giovedì 10 giugno 2021

pc 10 giugno - Sblocco dei licenziamenti e liberalizzazione del subappalto: un attacco frontale alla dignità e alla sicurezza dei lavoratori" - un contributo

 Da www.resistenze.org - proletari resistenti - lavoro - 08-06-21 - n. 792

Domenico Cortese | lordinenuovo.it
04/06/2021

Nel decreto legge Sostegni-bis è stato stabilito che il blocco dei licenziamenti non andrà oltre il 30 giugno per le grandi aziende e fine ottobre per le piccole e medie imprese. L'unica "concessione" che il governo Draghi sembra fare alla classe lavoratrice coinciderebbe con l'istituzione di una Cassa integrazione agevolata per le aziende accompagnata dal divieto, per queste, di licenziare. In altre parole, vince Confindustria su tutta la linea, con il solo ammortizzatore sopravvissuto per i lavoratori concesso a patto di espungere totalmente ogni voce di costo per il padronato.

Infatti, dal 1° luglio 2021 i datori di lavoro che non potranno più utilizzare la cassa integrazione ordinaria Covid-19 prevista dal decreto Sostegni (i.e. massimo 13 settimane tra il 1° aprile 2021 ed il 30 giugno 2021) potranno accedere alla cassa integrazione ordinaria o straordinaria prevista dal D.Lgs. n. 148/2015 senza tuttavia pagare contributi addizionali fino al 31 dicembre 2021. Durante l'utilizzo dei predetti ammortizzatori, le imprese resteranno allora vincolate al divieto di licenziamenti.

Il quadro che si profila lungo l'estate del 2021 diviene perciò estremamente pesante per i lavoratori, non tanto e non solo per le conseguenze occupazionali che lo sblocco apporterà (si va dai 150 mila posti di lavoro che si perderanno secondo la Fondazione Adapt ai quasi 600 mila stimati da Bankitalia e ministero del lavoro, che si aggiungerebbero ai 900 mila occupati in meno da inizio pandemia) quanto per il crollo del potere politico e negoziale che risulta già evidente da un intervento dei sindacati confederali fiacco e convenzionale.

Di fronte ad un attacco mediatico, ideologico e politico delle associazioni padronali che si intensifica gradualmente dall'inizio dell'era Covid, con il presidente di Confindustria Bonomi che aveva già avvertito che l'Italia non doveva ridursi a un "Sussidistan" (eccetto che per le imprese) e le associazioni territoriali di Confindustria che avevano definito, sdegnate, un "colpo basso" l'eventuale proroga del blocco ipotizzata dal ministro del lavoro Orlando, la risposta di Cgil Cisl e Uil non va oltre un vago ammonimento ("la partita non è chiusa"), un artificioso richiamo alla concertazione e dei presidi di protesta di routine, brevi e indolori nei loro effetti sulla produzione.

La messa all'angolo delle istanze dei lavoratori deve comunque essere iscritta in una cornice per cui il blocco dei licenziamenti, come testimoniano i numeri prima riportati, ha preservato solo in parte il potere contrattuale del proletariato, soprattutto in regioni - come, ad esempio, la Calabria - in cui è più rilevante, in proporzione, l'occupazione nel settore pubblico oppure in mansioni inquadrate con contratti a tempo determinato o stagionale. La questione dello sblocco dei licenziamenti si inquadra, infatti, non tanto nella necessità delle imprese di eliminare posti di lavoro in sovrappiù con i relativi costi: il blocco, oltre assicurare alle imprese la Cig pagata dallo Stato (e usata persino in maniera illegittima nel 28% dei casi nei primi sei mesi di applicazione) non ha sospeso tipi di licenziamento come quelli disciplinari, quelli relativi ai dirigenti, nonché le risoluzioni del contratto di apprendistato e le procedure di licenziamento collettivo definite prima del 23 febbraio 2020, e da agosto 2020 alcuni vincoli sono stati rimossi per le imprese che cessano l'attività.

Lo sblocco si inquadra nella necessità di ristrutturazione e di incremento del potere negoziale dell'imprenditoria italiana e non solo, grande o piccola che sia, che fuoriesce dalla crisi Covid consolidando la tendenza capitalistica di scaricare i costi sulla collettività e sui lavoratori, i quali verranno licenziati in caso di possesso di contratti con maggiori tutele e assunti attraverso contratti peggiorativi. Tutte le istanze politiche provenienti dagli ambienti borghesi non hanno fatto altro che ricalcare le richieste classiche della classe capitalista in risposta alle crisi cicliche del sistema, ovvero esenzioni fiscali pagate dalla collettività, liberalizzazioni e maggiore flessibilità dei contratti di lavoro. Ottenendo quanto richiesto.

