lunedì 23 ottobre 2017

pc 23 ottobre - Chi ha ucciso Santiago Maldonado? - United dolors of Benetton


Benetton
Scritto da Antonello Mangano
Il vero volto della multinazionale di Treviso. Viaggio dal Veneto alla Sicilia, con epilogo in Patagonia.

Indice
BENETTON PER IL VENETO, IL VENETO PER BENETTON 

Subfornitori in provincia di Treviso Benetton, imprenditore politico
“Ci hanno incoraggiati a metterci in proprio…”
La costruzione sociale del mercato.
Arcaica e modernissima
Costi ridotti, profitti altissimi
“Quando ho iniziato…”
LO SFRUTTAMENTO IN SICILIA

Bronte, l’altra faccia del “made in Italy”Viaggio in un distretto industriale del Sud del mondo
“Questa è una persona molto pericolosa…”
La libera impresa (coi soldi dello Stato) e l’imbroglio del mercato
Chi ispeziona gli ispettori?
Formula uno. Le relazioni pericolose
Benetton investe in Sicilia
Il lavoro sui Nebrodi
LO SFRUTTAMENTO IN ARGENTINA

Un particolare insignificanteProhibido pasar
“Como proteger nuestra Patagonia”
La Patagonia alambrata
Mercato mondiale contro economia locale
Marici weu! Marici weu!
Scontro di culture
Impatto ambientale
El dueño Luciano
CONCLUSIONI: BENETTON FORMULA

“Due volte il Belgio” Ossa e cadaveri per vendere magliette
Le foto di Toscani
Los colores unidos de la explotaciòn
La legge della giungla
Riferimenti bibliografici
“Noi vogliamo la nostra vita differenziata e degna”
(da un comunicato Mapuche)

Capitolo uno
 BENETTON PER IL VENETO, IL VENETO PER BENETTON

“Per le feste di Natale […] arrivano ceste e regali.
Ho visto perfino un artigiano che regalava un collier d’oro:
del resto da loro dipende tutto.
Decidono se darti lavoro o meno”.

La presenza in provincia di Treviso di un impresa come Benetton che dell’organizzazione produttiva basata sul ciclo della subfornitura artigiana, definita imprecisamente a rete, ha fatto un modello mondiale, ha segnato profondamente lo sviluppo produttivo locale. Secondo stime del Crei le imprese
legate da forti rapporti di lavoro con Benetton in provincia di Treviso sono circa 220 ed occupano oltre 3.800 addetti, pari rispettivamente al 17% e il 29% del totale provinciale.

Il dato di vicinanza della subfornitura al committente è dimostrato dal fatto che l’analoga quota a livello regionale risulta assai più bassa. Mentre molte imprese, soprattutto quelle di più recente successo, si caratterizzano per elevati livelli di internazionalizzazione produttiva o di ricorso a subfornitori extra-regionali, Benetton presenta ancora una forte compattezza territoriale. Mantiene, cioè una quota elevata di valore aggiunto (in rapporto alla produzione realizzata) all’interno del contesto territoriale provinciale. I terzisti Benetton risultano essere nella stragrande maggioranza caratterizzati da una bassa autonomia imprenditoriale e da una medio-bassa complessità organizzativa. Si tratta di piccoli imprenditori artigiani, spesso con esperienze di lavoro dipendente, non sempre nel settore tessile abbigliamento, che hanno intravisto nel corso dei primi anni ’80 la possibilità di ascesa sociale attraverso l’ingresso nel mondo dei cosiddetti “salarianti”.
Hanno dato vita ad aziende di piccola o piccolissima dimensione, dai 10 ai 19 addetti, dipendono da un cliente principale, che spesso è anche l’unico, con lotti di produzione consistenti a serie lunga che permettono discrete economie di scala. Il loro fatturato medio è di circa 490 milioni annui .

