contraddizioni insite nel sistema capitalista in cui viviamo, le condizioni precarie di vita dettate dalla globalizzazione, dal profitto e dall’autoritarismo, già messe in discussione nel luglio 2001 a Genova e incarnate dagli otto scimmioni di corte, in questi anni non hanno fatto altro che peggiorare l’esistenza di una massa di persone più o meno coscienti della propria condizione di schiavitù. L’aziendalizzazione dell’università pubblica, i contratti a progetto e a tempo determinato, i licenziamenti, le concertazioni e i patti sociali per ridefinire a favore dei padroni le condizioni del ricatto lavorativo, le grandi opere e le privatizzazioni: tasselli di un disegno più alto per arricchire i dirigenti a scapito della popolazione; lo spauracchio delle crisi finanziarie e territoriali per creare uno stato d’emergenza permanente, uno stabile assetto di guerra interna che travalichi i confini della finzione democratica, e l’alienazione mediatico-strutturale dei rapporti sociali non sono però ancora riusciti a sopire definitivamente gli animi incontrando invece nuove sacche di resistenza. In questi ultimi anni, da Rosarno a Roma, dall’Insse a Fincantieri, passando per i movimenti studenteschi e azioni dirette contro i colossi dell’economia mondiale, un pericoloso vento di rivalsa, ispirato anche dalle perturbazioni sulle sponde del mediterraneo, ha riscaldato nuovamente la penisola.
Contemporaneamente sembra consumatasi l’ascesa ed il declino dei grandi cartelli di recupero politico delle lotte. Dopo aver beneficiato a lungo, a suon di poltrone nelle giunte comunali e poi nel parlamento, dopo aver goduto di uno status di privilegio nel microcosmo della contestazione, in termini di spazi e controllo sociale, gli avvoltoi sembrano in difficoltà, forse non più in grado di domare una nuova generazione di disadattati astensionisti, una base di manovali che scalpitano dentro le loro celle. Non sarà forse che le scelte dei politicanti di centellinata radicalizzazione non siano dettate, come sempre, dall’opportunità di cavalcare ancora più che da un reale urgenza di vita? Tutto quello che possiamo auspicare è che oggi questa nuova generazione di puledri ribelli, diventati stalloni, ascoltino solo il cuore e la propria testa, muovendosi col vento, ostili ad ogni calcolo, mediazione e imposizione di chi si pone su un piano superiore.
Di scimmioni ed avvoltoi i fatti del luglio genovese dimostrarono principalmente la falsità. Da una parte la farsa annunciata di un summit tanto costoso quanto inconcludente, dall’altra la farsa di un battaglia combattuta solo con scudi plastificati e percorsi concordati. E in mezzo? Il sangue. Un fiume di sangue con su una sponda chi ha represso, dall’altra chi ha mandato al macello. Ma dieci anni fa valicò le alpi per scendere a Genova, brulicò dalle case e dai fondi dei carruggi, anche un’orda di barbari determinati concretamente a porre fine all’impero dei re di denari. Dieci anni fa, oltre qualsiasi calcolo politico, valicò le porte di Genova una deriva di esclusi disposti a tutto per scardinare alle basi il privilegio, riconquistare uno spazio e un tempo degni del nostro essere presenti al mondo.
Dal 2001 gli scimmioni hanno trovato redenzione sacrificando le mele marce indicategli dagli avvoltoi; questi ultimi, a cui il vento fece perdere il controllo della piazza, non ottennero nient’altro che un mero ruolo da vittime. Ma per i cani sciolti il fuoco, le lacrime e quella che può essere considerata, sull’onda di Seattle, come un’effettiva rivolta occidentale dell’epoca postindustriale, il luglio genovese rappresentò la vittoria della vita. Una vittoria che come la vita può essere tanto intensa quanto fugace, ma proprio per questo degna d’essere vissuta. Degna come ogni tensione che si lascia sfogare, degna come le passioni a cui ci si lascia andare, degna come una morte degna, su un campo di battaglia.