I numeri danno infatti la dimostrazione plastica che, al di là dei pianti di chi dice di essere vessato dalle chiusure Covid, proprio le imprese sono state le principali beneficiarie delle misure varate nel 2020, coincidenti con 108 miliardi di debito aggiuntivo. Gli interventi a favore dei lavoratori, nel primo anno di pandemia, si sono fermati a 29,7 miliardi di cui oltre 18 per la Cassa Integrazione Guadagni, che a sua volta è un risparmio per il padrone dell'attività ed è pagata dagli stessi lavoratori con le imposte.

Agli enti territoriali sono andati soltanto 10,8 miliardi, alla sanità 8,2 miliardi e alla scuola 2 miliardi. Altri 6 sono andati al capitolo famiglia e politiche sociali, in cui ricade anche il reddito di emergenza. E le aziende sono state il settore più attenzionato anche nella prima manovra 2021 (11,8 miliardi su 24) e nella spartizione del primo scostamento di bilancio del 2021: 16,6 miliardi su 32.

Questi sono stati gli effetti del decreto-legge n. 9 del 2020, le cui misure sono poi confluite nel successivo più ampio intervento legislativo contenuto nel decreto-legge n.18 del 2020 Cura Italia, del decreto-legge n. 23 del 2020 Liquidità, del decreto-legge n. 34 del 2020 Rilancio, del decreto-legge n. 104 del 2020 Agosto, del decreto-legge n. 137 del 2020 Ristori (AC 2828), del decreto-legge n. 149 del 2020 Ristori-bis, del decreto-legge n.154 del 2020 Ristori-ter e del decreto-legge n. 157 del 2020 Ristori-quater. È interessante notare che queste disposizioni sono state messe in campo dal governo Conte e che il governo Draghi si muova sostanzialmente nel medesimo solco di tutela degli interessi e della ripresa per la borghesia, una continuità che, pur non legittimando letture eccessivamente semplificatorie, può aiutare a inquadrare il governo Draghi nella cornice di un'accelerazione, e non di una svolta, nella gestione della crisi in favore dei capitalisti.

In sintesi, solo 8 miliardi sono andati alla sanità durante una pandemia globale e 11 miliardi reali per sostenere i lavoratori a fronte di una somma 6 volte tanto per la parte padronale, senza contare le garanzie statali di 400 miliardi per le banche e le grandi corporation e l'erogazione di moneta da parte della BCE volta ad acquistare titoli poco liquidi delle istituzioni finanziare, per un ammontare di ben due mila miliardi di euro in un anno - cifre che mai hanno raggiunto le famiglie, i disoccupati e i lavoratori e che servono solo a mantenere in vita il sistema speculativo autoreferenziale delle borse, che si gonfia di denaro a buon mercato per acquistare beni creati col sudore di chi lavora.

Il decreto Sostegni bis, invece, va a stanziare 15 miliardi di contributi a fondo perduto, 9 miliardi per la liquidità e l'accesso al credito e altri 5,7 miliardi per ulteriori misure di "aiuto all'economia" o di carattere settoriale.

Sui 40 miliardi complessivi, un totale di circa 30 miliardi va dunque alle imprese (il 75%).

Tutto questo occorre per capire chi davvero stia pagando la crisi. Vi è una classe sociale, la borghesia, che è stata sostenuta e che, tornati alla "normalità", ricomincerà a far fruttare il proprio capitale come prima. Qualche piccolo borghese che, forse, si proletarizzerà a favore delle grandi catene come in ogni crisi (ma che non vuole, nel suo individualismo proprietario, rinunciare tuttavia allo stesso libero mercato finché questo lo fagocita) e, infine, una grande massa di lavoratori che, a causa dell'aumento esponenziale dei contratti precari e della disoccupazione avrà sempre meno potere negoziale. Lo sblocco dei licenziamenti, la ridicola campagna stampa del padronato che mira ad attribuire a misure di sostegno al reddito le cause di una presunta difficoltà a trovare personale disponibile a lavorare con trattamenti contrattuali pessimi, le condizioni della Commissione Europea per ottenere i finanziamenti minimali del Recovery Fund servono a consolidare la nota prassi capitalista per fare pagare la crisi alle classi popolari.

