di Claudio Novaro per volerelaluna.it
In un libro pubblicato qualche anno fa, Antoine Garapon osservava come «il primo gesto della giustizia […] non è né intellettuale né morale, bensì architettonico e simbolico: delimitare uno spazio tangibile che tenga a distanza l’indignazione morale e le passioni pubbliche, riservare un tempo a tal fine, fissare le regole del gioco, convenire un obiettivo e istituire gli attori. I cosiddetti processi a mezzo stampa hanno stravolto tale paradigma e la separatezza che ne derivava. La letteratura sul punto è ormai talmente ampia che non è possibile compendiarla in poche osservazioni.
Non
sono però solo i media a guardare con crescente insaziabilità a quanto
avviene nell’ambito delle indagini preliminari, ma sono spesso gli
stessi protagonisti dell’azione giudiziaria, la Polizia e le
Procure, ad attivare tale attenzione con gli strumenti più classici, quelli visibili delle conferenza stampa e dei comunicati, quelli più nascosti e inconfessati dei contatti sotterranei: «un reticolo carsico di reciproche compiacenze tra uffici giudiziari, organi di polizia giudiziaria e testate giornalistiche – li ha definiti un noto processual-penalista come Glauco Giostra – realizzate per giustificare o magnificare il proprio operato e per accreditare la propria linea di azione». L’osservazione è corretta ma riduttiva. Per gli inquirenti non si tratta solo di trovare una sponda per le proprie iniziative giudiziarie, per costruire consenso attorno alle scelte investigative e cautelari. Talvolta, specie nei procedimenti legati alla conflittualità di piazza, il rapporto con i media costituisce un tassello, di indubbia rilevanza, nell’ambito di un quadro allargato di costruzione sociale e giudiziaria della devianza, finalizzato a rimodulare, da un lato, la stessa percezione del conflitto, dall’altro, i profili di responsabilità a carico degli accusati.
Procure, ad attivare tale attenzione con gli strumenti più classici, quelli visibili delle conferenza stampa e dei comunicati, quelli più nascosti e inconfessati dei contatti sotterranei: «un reticolo carsico di reciproche compiacenze tra uffici giudiziari, organi di polizia giudiziaria e testate giornalistiche – li ha definiti un noto processual-penalista come Glauco Giostra – realizzate per giustificare o magnificare il proprio operato e per accreditare la propria linea di azione». L’osservazione è corretta ma riduttiva. Per gli inquirenti non si tratta solo di trovare una sponda per le proprie iniziative giudiziarie, per costruire consenso attorno alle scelte investigative e cautelari. Talvolta, specie nei procedimenti legati alla conflittualità di piazza, il rapporto con i media costituisce un tassello, di indubbia rilevanza, nell’ambito di un quadro allargato di costruzione sociale e giudiziaria della devianza, finalizzato a rimodulare, da un lato, la stessa percezione del conflitto, dall’altro, i profili di responsabilità a carico degli accusati.
L’uso
calibrato della comunicazione giornalistica è uno strumento essenziale,
rivolto fuori e dentro il processo, per trasformare la complessità dei
fenomeni collettivi in questione criminale e, parallelamente, per
rafforzare l’immagine di pericolosità degli imputati. Accreditare
l’immagine un nemico a cui imputare un salto di qualità nella violenza
esercitata contribuisce non solo ai fenomeni di rafforzamento delle
paure collettive e di aggiornamento delle priorità della politica
nazionale (come la richiesta di chiudere i centri sociali), ma, al tempo
stesso, drammatizza e facilita in chiave repressiva le scelte
processuali, specie quelle legate all’applicazione delle misure
cautelari.
Esemplificativo, da
questo punto di vista, è il processo conclusosi qualche mese fa (ma la
sentenza è stata depositata solo a fine giugno) per gli scontri avvenuti
a Torino in occasione del comizio elettorale di Casa Pound nel febbraio
2018. Rapidamente i fatti: un corteo di diverse centinaia di persone
parte dalla stazione di Porta Nuova e, dopo un breve percorso, si trova
di fonte la Polizia schierata. Quando il corteo arriva a lambire il
cordone dei poliziotti, partono due brevi cariche di alleggerimento,
anche con l’uso di un idrante. I manifestanti tornano sui propri passi e
tentano di aggirare le forze dell’ordine, imboccando una via laterale,
dove, dopo un breve stazionamento, vengono lanciati all’indirizzo dei
poliziotti alcune petardi (bombe carta le definisce la Questura) che
feriscono alle gambe alcuni tra gli operanti. Nuova carica, arretramento
del corteo che raggiunge una via più ampia e lancio di alcune bottiglie
e di petardi, a cui la Polizia risponde con un fitto lancio di
lacrimogeni. Niente di particolare, come si vede: un conflitto di piazza
a bassa intensità, come quello che si è verificato in tante occasioni a
Torino e altrove. La particolarità sta nella divulgazione di tale
vicenda sui giornali e sui social network.
