Da infoaut
A poche settimane dalla scorsa, un’alluvione ancora più devastante ha colpito l’Emilia Romagna provocando 9 morti ed almeno 13mila sfollati. Le immagini sono impressionanti: intere città sommerse e devastate, territori feriti mortalmente.
Il fenomeno a cui abbiamo assistito è un cocktail esplosivo di diversi fattori, come evidenziavamo qui: i cambiamenti climatici con la pioggia di sei mesi scaricata in poche ore e il suolo incapace di accoglierla per via della grande siccità di questo inverno, la totale incuria nella gestione del dissesto idrogeologico da parte della politica tutta (apprendiamo da questo articolo del Fatto che dei 26 miliardi necessari per mettere in sicurezza il territorio ne sono stati spesi solo 6) ed una trasformazione del paesaggio finalizzata completamente al mercato, all’agroindustria, alla cementificazione.
Ora questi fenomeni diventano sempre più intensi e sempre più generali. Non vanno guardati come fissi nel tempo, ma come un processo di cambiamento del clima complesso e profondo che non ha di certo trovato ancora il proprio nuovo punto di equilibrio. Quanto stiamo vedendo è l’antipasto di decenni, probabilmente, di cambiamenti repentini, violenti e distruttivi.
Nel passato recente questi eventi erano molto localizzati ed insistevano in aree che il capitale
considerava già di per sè zone di sacrificio: il sud del mondo, il sud Italia, le province funzionalizzate alla filiera di valorizzazione delle città, ma oggi le zone di sacrificio diventano sempre più estese. Si è parlato molto e a ragione di “capitalismo della catastrofe”, cioè, semplificando, di quel sistema di valorizzazione delle crisi, di espropriazione che dopo aver disinvestito nella cura dei territori secondo il dettame neoliberista, utilizza la ricostruzione come un momento per fare affari e privatizzare ulteriormente servizi, spazi e funzioni. Ma di fronte all’estensione ed all’intensità di questi fenomeni oggi il meccanismo va in crisi: ad essere colpiti sono territori sempre più centrali della produzione e riproduzione capitalista del nostro paese. Pensiamo all’agroindustria, ma anche al settore del turismo, alla Bologna dell’economia studentesca, alla logistica. La “ricostruzione”, lo abbiamo visto nel passato, è un buon affare per speculatori e politici, ma raramente restituisce ai territori la pienezza delle proprie reti produttive, dunque la somma è sempre negativa se ad essere colpiti sono territori particolarmente densi di attività.La contraddizione che ci si presenta davanti è profonda e non ha soluzioni semplici. La strategia della controparte sta lentamente cambiando: mentre fino a qualche tempo fa il negazionismo climatico, più o meno esplicito, era al centro delle retoriche (degli esponenti di questo governo in primis), oggi di fronte alle catastrofiche evidenze vediamo che si inizia a parlare sempre di più di adattamento. Sentiamo Musumeci dichiarare che il clima si sta “tropicalizzando”, il nesso implicito di questi discorsi è che bisogna prendere atto della nuova realtà ed adattarsi. Adattamento per chi però e come?
Anche questa dell’adattamento in questi termini sembra una retorica vuota che ha come scopo finale quello di far passare il messaggio che ci tocca accettare la nuova condizione per com’è, mentre sostanzialmente nulla verrà fatto per cambiare.
Attenzione: la necessità di costruire una nuova consapevolezza dei cambiamenti climatici, dei loro impatti territoriali, l’importanza di costruire reti di pronta risposta è una necessità che con urgenza dovremmo porci, ma lo Stato utilizzerà questa retorica sempre con maggiore forza per deresponsabilizzarsi e scaricare verso il basso i costi umani e materiali delle catastrofi.
L’unico vero adattamento alla crisi climatica è quello di una trasformazione profonda e radicale del sistema di sviluppo in cui viviamo, una rottura della funzionalizzazione dei territori al mercato e la capacità di immaginare nuovi rapporti tra umano e natura. Solo una prospettiva totale di cambiamento può permetterci da un lato di affrontare questi processi mentre sono in corso... dall’altro di provare a mitigarli consapevoli che la crisi climatica è già qui, ma che l’intensità di ciò che ci attende dipenderà dalle strade che scegliamo di intraprendere
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