Non molto diversa è la situazione da noi, dove per esempio le attiviste di Campagne in lotta ricevono fogli di via dalla Calabria alla Puglia.
di Tommaso Meo
In Serbia chi aiuta i migranti non è il benvenuto. Lo hanno constatato a proprie spese tre attivisti dell’Ong No Name Kitchen che opera dal 2017 lungo la rotta balcanica. Il 1 febbraio i tre, tra cui l’italiano Adalberto Parenti, dopo essere stati aggrediti da un gruppo di nazionalisti cetnici, sono stati trattenuti dalla polizia che li ha accusati di disturbo della quiete pubblica, oltre che di non avere i permessi in regola. Parenti, 37enne bolognese, in Serbia da ottobre, e la sua collega Leonie Sofia Neumann sono stati condannati a una multa di quasi 200 euro, mentre un’altra attivista tedesca, Marina Bottke, è stata assolta dalle accuse. A tutti è stato però consegnato un foglio di via dalla polizia serba: entro oggi dovranno lasciare il paese.
I membri dell’Ong operavano a Šid, nel sud-ovest della Serbia, vicino al confine con la Croazia. Come racconta Parenti, i volontari stavano rifornendo i migranti che si trovano fuori dai campi
d’accoglienza ufficiali e che dormono dentro ad alcune tende nei dintorni della fabbrica abbandonata di Grafosrem, quando è avvenuto l’incidente. «Il sabato precedente (25 gennaio, ndr) erano già arrivate queste persone vestite militarmente, ufficialmente per fare pulizia nella boscaglia. Avevano dato fuoco alle pile di vestiti che trovavano – spiega – e quando abbiamo cercato di salvare il possibile, alcune attiviste sono state spinte».
d’accoglienza ufficiali e che dormono dentro ad alcune tende nei dintorni della fabbrica abbandonata di Grafosrem, quando è avvenuto l’incidente. «Il sabato precedente (25 gennaio, ndr) erano già arrivate queste persone vestite militarmente, ufficialmente per fare pulizia nella boscaglia. Avevano dato fuoco alle pile di vestiti che trovavano – spiega – e quando abbiamo cercato di salvare il possibile, alcune attiviste sono state spinte».
La polizia, contattata il giorno seguente, aveva rassicurato i volontari invitandoli a informarli se si fossero presentati situazioni analoghe. Lo scorso sabato mattina, lo stesso gruppo, che ha issato sul tetto della fabbrica una bandiera serba e quella cetnica, è tornato. «Erano venuti per continuare la “pulizia”. Un termine anche storicamente adatto», commenta l’attivista. Uno degli uomini ha dato fuoco a un telo di nylon e a una tenda dentro la quale c’era Bottke, una delle attiviste, riuscita miracolosamente a scappare. I tre, racconta Parenti, si sono allontanati, ma Neumann, l’altra ragazza tedesca che stava riprendendo la scena, è stata colpita con un petardo e il suo telefono distrutto con un manganello.
Una volta arrivata, la polizia ha però portato gli attivisti in caserma, da cui sarebbero usciti solo all’una di notte con l’ordine di lasciare il paese. Durante un veloce processo i tre sono stati messi a confronto con altrettanti componenti del gruppo di nazionalisti e le dichiarazioni di questi credute. «Il foglio di via è una decisione chiaramente politica, e oltretutto si basa su falsità», sostiene Parenti, che continua: «Ora stiamo combattendo per annullarlo. L’avvocato dice che ci vorrà almeno una settimana per una decisione». Nel frattempo cosa farà? «Starò qui a Šid, aiutando i ragazzi finché mi è legalmente possibile. Poi uscirò dal paese, ma resterò nelle vicinanze, con la speranza di tornarci a breve».
Parenti non è però stupito del comportamento della polizia serba e racconta che loro non sono i primi attivisti di No Name Kitchen ad avere avuto problemi. «Chiunque aiuti i migranti qui prima o poi è ostacolato, per usare un eufemismo», dice. Secondo l’attivista, come la Croazia, pagata dall’Ue, attua respingimenti illegali di persone verso la Bosnia, anche le autorità serbe devono mostrarsi intransigenti nei confronti dei migranti se vogliono sperare di entrare nell’Unione.
Intanto Parenti racconta di aver ricevuto dall’Italia molta solidarietà. «Ho anche avuto rassicurazioni dalle istituzioni italiane e da qualche politico», racconta l’attivista. «Speriamo qualcosa si muova. Noi seguimos luchando (continuiamo a lottare)».
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