Dopo che, nell’immediatezza dei fatti, sono uscite sui siti on line
dei principali quotidiani ricostruzioni abbastanza fedeli
dell’accaduto, dal giorno successivo, su evidente e esplicito
suggerimento della questura, il quadro cambia. I principali quotidiani
raccontano del lancio da parte dei manifestanti di bombe carta riempite
di chiodi e di pezzi di metallo, di schegge di metallo «proiettate tutto
intorno dalla deflagrazione» che «si sono conficcate nelle protezioni
indossate dagli agenti […] tanto che una scheggia lunga 3 cm (4 secondo
l’ANSA, che cita come fonte la stessa Polizia e che aggiunge al metallo
dei pezzi di legno, ndr) viene estratta dalla ferita di uno dei
poliziotti presenti». Si segnala per la consueta misura Il Giornale
che titola «Chiodi contro gli agenti. Si spacciano per pacifisti ma
volevano uccidere. Quattro i poliziotti feriti a Torino, le bombe carta
erano “imbottite”. Minniti: atto criminale».
Non
potevano poi mancare, sugli stessi giornali, il commento del Questore
(«Le persone che vanno a un corteo con bombe imbottite di schegge di
legno e metallo non sono dei dissenzienti, ma veri e propri
delinquenti») e dei sindacati di Polizia («Siamo vicini ai poliziotti
feriti nella notte a Torino, alcuni dei quali colpiti addirittura da
bombe carta con schegge di metallo. Potevano morire» [Silp Cgil]; «La
misura è ormai colma: ieri sera si è sfiorata la morte di un collega.
[…] L’uso di bombe carta riempite con pezzi di ferro e chiodi è un atto
di terrorismo e come tale deve essere perseguito. Ci auguriamo che i
colpevoli siano indagati per tentato omicidio e non per la risibile
accusa di resistenza a pubblico ufficiale» [Siap]; «L’assetto bellico è
la capacità di danneggiare cose e persone utilizzato ieri sera dagli
antagonisti è da considerarsi uguale a quello di chi ha tentato
l’omicidio, perché utilizzare bombe carta unite a pezzi di ferro
equivale alla costruzione di un ordigno con capacità lesive di utilizzo
in campo bellico» [Ugl]).
Alla
campagna denigratoria si accoda anche il Sindaco di Torino su Facebook:
«Lanciare bombe carta contenenti schegge metalliche è un gesto
criminale. Mi auguro che gli agenti feriti, ai quali va la solidarietà
di tutta la Città di Torino, possano rimettersi quanto prima. Auspico
altresì che i responsabili di un gesto tanto vile siano quanto prima
individuati e consegnati alla giustizia».
Sempre
sulla pagina Facebook Noi poliziotti per sempre, vengono pubblicate le
immagini di un agente ferito, accompagnate dal commento: «Ecco i danni
fisici che gli antifascisti hanno provocato ieri a Torino. Hanno
lanciato bombe carte riempite con chiodi, vetro e biglie di ferro. Per
noi è un atto TERRORISTICO (in maiuscolo, ndr) posto in essere per
colpire le forze dell’Ordine. Siamo solidali con i colleghi feriti e
condanniamo questi terroristi!».
L’occasione
è buona per molti commentatori per indicare il nemico di turno, i
centri sociali torinesi e, in particolare, il centro sociale Askatasuna e
chiederne l’immediata chiusura.
Nelle
settimane successive nessuna smentita arriva dai giornali. Solo un
misero tweet della Questura segnala che gli agenti sono stati in realtà
colpiti da schegge di legno e non da bombe carta rinforzate da bulloni,
chiodi o biglie di metallo. La sentenza emessa all’esito del successivo
processo penale non si confronterà con la questione. Sembra però assai
più convincente ipotizzare che qualche petardo esploso vicino agli
operatori di Polizia abbia colpito un pezzo di legno che ha proiettato
schegge attorno, piuttosto che pensare a un rinforzo dei petardi o delle
bombe carta con pezzetti di legno per aumentarne la potenzialità
lesiva.