Il sangue coagulato di Carlo sull’asfalto, davanti alla chiesa di piazza Alimonda, le falsità e le infamie di una classe intermedia di avvoltoi che, anziché puntare ad una reale sovversione dell’esistente mirano piuttosto ad una avvicendamento sulle poltrone del potere, è la dimostrazione del bis pensiero che hanno imparato e li accomuna ai padroni di questo mondo. Quello non era sangue di un innocente. Un attimo prima ribolliva d’odio e di rivalsa contro i prossimi suoi carnefici, un attimo dopo era già divenuto il simbolo del vittimismo dei soliti opportunisti. Aveva ventitré anni, squarciò il confine fra parodia e realtà con un estintore in mano, era in guerra veramente. Carlo non era lì per caso, Carlo era uno di quelli che gli avvoltoi chiamavano già infiltrati provocatori, Carlo era uno dei “soliti facinorosi”.
Dopo dieci anni di necrologi, gli avvoltoi hanno deciso di rialzare la testa per mettere un punto sulla riscrittura della storia. Ma dieci anni di falsità non bastano per dimenticare: se anche solo una persona porta ancora nello spirito la rabbia di chi ha combattuto, se molti giovani che neanche erano sulle strade di Genova nel luglio 2001 vogliono verità, vogliono vivere per un attimo, nell’oceano delle possibilità umane, quello di cui hanno solo sentito parlare e hanno vissuto solo nella propria immaginazione, beh, allora che venga distrutta per prima cosa ogni spettacolarizzazione (auto)celebrativa; che venga dato fuoco agli animi, in nome di una vita degna.
Morte sono le vittime che non saranno vendicate; morte sono le guardie assassine e i loro mandanti perché di morte riempiono le loro vite; morti sono gli innocenti e tutti gli indifferenti perché non hanno preso parte all’umana lotta per la libertà.
Carlo vive.
“Lo conoscevamo poco, qualche volta lo incontravamo al bar Asinelli. Era un punkabbestia, uno di quelli che non hanno lavoro ma portano tanti orecchini, uno che vuole entrare senza pagare, uno che la gente perbene chiama parassita. Gli faceva schifo il mondo e non aveva niente a che fare con noi dei centri sociali, diceva che eravamo troppo disciplinati.”
Matteo Jade, leader delle tute bianche genovesi, diretta radiofonica, 20/07/2001
Sbirri si nasce, ribelli si diventa
“Ho colpito io Cristiano con il casco. Volevo semplicemente che il corteo non subisse rallentamenti, per portare così la protesta, la protesta di un precario, di un giovane che non ha un contratto stabile, direttamente davanti al Senato”
Manuel De Santis, studente di Scienze Politiche alla Sapienza di Roma e del servizio d’ordine della rete Uniriot-Esc, 20/12/2010
Il 14 dicembre 2010 a Roma una breccia si è aperta negli spiriti ribelli di una nuova generazione di disadattati. Gli spiragli di libertà ricuciti da repressione e diffamazione nel tempo del g8 genovese, le possibilità che potenzialmente covavano in un nuovo immaginario di resistenza metropolitana, sono state sfondate da una nuova ondata di rabbia che ha finito col travolgere ancora una volta la recita parrocchiale dei politicanti di strada e la dialettica asfittica di scribacchini e diplomatici da palazzo. Una nuova deriva collettiva, un ulteriore esplosione di vitalità da parte di una gioventù senza futuro, maturata con la crescita dei movimenti studenteschi presto coesi con un malessere diffuso e crescente nella società.
Alla faccia di chi impiegava il tempo a disquisire sulla limitatezza dei conflitti in atto, come dieci anni prima sull’inutilità di rincorrere gli appuntamenti prefissati dal potere, alla faccia di chi ancora una volta pensava di poter controllare dentro gli stretti ranghi della pagliacciata mediatico-contestativa l’insostenibilità d’un presente umiliante, ancora una volta l’immaginazione e l’esuberanza delle nuove leve ha stupito i più. Certo la scommessa, come la posta in gioco, era grossa. Riuscire a generalizzare un’annunciata opposizione specifica al governo, e porre inequivocabilmente il punto della situazione, dimostrare che o si cambia tutto o nulla cambia, non era immediato. Ma per chi c’era a Roma, evidentemente, è stato un gioco da ragazzi.