Uno dei temi "caldi" di questi giorni, la liberalizzazione del subappalto, si situa proprio nel contesto dell'attacco della borghesia per minimizzare la capacità di reazione della classe lavoratrice.
Le ultime intese con i sindacati confederali hanno portato all'ipotesi di una nuova soglia innalzata al 50% fino al 31 ottobre che poi sparirà del tutto, controlli antimafia più stringenti e soprattutto una clausola sulla parità delle condizioni di lavoro tra i dipendenti della stazione appaltante e quelli delle aziende in subappalto. Come ora spiegheremo, al di là di quello che c'è scritto sulla carta, il problema risiede nella reale applicabilità di queste garanzie.

Occorre ricordare come la liberalizzazione dei subappalti coincida con una delle misure contenute dal memorandum europeo in funzione del Recovery Fund e che la Corte di giustizia europea aveva già imposto un aumento dal 30% al 40% del limite dei lavori subappaltabili considerando comunque ogni limitazione "arbitraria". Tale nuovo limite è attualmente previsto dall'art. 1 co. 18 della Legge di conversione del Decreto "Sbloccacantieri" n. 55/20197, mentre nel Decreto cd. "Milleproroghe" (D.L. 31 dicembre 2020, n. 183) esso si è prolungato al 30 giugno 2021, a ulteriore riprova del fatto che il governo Conte e il governo Draghi presentano una netta continuità in termini di interessi difesi, quelli dei capitalisti.

È necessario sottolineare la natura della liberalizzazione del subappalto, per la quale i sindacati confederali sembrano disposti ad azioni più dirompenti sebbene, ad oggi, essi si limitino a espressioni verbali poco più minacciose.

La "frammentazione" degli appaltatori non serve per produrre efficienza, piuttosto a deresponsabilizzare la stazione appaltante e la principale ditta appaltatrice la quale delega ad "intermediari" (che alcune volte spariscono poco dopo) la ricerca di personale, con l'implicito meccanismo da caporalato e precarietà che si viene a formare.

La struttura di appaltatore principale e subappalti viene anzi a creare un decentramento nelle peculiari modalità di utilizzo degli strumenti e nei controlli, il che favorisce l'aumento del rischio di infortuni sul lavoro. D'altra parte, l'aumento della precarietà contrattuale (dovuto alla maggiore estemporaneità nell'utilizzo delle ditte in subappalto) e della separazione dei nuclei di lavoratori non fanno che diminuire l'acquisizione di competenze pratiche nell'affrontare le situazioni pericolose, oltre che la solidarietà di classe. In altre parole, si baratta un'ulteriore possibilità di fare profitti con minori controlli preventivi, maggiore debolezza contrattuale da parte dei dipendenti e incertezza nella perseguibilità della ditta in caso di danni al lavoratore.

Tutto ciò è dovuto anche al fatto che, fino al 31 dicembre 2021, è sospeso l'obbligo di indicazione della terna dei subappaltatori (comma 6 dell'articolo 105 e terzo periodo del comma 2 dell'articolo 174, del D.lgs. 50/2016) e, fino al 31 dicembre 2021, sono sospese le verifiche in sede di gara, di cui all'articolo 80 del medesimo Codice, riferite al subappaltatore.

Tale mortificazione della trasparenza e della capacità di valutazione dell'ente pubblico (favorite, ricordiamo, anch'esse dalle pressioni politiche della Commissione Europea che aveva bollato come illegittimi i limiti nella disciplina italiana che imponevano l'indicazione della terna e, come già detto, un tetto del 30% della quota subappaltabile) vanno nella direzione, che già connota i subappalti, di far tendere al ribasso la qualità dei lavori pubblici.

Da questo punto di vista, appare falsa e pretestuosa la retorica che vorrebbe contrapporre la stabilità dei lavoratori all'efficienza e alla "produttività" dei servizi e della costruzione di infrastrutture pubbliche, le quali risultano invece spinte al massimo ribasso nella competizione economica tra concorrenti proprio attraverso la frammentazione dell'appaltatore.