Subfornitori in provincia di Treviso
Dall’inchiesta Crei sul sistema della subfornitura in provincia di Treviso emergono dei dati sul fatturato in proporzione al numero di addetti decisamente eloquenti sia circa le specifiche caratteristiche dell’universo del contoterzismo tessile, sia circa le enormi contraddizioni della cosiddetta impresa a rete Benetton. Con una evidente forzatura analitica, utile però ad inquadrare la generalità del fenomeno di questo apparato produttivo disperso nel territorio, può essere interessante un paragone tra il fatturato medio per addetto del sistema della subfornitura ed il fatturato di una azienda come Benetton. Nel 1993 la subfornitura del settore in provincia di Treviso ha toccato un giro d’affari complessivo di 625 miliardi, occupando 13.237 addetti: un rapporto quindi tra il fatturato totale ed il numero complessivo di dipendenti di circa 47 milioni per addetto. Ma i dati dell’osservatorio Ebav del settore tessile abbigliamento disegnano con maggiore precisione l’universo di queste piccole e piccolissime aziende.
Sempre prendendo come dato il 1993 e censendo sia le poche aziende che producono in conto proprio sia quella grande maggioranza che produce per terzi, risulta che le micro-aziende, aziende familiari che occupano fino a 3 dipendenti con un totale di circa 3.100 addetti regionali hanno un fatturato per dipendente di 37 milioni, quelle da 4 a 9 dipendenti con un totale di circa 10.300 addetti hanno un fatturato di 64 milioni per dipendente, mentre la classe dimensionale più diffusa, quella che occupa dai 10 ai 19 dipendenti, con oltre 27.000 addetti regionali, registra un fatturato di circa 51 milioni per dipendente. Tenendo conto che questi dati comprendono anche quel 14% di aziende che producono in conto proprio, le quali hanno solitamente i fatturati maggiori, ne viene un quadro generale di notevole debolezza del sistema delle piccole imprese del settore.
Nello stesso periodo la Benetton, commissionaria, ricordiamo, del 30% delle imprese contoterziste della provincia, ha segnato un fatturato di 1.862 miliardi, con un rapporto quindi di 1,163 miliardi per dipendente; non solo, ma anche paragonando il livello di fatturato della subfornitura trevigiana, ad alta incidenza di contoterzismo tessile, con le medie dei settori della subfornitura tecnica e meccanica del Veneto e di altre regioni del nord, le differenze sono notevoli. Un’inchiesta condotta nel 1996 dal Comitato Network Subfornitura delle Camere di Commercio delle regioni Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna e Umbria, rivela (vedi grafico 1) un rapporto medio tra fatturato e addetti di 182 milioni, ma con un elevato grado di variabilità: il dato oscilla da valori minimi che non superano i 100 milioni (il 19,4% delle aziende) a punte di oltre 350 milioni (solo il 7,2%); quasi metà dei subfornitori ha comunque un fatturato per addetto compreso tra 100 e 200 milioni.
Anche all’interno del settore delle subforniture industriali risulta evidente come esistano segmenti molto differenziati e come l’abbigliamento sia uno dei meno redditizi. Il fatturato per addetto della subfornitura tessile appare essere appena maggiore al puro costo del lavoro utilizzato. Una stima molto precisa dei costi del lavoro viene da una analisi di Fiorenza Belussi (1992): prendendo come riferimento il periodo 1987/1988, il costo medio del lavoro al minuto è stato calcolato in £ 392 (nulle Kurt Salomon Associates), mentre il prezzo medio pagato da Benetton ai suoi contoterzisti oscilla tra le 260 e le 280 lire al minuto.
In queste microimprese contoterziste il costo di un minuto di lavoro di un operaio semiqualificato, con una certa anzianità (un caso raro in questi laboratori), è di £ 235, quello di un operaio di primo livello è di £ 127, mentre il lavoratore in contratto di formazione o apprendista costa tra le 78 e le 88 lire al minuto.
Lo sviluppo di un sistema produttivo decentrato come quello di Benetton è andato di pari passo con un processo di accentramento del controllo e della direzione. Come nella dinamica generale dei rapporti tra grande e piccola impresa della fine degli anni ’80, notevoli investimenti tecnologici hanno permesso di affinare ed ottimizzare un apparato organizzativo altamente gerarchizzato; la verticalizzazione della struttura aziendale ha portato inevitabilmente alla trasformazione dei rapporti cooperativi, o presunti tali, tra azienda madre ed apparato produttivo territorializzato in relazioni sempre più differenziate: da un lato le funzioni gerarchiche, dall’altro quella esecutiva di mera subfornitura, con una netta prevalenza degli elementi di dipendenza su quelli cooperativi o reticolari. Tra il 1994 ed il 1995 questo processo ha significato, per il sistema moda regionale del Veneto, la chiusura di oltre 1.000 imprese con una perdita di circa 5.500 posti di lavoro.
Nel corso degli ultimi dieci anni lo stabilimento principale, a Castrette nell’immediata periferia nord di Treviso, è stato notevolmente ampliato ed ammodernato: non per contenere apparati produttivi, ma per accentrare tutte le funzioni, altamente meccanizzate, del magazzino e della logistica. L’azienda ha individuato nella tessitura e nella tintura le fasi produttive strategiche da controllare direttamente, mentre la confezione è stata quasi completamente decentrata.
Le specifiche caratteristiche del modello di relazioni impostato da Benetton con la rete della subfornitura hanno fatto parlare di un tipo di imprenditoria “politica” [cfr. Lazzarato 1997].

Benetton, imprenditore politico
Non si tratta di un mero rapporto, che pure senz’altro c’è ed è ben funzionante, tra imprenditore e ceto politico, ma di un rapporto profondo e radicato di interdipendenza tra la famosissima azienda di Ponzano e le caratteristiche specifiche dell’imprenditorialità diffusa della provincia e del suo tessuto sociale. Lo sviluppo di sistemi produttivi decentrati, controllati da un’unica grande azienda, detta monopsonista, necessita di una base di comportamenti apparentemente partecipativi uniti dalla comunanza di interessi e scopi. Le relazioni tra le imprese, sia tra subfornitori sia dei subfornitori nei confronti dell’azienda monopsonista, sono stabilite sulla base di rapporti informali e consuetudinari di collaborazione. La rete di imprese è facilmente e rapidamente modificabile, i soggetti imprenditoriali evidenziano un notevole turnover e, malgrado la formale autonomia giuridica, il controllo del sistema complessivo è gerarchico e pervasivo.
La Benetton entra nei laboratori con propri tecnici addetti alla rilevazione dei tempi e metodi imponendo indirettamente l’aggiornamento tecnologico ai contoterzisti attraverso il calcolo del costo orario della produzione basato su tempi rilevati con i macchinari più aggiornati. Il controllo totale sull’impresa contoterzista delle tecnologie, dei tempi, dell’attrezzaggio delle linee da parte dell’azienda di Ponzano rivela una delle peculiarità, decisamente significativa, di questa piccola imprenditoria che, oltre a non poter decidere che cosa, quanto produrre ed a chi venderlo, è soprattutto predeterminata nel suo profitto dalla committenza.

“Io una volta oltre alle gonne lavoravo anche sui pantaloni: cucivo i passanti per £50 al pezzo. Poi un giorno sono venuti quelli dei tempi e metodi e mi hanno detto che avevo macchine troppo vecchie per fare quel lavoro ai nuovi costi che loro avevano calcolato. Per adeguarmi avrei dovuto spendere una quindicina di milioni. Non l’ho fatto e credo di aver fatto bene. una mia collega si è comprata la macchina nuova ma da allora le hanno dato pochissimi lavori adatti. così non è riuscita nemmeno ad ammortizzare il nuovo acquisto” [Interv 6].Ogni singola operazione richiesta dalla commessa viene infatti quantificata per stabilirne il prezzo da pagare al titolare del laboratorio. E’ proprio questo il nodo principale dell’anomalia di questi pseudo-imprenditori contoterzisti che sono evidentemente eterodeterminati nell’organizzazione del lavoro nel loro laboratorio e vengono pagati in base ai pezzi prodotti, mentre in realtà dovrebbero ricevere regolare compenso come capi reparto della fabbrica Benetton diffusa nel territorio.
Questi, al fine di mantenere o aumentare i propri margini di profitto, cercheranno immediatamente di ricalibrare il ciclo produttivo intensificando i tempi, ricorrendo a lavoro proprio o familiare non computato nei costi calcolati, utilizzando forzature nei confronti dei dipendenti in termini di straordinario non retribuito o di ricorso al lavoro nero, limando sui costi aggiuntivi o di trasporto, fino al momento in cui i controllori dell’azienda madre nell’attribuzione della commessa successiva non riusciranno a ricalcolare i tempi permettendo una ulteriore riduzione dei costi e riappropriandosi di quote di profitto che il subfornitore si era ricavato.