In ogni caso la vicenda sul
piano mediatico scompare ma viene prontamente recuperata nella
richiesta di applicazioni della misura della custodia cautelare in
carcere avanzata dal PM, per 5 indagati su 6, che fa riferimento a
«bombe carta alterate con altro materiale per amplificarne e potenziarne
gli effetti» e che, nel circostanziare le lesioni subite da tre dei
quattro poliziotti feriti, parla di «esplosione di bombe carta con corpi
estranei», senza indicarne il tipo e la natura. Non è la condotta
attribuita agli indagati (le specifiche modalità e circostanze del
fatto, secondo la dizione codicistica) che costituisce il caposaldo su
cui il PM costruisce la prognosi di pericolosità e i rischi di
reiterazione del reato, ma la loro personalità, desunta non dal
certificato penale (posto che sono tutti incensurati), ma delle denunce
di polizia e dalla frequentazione del centro sociale Askatasuna. Grazie a
tale scivolamento verso una prospettiva di diritto penale d’autore, il
carcere viene richiesto anche per una ragazza che si è limitata a tenere
in mano uno striscione nel corso dell’avvicinamento iniziale al cordone
di polizia, prima della carica, nonché per altri due giovani che
avrebbero dato un calcio a due lacrimogeni che gli sono caduti tra i
piedi.
Più sobriamente, il giudice
decide di applicare misure non custodiali (tra cui spicca l’obbligo di
presentazione due volte al giorno alla polizia giudiziari per il giovane
che ha scalciato il lacrimogeno) e riserva il carcere a soli due
indagati, rispettivamente di 18 e 22 anni.
Il
primo viene considerato responsabile, a titolo di concorso morale dei
lanci dei petardi, solo per avere acceso un fumogeno (gesto che, in
termini del tutto congetturali, viene interpretato come il segnale per
l’avvio della fase più aggressiva della manifestazione o, in
alternativa, come un tentativo di offuscare la visuale dei poliziotti).
Viene poi indicato come uno tra coloro che avrebbero tirato
personalmente delle bottiglie nella fase finale. Meno di un mese dopo i
fatti viene arrestato con un’operazione dai chiari intenti mediatici.
Portato in Questura è ripreso ammanettato, mentre viene tradotto in auto
per essere accompagnato in carcere. Ora, non solo una specifica norma
processuale vieta la pubblicazione dell’immagine di una persona privata
della libertà personale, mentre si trova sottoposta a manette o ad altri
mezzi di coercizione fisica, ma il filmato che ritrae la scena viene
pubblicato sul canale You Tube della Polizia di Stato e la sequenza
dell’accompagnamento, secondo quanto poi riferito dall’arrestato, gli
viene fatta ripetere tre volte, per essere sicuri, evidentemente, della
sua resa e del suo impatto mediatico.
Il
secondo giovane vien visto fin dall’inizio della manifestazione tra le
prime fila del corteo e poi avrebbe, come detto, calciato lontano un
lacrimogeno. Seppur incensurato, resterà in carcere oltre tre mesi,
anche perché non si trova un braccialetto elettronico che possa essergli
applicato; dopo una serie di proteste e presidi in suo favore, viene
messo ai domiciliari per altri tre.
Capitolo
finale. Nello scorso aprile il Tribunale assolve tutti gli imputati
tranne uno (l’unico non legato ai centri sociali, che ha ammesso di aver
lanciato delle bottiglie contro le forze dell’ordine per emulazione di
altri soggetti che non conosceva) per non aver commesso il fatto.
Secondo i giudici le condotte tenute dagli imputati non sono di rilevo
penale (l’avvicinamento al cordone della Polizia, il calcio al
lacrimogeno, l’accensione del fumogeno), neanche a titolo di concorso
morale o non sono a loro riferibili (i lanci di bottiglie e petardi). La
divulgazione dei dati falsi sulle bombe carta imbottite di ferro ha
avuto però un’indubbia efficacia: prima, nell’informazione dell’opinione
pubblica, a cui nessuno poi ha spiegato che si trattava di una notizia
falsa, poi, nel rafforzare i profili di pericolosità degli indagati in
fase cautelare e consentire una loro, seppur momentanea,
“neutralizzazione”.
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