Come scrive anche Giorgio Sclip, docente di sicurezza del lavoro all'Università degli studi di Trieste, «è evidente che questa scelta organizzativa porti dei rischi aggiuntivi: le attività svolte dal personale esterno si sovrappongono o interfacciano con quelle eseguite dal personale interno dell'azienda o con quelle eseguite da altro personale esterno afferente ad altra azienda presente, a qualsiasi titolo, nelle stesse aree di lavoro, andando a creare, quindi, i cosiddetti rischi interferenziali». E la causa principale di tale criticità, continua Sclip - «è la perdita del fondamentale requisito dell'unitarietà, in assenza della quale è complicato - se non in presenza di un'adeguata, puntuale, precisa e costante gestione della sicurezza - garantire a tutti un adeguato livello di tutela».

Se esiste una maggiore "efficienza" nel meccanismo del subappalto, dunque, esso non può certamente coincidere con quella produttiva o della tutela della persona umana, ma più probabilmente con quella dell'interesse di chi deve fare profitto minimizzando la capacità di coesione e coordinamento dei dipendenti.

Inoltre, è importante ricordare che per l'Ispettorato del Lavoro, nei settori più importanti, ormai più di un quinto delle irregolarità sia legata a forme di intermediazione, il che conferma ancora di più la natura e le conseguenze di queste prassi che sono casse di profitti e mezzi di deresponsabilizzazione selvaggia con tutte le conseguenze sulle condizioni e sulle retribuzioni dei lavoratori.

Infatti, in termini percentuali, la quota dei lavoratori interessati da violazioni consistenti in esternalizzazioni e interposizione di manodopera rispetto al complesso dei lavoratori irregolari nel corso del 2020 è risultata, per macrosettori produttivi, pari al 23% per il terziario, al 20% per l'industria, al 13% per l'edilizia e al 4% per l'agricoltura.

Subappalto significa, in conclusione, che chi prende un lavoro non ha l'obbligo di essere in grado di realizzarlo. Non deve avere, per esempio, i dipendenti necessari. Può affidarlo ad altri, dopo aver ottenuto l'appalto e questi altri a loro volta lo possono affidare ad altri ancora. Naturalmente ad ogni passaggio ci deve essere un profitto e sarà sempre la classe lavoratrice che pagherà quel profitto, vista la tendenza (per ora non ancora "formalizzata" per legge) degli affidamenti ad essere fatti al ribasso.

Lo sblocco dei licenziamenti e la liberalizzazione del subappalto non possono che essere visti come un vero e proprio attacco sociale alla dignità ed alla sicurezza dei lavoratori. A maggior ragione se si pensa che, nei primi tre mesi del 2021, le morti per incidente sul luogo di lavoro sono aumentate dell'11,4% rispetto all'anno precedente e le morti sul lavoro, che comprendono casi eclatanti come quello di Luana, l'operaia tessile di Prato, fagocitata dall'orditoio in nome del risparmio e dell'efficienza dei tempi per il padrone, viaggiano in questo periodo con una media di tre morti al giorno.

Non è un caso, in conclusione, che questo attacco si sviluppi in tutta la sua forza alla vigilia della stagione estiva, una stagione di grandi riaperture, che porta alla ribalta le istanze della parte di padronato - i ristoratori, gli albergatori, i pubblici esercenti - che, secondo i controlli dell'Ispettorato del lavoro, si distinguono per il tasso maggiore di irregolarità ai controlli in materia di vigilanza lavoro, previdenziale e assicurativa.

L'enorme potere negoziale che permette a questa e altre categorie padronali (le stesse che la scorsa estate hanno favorito lo scoppio della seconda ondata nelle zone turistiche e industriali trascurando ogni precauzione anti-Covid) di usufruire di manodopera non contrattualizzata non potrebbe essere favorito di più che da un nuovo strato di lavoratori senza altra scelta se non quella della precarietà più assoluta.

L'esecutivo Draghi conferma, allora, tutte le attese e le aspettative con cui era stato accolto da settori della classe proletaria: il suo essere un metodo di governo utile per rendere più efficace, a livello mediatico e politico, la collaborazione fra le diverse anime della borghesia italiana - rappresentate dai diversi partiti oggi in Parlamento - allo scopo non tanto celato di continuare nell'operazione di depotenziamento dei diritti dei lavoratori, della trasparenza nella gestione delle imprese e di scarico dei costi della crisi sulla classe lavoratrice, in nome di una ripresa che sarà per pochi e trainata da sussidi senza condizioni alle imprese e debito classista formalmente concesso da quel coordinamento sovranazionale che è l'UE a patto di liberalizzazioni e riforme anti-operaie.

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