“Fino all’anno scorso riuscivo ad eludere il fisco con i carburanti. Adesso grazie a Visco non si possono più caricare le carte carburanti. […] Io riesco a risparmiare qualcosa sui costi perché mi faccio da solo i trasporti da e per la Benetton. Si perdono anche mezze giornate per aspettare il proprio turno a Castrette per caricare o scaricare. Perfino i mulettisti ci trattano male e ci fanno aspettare. Se io dovessi pagare qualcuno per fare queste cose e se io e mia moglie non lavorassimo in produzione per tutto il tempo che ci rimane libero, non riusciremmo a portarci a casa nulla” [ibidem].Oggettivamente, dal punto di vista dell’artigiano contoterzista il funzionamento nel tempo di questo sistema risulterebbe difficilmente spiegabile solo secondo logiche imprenditoriali e di mercato. La stragrande maggioranza dei contoterzisti, inoltre, malgrado l’altissimo grado di dipendenza della loro aziende, nutre una inspiegabile fiducia nella volontà dei fratelli Benetton di mantenere la produzione in provincia. Nei rapporti di subfornitura nel nostro paese non vi sono né garanzie contrattuali per il committente in materia di continuità delle commesse, né limiti di legge ai termini di pagamento, né autorità di garanzia in merito alle valutazioni qualitative sulla conformità del prodotto al contratto di commissione: gli scambi si basano su di un rapporto fiduciario tra due soggetti privatistici imprenditoriali con livelli di potere smisuratamente impari.
E’ quindi il rapporto con i soggetti della produzione e con il territorio, inteso come insieme di struttura ed infrastruttura produttiva, ad essere profondamente politico. Nel caso della Benetton, lo sviluppo per gemmazione di una fabbrica diffusa nel territorio si è fondato non solo attraverso lavoratori dipendenti interni incoraggiati ad avviare una impresa giuridicamente autonoma, e saldamente vincolata alla casa madre, ma anche ed in modo particolare, su di una rete di amicizie e parentele della famiglia Benetton.
Con una particolare predilezione nel garantire il successo economico a coloro i quali trent’anni orsono furono al fianco della famiglia nella nascita del colosso multinazionale. Tale atteggiamento non è dovuto tanto, ovviamente, allo spirito di riconoscenza nei confronti di chi è stato vicino alla “famiglia”, quanto piuttosto alla necessità di creare esempi neo-imprenditoriali che creino meccanismi imitativi.
Sono persone note in città, visibili nella vita di tutti i giorni, facilmente identificabili come esempio di ascesa sociale spinta dal lavoro, dal coraggio e dallo spirito di iniziativa; mentre non è certamente un caso che il massimo responsabile delle relazioni industriali da quasi quindici anni sia un top-manager milanese, proveniente dalla dirigenza del comparto chimico, che senz’altro poco ha a che vedere con il presunto modello partecipativo e collaborativo dell’imprenditoria veneta. In mancanza di una legislazione in materia di subfornitura industriale, che comunque confliggerebbe inevitabilmente ed insanabilmente con il carattere informale dei rapporti interni dell’impresa a rete, questa possibilità di gestire politicamente i meccanismi di selezione imprenditoriale è garantita dal sistema delle assegnazioni delle commesse che consente un livello amplissimo di discrezionalità.
Le commesse possono infatti variare notevolmente in relazione ai volumi, al numero di riattrezzaggi di linea richiesti, alle difficoltà tecniche ed ai tempi di apprendimento, incidendo profondamente sui guadagni del subfornitore. Il giudizio dei dirigenti addetti al controllo di qualità e conformità del prodotto alle richieste della commessa è ovviamente arbitrario ed inappellabile. Nel giugno del ’96 si susseguirono parecchie denunce anonime sui giornali da parte di subfornitori che rivelarono come in realtà vi fosse un livello di microimprenditoria ampiamente garantita e vari livelli inferiori:

” …andate a vedere quanti dirigenti [di Benetton] attraverso moglie, i fratelli, o i figli hanno aziende di subfornitura. Andate a verificare quali serie fanno questi laboratori. Le più semplici, quelle dei grandi volumi senza difficoltà di lavorazione. Quelle dove ci sono più margini. E poi verificate le nostre, a noi fanno fare le serie più complicate, quelle in cui ci sono meno possibilità di margini e più problemi di investimenti e di innovazione continua. Innovazioni che costano. Poi a noi ci avvertono alle sei di sera che non c’è lavoro per l’indomani, ma pretendono ugualmente che lavoriamo per il sistema Benetton in esclusiva. E noi cosa facciamo fare ai nostri operai? Li mandiamo in cassa integrazione che non abbiamo? O in ferie su due piedi, magari in gennaio?” [Tri 26 giugno 96, 21, intervista di G. Sbrissa a L. P.]“Per le feste di Natale c’è la corsa ad ingraziarsi i responsabili dei rapporti con noi contoterzisti e quelli del controllo di qualità. Arrivano ceste e regali. Ho visto perfino un artigiano che regalava un collier d’oro: del resto da loro dipende tutto. Decidono se darti lavoro o meno. Decidono se quello che hai prodotto va bene o no” [Interv 6].
“Ci hanno incoraggiati a metterci in proprio…”
Tali discrezionalità, che solo in una situazione di aumentate difficoltà economiche vengono denunciate e perlopiù solo anonimamente, hanno giocato un ruolo essenziale nella costruzione di rapporti sociali di condivisione di interessi basati sulla istituzione di quei meccanismi imitativi che caratterizzano il terreno di sviluppo di una impresa come Benetton. Per organizzare e far funzionare un apparato produttivo disperso nel territorio come quello provinciale di Benetton servono quindi fattori difficilmente ricostruibili in laboratorio.
Serve, sul fronte di questi salarianti, innanzitutto una propensione diffusa all’iniziativa imprenditoriale, che possa contare appunto su meccanismi imitativi consolidati: una disponibilità ad intensificare i ritmi lavorativi propri e spesso di tutta la famiglia e la presenza di una base di risparmio familiare da investire. Meccanismi che spingano un lavoratore dipendente a “saltare la barricata” per tentare una promozione che spesso è più sociale che economica. Una testimonianza su queste tormentate storie imprenditoriali è venuta da un terzista che denunciò, anonimamente, sulle pagine de La Tribuna di Treviso, la situazione disperata in cui si vengono a trovare molti di loro:

“Vorrei parlare dell’intervista che avete fatto a Benetton, dove invitava a sottoscrivere un patto a tre, con sindacato, Governo e Confindustria, per investire al Sud, per riportare in Italia la produzione delocalizzata all’estero. Ma se è proprio Benetton, per primo, che porta lavoro all’estero tagliando le gambe a noi terzisti. Adesso dice di portarlo al Sud, il lavoro. E noi che facciamo? (…) Dovevate venire a lavorare con noi a 35 gradi la scorsa settimana, mentre a Castrette lavorano con l’aria condizionata. La verità è che per tanti anni ai signori Benetton abbiamo fatto comodo, adesso decentrano il lavoro dove gli conviene e a noi danno un calcio nel sedere. Eravamo capilinea, capireparto, ci hanno incoraggiato a metterci in proprio, ci siamo indebitati, abbiamo preso in affitto e acquistato macchinari rinnovandoli ogni anno.Non so da quanto tempo è che non dormo più tranquillo la notte. E adesso lavoro a singhiozzo, ho dovuto far fare un mese di ferie d’inverno ai miei dipendenti. Dobbiamo essere disponibili per le produzioni flash di fine stagione, quando i negozianti rifanno ordini per specifici articoli, non abbiamo la certezza produttiva. […] Come me ci sono altri che non chiudono solo perché senza soldi per pagare la liquidazione ai dipendenti. Ho provato dalle banche, ma quelli non scuciono neanche una lira. Dovrei andare dagli usurai? O forse sarebbe meglio mi ammazzassi. Così mi credereste ed avrei anche risolto tutti i miei problemi” [Tri 23 giugno 96, 19, intervista di G. Sbrissa].
L’altro versante infatti che potrebbe spiegare il funzionamento, oltre che la tenuta nel tempo, di questo complesso e pervasivo sistema è quello del reddito. A questa anomala imprenditoria sono state fin dall’inizio precluse le facoltà di scelta e le potestà decisionali in merito alla produzione ed alla presenza sul mercato, assegnandole comunque tutti i rischi e le responsabilità derivanti dal rapporto di lavoro, costringendola in un difficile rapporto con il credito e con i lavoratori cui dovrebbero garantire un salario.
Proprio il salario sembra essere l’aspetto cruciale per definire le caratteristiche di tali lavoratori autonomi ed il rapporto di questi con i salariati che da loro dipendono. Quasi mai infatti l’imprenditore contoterzista calcola nel bilancio aziendale la propria retribuzione: quel salario cioè che, divenuto egli imprenditore, potrebbe decidere di attribuirsi in base al profitto dell’azienda. Profitto che, in realtà, viene minuziosamente determinato dall’impresa committente.
Tale evidente condizione di subordinazione permette però a queste particolari figure di lavoratore autonomo eterodiretto di disporre, più che di un vero e proprio reddito da imprenditore, di quella che Sergio Bologna definisce una quota della liquidità circolante nel bilancio aziendale, che consente al titolare ed alla famiglia un aumento di livello nei consumi e nel tenore di vita sufficiente a contraddistinguere socialmente quell’aumento di status che l’essere divenuto un salariante gli garantisce. Il piccolo imprenditore contoterzista insomma, non riuscendo o non potendo calcolare una retribuzione fissa per sé e per i suoi collaboratori familiari, devia molto spesso dai bilanci aziendali delle risorse finanziarie che poi regolarmente fanno sentire la loro mancanza nel momento in cui bisogna pagare l’Iva o le tasse costringendolo frequentemente a ricorre al credito bancario a ridosso delle scadenze fiscali.