Un gioco da ragazzi come spaccare cose a caso, uno scherzo piromane, il lancio d’oggetti ed il dileggio dell’autorità, ritrovando in ciò che è innato – in ciò che ingenuamente esalta le vite annoiate, fin da bambini, nel grigio della metropoli – una pratica di emancipazione, anche solo temporanea, una pratica d’attacco alla polizia e all’urbanistica, come simboli imminenti di tutti i veti e le costrizioni preordinate. L’assalto del presente, la sovversione della normalità, come a Londra il 6 novembre dello stesso anno gli studenti contro la sede del partito conservatore e la riforma dell’istruzione superiore. La breccia di Roma dell’anno 2010, la spinta in tutt’Italia a non chiedere più permessi e a non porger l’altra guancia quando di fronte si ha un manganello, rappresentano la vittoria della vita indomita contro i calcoli, le imposizioni e gli opportunismi della politica di piazza e di palazzo.
Sull’altra faccia della medaglia invece, ancora una volta un ragazzo rimasto sull’asfalto col volto insanguinato. Questa volta un quindicenne liceale, anche questa volta frenato di fronte ad una camionetta della polizia, nella spontaneità d’un animo liberato in un moto d’euforia collettiva. Ma questa volta, a spaccare la testa al manifestante non sono state le forze dell’ordine in divisa, è stato il servizio d’ordine dell’ennesimo tentativo di riciclo, questa volta in chiave universitaria, degli avvoltoi di movimento. Sono stati i gran promotori del “conflitto mimato” che evidentemente hanno percepito come minaccia, fin dalle assemblee alla Sapienza i giorni precedenti, quello che per la maggior parte dei presenti in strada sarebbe diventato il successo della manifestazione: una massa di giovanissimi arrabbiati che senza concordati trasformano in retroguardia le leadership delle vecchie egemonie; le mummie rimaste sole coi propri scudi a stabilire per tutti, senza più un gregge, obbiettivi e modalità della giornata.
Ma come insegna una buona norma dell’opportunismo politico, quando non riesci a sconfiggere l’avversario allora ti ci devi alleare. Così per tutti i benpensanti, giovani e vecchie cariatidi di movimento, giornalisti e opinionisti sinistronzi, ora finalmente protagonista non è più la mancanza di responsabilità di un gruppo ristretto di teppisti ma la legittima espressione della frustrazione di giovani privati del proprio futuro. Improvvisamente la colpa dei disordini è della militarizzazione e della zona rossa, per una volta le colpe sono tutte di governo e celerini. Forse questa volta neanche pacifisti delatori, come a Genova nel 2001, invocherebbero le cariche sui violenti anziché contro di loro.
Insomma, sbirri si nasce, ribelli si diventa; soprattutto nel momento in cui la sovversione delle dinamiche sociali diventa comprensibile, nel momento in cui un crepa si apre nella quotidianità, ed il passaggio, da cui sbucare incontrollati, inizia ad allargarsi. Da questo varco, il 14 dicembre a Roma, ragazze e ragazzi hanno fatto irruzione nelle strade senza sentirsi più soli, assaltando il presente per non aver più nulla da mendicare domani. Il passaggio è aperto; non si riuscirà a richiudere facilmente. Dopo dieci anni da quella che fu la sommossa e la mattanza del luglio genovese, la paura sta cambiando nuovamente di campo, e i poliziotti non dormono forse più sonni tanto tranquilli. Denunce, associazioni a delinquere, perquisizioni e arresti ne sono la riprova. Riempiamo allora gli zaini di audacia e rabbia, scegliamo bene i nostri complici e andiamo. Non un passo indietro, questo è solo l’inizio verso la riconquista di noi stessi.
Noi la nostra barricata l’abbiamo già scelta da tempo.
Noi non stiamo con gli sbirri.
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