La costruzione sociale del mercato.
Sul versante, invece, dei salariati, serve una notevole disponibilità di manodopera generalmente giovane, flessibile, femminile e scarsamente scolarizzata. Il Tac, tessile-abbigliamento-calzaturiero, ha visto a livello regionale un imponente aumento occupazionale negli ultimi vent’anni, grazie alla sua capacità di sfruttare un norme riserva di manodopera non specializzata, soprattutto femminile. Questo aumento ha subìto una forte contrazione negli ultimi quattro anni soprattutto per la concorrenza delle subforniture dei paesi dell’Est europeo. Infatti l’offerta di manodopera non regge il livello della domanda, ma soprattutto non può accettare i livelli di costo e condizioni di lavoro che sono offerti dai processi di delocalizzazione.
Secondo una recente analisi la caratteristica che distingue maggiormente i lavoratori di questo settore è la composizione per sesso. Le donne sono infatti la maggioranza capovolgendo il normale rapporto di genere fra gli occupati: mentre in generale si trovano 59 femmine ogni 100 maschi occupati, nel settore Tac ve ne sono 213. Rimane però fortissimo il “predominio”: infatti i maschi sono il 90% dei quadri o dirigenti e le donne ricoprono solo i ruoli inferiori. In questo settore il 70.9% degli operai, subalterni ed assimilati sono donne, contro un 14.9% nel settore metalmeccanico. Altro dato interessante è che la forza-lavoro presenta una percentuale senz’altro maggiore di nubili e celibi: il 42%, contro una media decisamente inferiore del 36%.
Questo dato, tenuto conto dell’alta femminilizzazione, indica come molte donne scelgano questo tipo di lavoro intendendolo come passeggero in attesa di sposarsi ed avere figli. Bassissima è ovviamente la scolarizzazione: la quota dei laureati è inferiore all’1% e bassa anche la percentuale di diplomati: solo il 14%. L’anzianità media è di 8,7 anni, contro una media di 11,1 ed anche qui in particolare sono le donne ad avere l’anzianità minore. L’apprendistato, che è un modo per contenere il costo del lavoro, è utilizzato in misura più che doppia della media. Non può meravigliare che la ricerca di un nuovo lavoro sia maggiore in questo settore che in altri, anche se non raggiunge livelli elevatissimi: il 7.1% degli occupati del settore Tac sta cercando una nuova occupazione, sostanzialmente la maggioranza di loro per migliorare le condizioni di lavoro e di salario, ma è in forte crescita anche la preoccupazione per la perdita dell’attuale posto.
Interessanti sono anche i dati provenienti dagli ex-occupati del settore: il 14.6% non lavora più nel settore per licenziamento, contro una media del 6.5%, mentre sono pochi quelli che sono ex-occupati del settore per la fine di un contratto a termine: il 4.7% contro la media del 12.3%. Il quadro che ne emerge è quindi di un settore che utilizza forza lavoro giovane, con un elevato avvicendamento, in grande maggioranza femminile, che spesso abbandonano l’occupazione al momento del matrimonio. Basso è il livello di istruzione e di formazione professionale specifica.
Dopo la scuola dell’obbligo, la cultura familiare spinge a cercare attraverso i canali informali delle conoscenze parentali o di paese una occupazione che garantisca reddito basso ma immediato, per contribuire al bilancio aggregato della famiglia o, sempre più spesso, per garantirsi il raggiungimento di obiettivi di status non dissimili dal rispettivo salariante: automobili lussuose, telefonini, week-end per sciare e soprattutto mutui per l’abitazione di proprietà. La sindacalizzazione è quasi totalmente assente all’interno dell’artigianato della subfornitura; da qui deriva la disponibilità partecipativa delle organizzazioni sindacali attraverso enti bilaterali di codeterminazione come l’Ebav (Ente Bilaterale per l’Artigianato Veneto).
Servono infine amministrazioni locali disponibili a quella totale deregolamentazione degli insediamenti produttivi diffusi in modo capillare nel territorio, disponibilità che, come abbiamo visto, nel Veneto dall’ultimo cinquantennio, non è mai venuta a mancare. E’ insomma la capacità nel tempo a cogliere, sviluppare e federare, ma soprattutto controllare saldamente, queste caratteristiche a determinare lo sviluppo di un modello produttivo come quello di Benetton. Un tipo di prodotto che può sembrare saturo o maturo come le confezioni di abbigliamento riesce ad essere aggressivo sul mercato perché l’arretratezza delle lavorazioni viene combinata con strategie moderne ed avanzate di marketing. Lo sviluppo della domanda in un mercato caratterizzato da un’alta imprevedibilità ha costretto l’imprenditore ad ampliare la gamma produttiva selezionando le fasi della produzione da controllare direttamente.
Non si può sottovalutare, inoltre, come i processi di decentramento produttivo siano stati storicamente una reazione alle resistenze operaie, all’intensificazione dei ritmi e all’alta flessibilità richiesta da questo specifico ciclo produttivo. Se si guarda al “fenomeno” Benetton su scala mondiale, esso ha, nel corso degli ultimi vent’anni, costruito un rapporto nuovo tra produzione, distribuzione e consumo, passando per un industriale senza operai e senza rete di distribuzione che vive del controllo di flussi finanziari e di comunicazione. Basti pensare, ad esempio, alle capacità di innovazione sviluppate nel campo della comunicazione di massa, volte a superare la mera promozione del prodotto, per puntare all’affermazione planetaria simbolica del marchio.
Nella materialità invece dei rapporti di produzione nel suo territorio elettivo, la provincia di Treviso, Benetton molto più concretamente è riuscito nel coordinamento delle capacità di sfruttamento e di intensificazione dei ritmi produttivi di migliaia di questi cosiddetti lavoratori autonomi e dei loro salariati.
Il passaggio dal controllo diretto della produzione alla federazione di strutture produttive che assumono l’apparenza dell’autonomia imprenditoriale presuppone precondizioni economiche, sociali e culturali specifiche e la capacità da parte di Benetton di utilizzarle a proprio favore. In questo senso, l’obiettivo di un’azienda monopsonista come quella di Ponzano è quello di assicurare una costruzione sociale del mercato [Lazzarato 1994, 3-8], inteso come sistema di condizioni socioambientali favorevoli ad un tessuto produttivo autonomo: tessuto produttivo che in realtà autonomo non è. Proprio recentemente il malumore dei contoterzisti di Benetton cominciò a prendere voce.
Si trattava di quel settore artigiano della subfornitura legato a lavorazioni nel comparto delle confezioni, a più basso contenuto tecnologico, rimasto vittima dei processi di delocalizzazione produttiva. Questa crisi e le notizie di mobilitazioni apparse sui giornali svelarono che alla dirigenza dell’azienda di Ponzano fosse fin troppo chiaro come in realtà la gran parte di questi laboratori potessero essere considerati a tutti gli effetti semplicemente dei reparti dispersi nel territorio di una fabbrica virtuale.
I dirigenti di Benetton si spinsero addirittura a rimproverare quei piccoli imprenditori in crisi per non aver voluto fare il salto qualitativo acquisendo una propria autonomia sul mercato per inseguire invece il fatturato delle monocommittenze che appariva più sicuro ed immediato.

“Siamo stati condannati a morte in contumacia. Allora tutti davanti a Benetton per protestare contro l’insensibilità delle istituzioni e della committenza alla gravissima situazione dei contoterzisti del tessile, abbigliamento e calzaturiero” […]“Ora abbiamo deciso di dar vita a comitati di terzisti in ogni provincia e di dar voce alla nostra protesta” (non ci saranno però proprio i subfornitori di Benetton) “E’ stato deciso di non farli partecipare per timore di ritorsioni. C’è chi dice ci siano state pressioni”.
A questa protesta la dirigenza Benetton, nella persona di Umberto Dardi, responsabile delle relazioni industriali, rispose il giorno stesso sui giornali:

“Abbiamo saputo ieri della manifestazione; come potevamo minacciare ritorsioni? E poi il problema non si pone: il rapporto è fra liberi imprenditori, per definizione ritorsioni non possono essercene. Tra l’altro a noi non risulta che tra i nostri contoterzisti esistano situazioni di particolare criticità che sono all’origine di questa protesta”.Circa la richiesta dei manifestanti di una legge che regolamenti i rapporti di subfornitura, il dirigente è ancora più esplicito e secco:
“Farlo equivarrebbe a prefigurare una economia bulgara. Forse che regolamentando per legge l’attività sessuale tra coniugi si tutelerebbero i matrimoni? La sicurezza del rapporto la dà l’affidabilità dei soggetti, non i lacci e lacciuoli che tutti chiediamo di tagliare e che ora si invocano. Quello che ha rappresentato Benetton in qualità di volano per l’economia dell’area mi pare sia evidente a tutti. E il fatto che vogliamo rimanere nel Nord-Est lo dimostrano i 200 miliardi di investimenti produttivi fatti qui in due anni. Noi siamo convinti che nel momento in cui ci fosse la regolamentazione per legge di questa partita il contoterzismo italiano subirebbe un drastico ridimensionamento”.Evidentemente il processo di imprenditorializzazione del territorio avviato dall’azienda di Ponzano non è così pacificato come si vorrebbe farlo apparire. Ed il modello di sviluppo economico non è quel ciclo virtuoso di crescita autoalimentantesi che viene tanto spesso propagandato. Solo il giorno prima della manifestazione era stato il sindacato a lanciare l’allarme fornendo cifre chiare sullo stato di salute dell’artigianato tessile contoterzista. Afferma Giuliano Chies segretario provinciale Filtea Cgil:
“Guardiamoci negli occhi, nella U.E. lavorano nel settore 2 milioni di addetti. In Italia sono 900.000. Ciò significa che alcuni paesi, tra cui la Germania, hanno rinunciato e hanno fatto cancellare i limiti sul lavoro esportato che l’Italia aveva posto, il Tpp (Traffico di Perfezionamento Passivo). Una volta era del 15% sul totale del prodotto, ora è del 60%. Uno studio dell’Università di Padova sostiene che il Piemonte lo utilizza per il 10%, la Lombardia per il 25% ed il Veneto per il 38%.Ciò significa che siamo grandi esportatori di lavoro ed un po’ meno di merci. Questo è un problema grave che deve coinvolgere il Governo. Come rispondere? Obbligando le aziende europee a operare solo nei paesi in cui si rispettano i diritti politici, civili e sindacali, dove non si fanno lavorare i bambini. Cosa che al contrario avviene in tutti i Paesi diventati nostri terzisti. […] Possibile che per 30.000 occupati non ci sia un solo centro di formazione in provincia? Se si vuole rinunciare a questo settore si abbia il coraggio di dirlo ed assumersene le responsabilità politiche” [Tri 3 ottobre 1996, 23].
Arcaica e modernissima
Le motivazioni che hanno spinto, ma non sappiamo ancora per quanto, Benetton a mantenere una solida rete produttiva in provincia preferendola ai più economici mercati del lavoro dei paesi dell’Europa orientale paiono essere legate alle esigenze di velocità e flessibilità del sistema moda che con tutta evidenza questo oliato sistema locale riesce per ora a garantire al meglio. Vi è stata soprattutto l’esigenza, dettata dai mercati finali del consumo mondiale di massa dell’abbigliamento Benetton, di ampliare progressivamente il campionario e di aggiornarlo molto frequentemente al fine di mantenere la propria posizione di leader nel mercato: questa esigenza essa ha teso a ridurre per ora la profittabilità di una strategia di completa delocalizzazione.
L’azienda di Ponzano, oltre che essere “senza fabbriche”, è anche priva di una propria catena distributiva. I negozianti Benetton infatti sono dei commercianti autonomi a tutti gli effetti, legati all’azienda solo da un anomalo rapporto di franchising, che viene legalmente spesso contestato all’estero. E’ un contratto che non prevede il pagamento di royalties, ma se da un lato vincola il negoziante a lavorare in esclusiva per Benetton, dall’altro non fornisce altro che un marchio e un’immagine, le famose provocatorie campagne pubblicitarie ed una consulenza manageriale e di marketing. Per il resto, la Benetton non è vincolata a ritirare i capi invenduti o a sostituirli: il rischio d’impresa è tutto addossato al negoziante, come già nel processo produttivo esso spettava all’artigiano contoterzista.
Il sistema è evidentemente ben collaudato e conveniente per la casa di Ponzano, come racconta Sergio, un capo-area dell’agenzia che gestisce la rappresentanza del prodotto Benetton per il Triveneto:

“Ai capo-area viene attribuito un budget di vendite e per raggiungerlo noi dobbiamo decidere quando, dove e a chi far aprire un negozio Benetton […] Abbiamo la fila di persone che ogni mese chiedono di poter aprire un punto vendita, noi scegliamo in base alle possibilità di fatturato, distanza da altri negozi eccetera […] i negozianti non devono firmare nulla se non le copie-commissioni […] l’accordo di esclusiva (nel senso che non devono vendere nessun altro prodotto), l’obbligo di arredare il negozio secondo dei nostri schemi e fornendosi di ditte di nostra fiducia, il rispetto delle nostre indicazioni per le pubblicità e insegne, il rispetto delle nostre decisioni sul prezzo di vendita e di sconto per i saldi: sono tutti accordi verbali, chi non li rispetta semplicemente non riceve più la merce” [Interv 6].La flessibilità ottenuta da Benetton grazie alla sua rete di subfornitori locali si riscontra nel sistema di approvvigionamento dei punti vendita:
“Riforniamo le due stagioni (primavera-estate e autunno-inverno) e due collezioni flash di riassortimento dei capi più venduti. Ad esempio il cliente ordina in luglio i capi della stagione primavera-estate dell’anno successivo, entro dicembre lo riforniamo del 30% dell’ordine e tra febbraio e marzo del rimanente 70%. Inoltre noi possiamo soddisfare i negozianti anche con la fornitura del cosiddetto “pronto”, che in realtà non è prodotto pronto in magazzino, quello ormai è stato totalmente eliminato, ma si tratta di capi che dal momento dell’ordine del negoziante vengono messi in produzione e vengono consegnati in negozio entro 6 settimane.Mediamente noi agenti sentiamo l’azienda 3 o 4 volte al mese per comunicare quali sono i prodotti da riassortire più rapidamente, i capi del campionario che probabilmente non vale nemmeno la pena di mettere in produzione perché quasi nessun negoziante li ha ordinati (…) in alcuni casi riusciamo ad ottenere modifiche anche nel corso della produzione normale stagionale” [ibidem].
“Stranamente” però, mentre i contoterzisti che lavorano per Benetton vengono pagati generalmente con decorrenza di 60 giorni dalla data di emissione della fattura, i negozianti cominciano a pagare la Benetton fin da settembre con scadenze mensili che arrivano fino a dicembre: cominciano quindi a pagare le fatture prima di aver ricevuto tutta la merce ed in alcuni casi prima ancora che la Benetton finisca di pagare i laboratori contoterzisti che hanno confezionato il capo. Proviamo a seguire un ciclo completo di produzione e commercializzazione di un ipotetico ordine di 1.000 maglie in lana. Tra il settembre e il dicembre del 1997 la Benetton elabora il suo campionario per l’inverno del 1998, iniziando ad acquistare o produrre i tessuti secondo i colori della collezione da dicembre del 1997 fino a giugno del 1998.
Da gennaio a marzo del ’98, presso gli show-room delle agenzie di rappresentanza, il negoziante ordina, secondo i consigli degli agenti di commercio, i capi per l’assortimento del suo negozio per la stagione autunno-inverno di quell’anno e tra l’altro ordina le ipotetiche 1.000 maglie. Tra maggio e luglio il laboratorio contoterzista produce il primo 30% delle maglie e le consegna, con propri mezzi, in agosto al magazzino centrale di Castrette dove, dopo il controllo di qualità, in pochi giorni vengono smistati, con il famoso magazzino automatizzato chiamato “Charlie”, i capi vengono consegnati al negoziante in agosto prima delle svendite della merce estiva.
Il sistema “Robostore 2000” assicura la divisione dei carichi sui mezzi di trasporto non solo per aree geografiche ma anche per singoli clienti. Un sistema automatico di imballo ottimizza i carichi di spedizione, gestiti da un centro di distribuzione automatizzato. Queste innovazioni hanno comportato nel 1996 un risparmio di 10 miliardi sulle spese di trasporto [Bnt1, 12].
Anche la consegna, gestita dalla divisione logistica Benlog, è esternalizzata a padroncini con furgoni che a loro volta lavorano, formalmente come autotrasportatori indipendenti in esclusiva per la casa di Ponzano.
Le rimanenti 700 maglie la Benetton deve consegnarle entro settembre perché arrivino nel negozio al massimo entro l’inizio di ottobre. Il negoziante comincia a pagare il totale dell’ordinativo di 1.000 maglie anche se non le ha ricevute ancora tutte in quattro scadenze comprese tra settembre e dicembre, mentre il contoterzista che le ha prodotte viene pagato dalla Benetton dopo due mesi dalla consegna del totale dell’ordine, tra novembre e dicembre del 1998. Il meccanismo funziona ancora meglio (per la Benetton) nel caso degli ordini urgenti quando il contoterzista deve produrre un riassortimento dei capi più venduti della collezione in pochi giorni: in quel caso la merce prodotta sarà già nei negozi prima ancora che l’artigiano possa aver nemmeno emesso la fattura alla casa di Ponzano.

Costi ridotti, profitti altissimi
La rete distributiva “autonoma” di Benetton gode di ottima salute. Uno dei suoi punti di forza sul mercato, oltre al buon rapporto prezzo-qualità, alla presenza capillare di punti vendita ed alle originali campagne pubblicitarie, è quindi costituito dall’alto livello di competitività raggiunto che permette di rifornire i negozi anche otto volte in un anno con un campionario molto vasto e sempre aggiornato, con una velocità ed una flessibilità che probabilmente l’azienda, per ora, non riesce ad ottenere su di una catena di subfornitura internazionale, senz’altro più economica, ma anche troppo lenta o troppo articolata e di difficile controllo.
La ricerca del Crei, rivela come in realtà, anche a parità di risultato qualitativo, il margine di profitto derivante dai processi di delocalizzazione produttiva in paesi dell’Europa orientale o del nord Africa non è così alto come i bassi costi del lavoro sembrerebbero suggerire. Se il puro costo orario del lavoro nel comparto tessile, ad esempio in Tunisia, risulta essere circa un quarto di quello italiano, in realtà aggiungendo i fattori del trasporto, dei dazi doganali, del coordinamento e dell’organizzazione, dei margini di difetti di produzione, il risparmio finale si riduce al 20%. Una differenza non molto elevata se si considerano i ritardi, la lentezza ed i possibili inconvenienti.

Costo del lavoro nel T-A in diversi Paesi
Costo orario del lavoro 1993Veneto=100
Veneto18.000100
Taiwan9.27952
Turchia7.15340
Hong Kong6.20234
Portogallo5.96133
Tunisia4.78527
Messico4.72026
Ungheria2.90016
Marocco2.36813
Rep.Ceca2.30413
India9025
Indonesia6934
Cina5803

Emerge con evidenza, quindi, come la caratteristica predominante ed essenziale in ogni fase del ciclo della produzione, della comunicazione e della commercializzazione di Benetton sia la flessibilità. Flessibile è il ciclo produttivo grazie ad un apparato decentrato in gran parte indipendente e formalmente autonomo che può, e deve, adattarsi alle esigenze di variazioni nei volumi produttivi. Flessibile è l’organizzazione commerciale che conta su di una rete di vendita capillare e, anche questa, indipendente e formalmente autonoma, in grado di seguire le fluttuazioni del mercato finale grazie ad un efficientissimo sistema di stoccaggio e di logistica. Ma soprattutto è flessibile la forza lavoro.
In generale la subfornitura nelle confezioni è caratterizzata da una produzione stagionale legata all’uscita delle collezioni dei committenti. A periodi di ridotta attività durante il cambio stagione si alternano periodi di superlavoro. Oltre alle normali collezioni primavera-estate ed autunno-inverno, Benetton conta anche su un riassortimento per stagione dei capi più venduti, dei quali l’azienda è in grado di garantire la messa in produzione e la consegna nei negozi in 60 giorni, e su due collezioni “flash” nel corso della stagione tesa a rinverdire il campionario.
Quindi, è notevole la flessibilità che si richiede al ciclo della subfornitura ed alla sua manodopera. Malgrado Benetton programmi gli ordini in collaborazione con i negozianti in base all’andamento storico agli obbiettivi di marketing ed alle previsioni di mercato, occorre tener conto che il settore della distribuzione, in momenti di contrazione dei consumi o in situazione di elevata concorrenza sul mercato, tende a fissare gli ordini a ridosso o durante la stagione della vendita, costringendo le imprese a produrre in tempi sempre più rapidi.
Di norma i laboratori lavorano quindi a ritmo ridotto durante i cambi di stagione, a settembre/ottobre, con il passaggio alla produzione delle collezioni primavera/estate, e tra marzo e aprile con l’avvio delle produzioni autunno/inverno. Anche negli altri mesi, a causa delle variazioni negli ordini e delle differenze nei vari mercati internazionali, la quantità di lavoro non è costante, costringendo ad una gestione delle ferie, degli straordinari, dei carichi produttivi a totale discrezione del titolare. Durante i picchi di lavoro si arriva a sub-commissionare ad altri laboratori parte della produzione in eccesso. Nella seconda metà degli anni Novanta il numero medio di ore di lavoro per addetto nei mesi di pieno lavoro sfiora le 170 ore mensili per scendere nei mesi di ottobre ed aprile attorno alle 90. L’andamento medio mensile dei ricavi del microimprenditore contoterzista, in base ai tempi lunghi di fatturazione, arriva ai 120 milioni nei mesi di maggio e giugno o i 100 di settembre, per scendere sotto i 20 milioni ad aprile o ai 30 in novembre. Gli sbalzi portano ovviamente, a dover accettare ordini anche a prescindere dal possibile ricavo, pur di salvare un minimo di fatturato mensile nei periodi morti.

“Quando ho iniziato…”
Il clima di fiducia tra questi contoterzisti comincia quindi seriamente a sgretolarsi per la diffusione di laboratori nel Sud Italia e per le produzioni trasferite nei paesi dell’Europa orientale. Come racconta Luciano, 45 anni, contoterzista trevigiano con 18 dipendenti. Era un agente di commercio del settore, la moglie era sarta, ha avviato l’attività nel 1986 lavorando sempre e solo per Benetton, ma negli ultimi tre anni la situazione sta notevolmente cambiando.

“Quando ho iniziato, dieci anni fa, ci consideravano e ci consideravamo veramente parte della Benetton. Ci chiamavano per presentarci le collezioni, parlavano con noi della programmazione del lavoro. Adesso per loro siamo solo un peso. Ce lo fanno capire in tutti i modi. Ci dicono: guardatevi intorno, cercatevi anche nuovi clienti. Come se fosse facile. L’anno scorso, visto che dalla Benetton mi davano poco lavoro, ho telefonato alla Althana [ditta di abbigliamento di Marina Salomon]: mi hanno offerto di cucire degli husky per 5.200 lire al pezzo. Con cifre del genere non riesco nemmeno a pagare le ragazze.” […]A fine febbraio mi hanno avvisato che molto probabilmente sarei dovuto rimanere fermo per tre settimane. Ma mi hanno detto che poteva accadere in un qualsiasi periodo tra marzo e giugno e che il preavviso sarebbe stato al massimo di due giorni. Spiegatemi come può uno trovarsi altri clienti con preavvisi di questo tipo. Per fortuna io pago le quote Ebav, così almeno le mie ragazze portano a casa qualcosa” [Interv5].

I contoterzisti associati all’Ente Bilaterale dell’Artigianato Veneto (Ebav) versano mensilmente £14.000 per dipendente, mentre ogni lavoratore versa alla stessa cassa £2.500 (£12.000 chi è anche iscritto al sindacato). Nel caso di questo laboratorio le operaie percepiscono un sussidio di £ 250.000 al mese delle quali £150.000 dall’Inps ed altre £100.000 dall’Ebav.

“E’ dall’anno scorso che ci dicono che ormai noi serviremo sempre più solo per l’emergenza. Fino a qualche tempo fa davo del lavoro in nero nelle case qui intorno: £150 a capo per la pulitura. Benetton vuole tutti i capi puliti dai fili di cucitura ma non ci calcola nella retribuzione il tempo che ci vuole per fare questa operazione. E’ un brutto lavoro, ci vuole tempo e pazienza per farlo. Adesso, con il brutto clima che c’è, preferisco fare io anche questo lavoro.” […] Siamo costretti a fare anche le produzioni piccolissime di 1.000 o 2.000 pezzi: io ho fatto anche un ordine di 50 pezzi. Non puoi rifiutarti altrimenti con loro hai chiuso” [ibidem].Un sistema di subforniture di questo tipo, cui viene affidato il compito di ammortizzare per conto dei committenti l’andamento altalenante della produzione, si espone ovviamente anche al lavoro nero ed irregolare: a cercare anche in Veneto costi del lavoro rumeni. Sui giornali locali nel corso del ’97 sono apparse notizie sempre più frequenti di blitz dei Carabinieri su indicazioni dell’Ufficio provinciale del lavoro, per combattere il lavoro nero. Nel corso dell’anno sono stati scoperti ben cinque laboratori clandestini di cinesi impegnati nelle confezioni di abbigliamento, tre nel solo mese di ottobre del 1997, tutti nell’asolano.
Si trattava complessivamente di 42 giovani cinesi clandestini. Il 13 novembre i Nas dei Carabinieri facevano irruzione in un edificio di Zero Branco, nell’immediata periferia sud di Treviso, trovando dieci giovanissimi cinesi che lavoravano su altrettante macchine da cucire mentre altri dieci dormivano in uno stanzone al piano superiore su dei materassi gettati a terra. Lavoravano dalle 12 alle 14 ore al giorno per circa 500.000 lire al mese, senza documenti e senza sapere una sola parola di italiano. Il laboratorio era gestito da due donne, anch’esse cittadine della Repubblica Popolare Cinese, che mantenevano i rapporti con laboratori terzisti. Erano insomma l’ultimo anello di una catena di subfornitura a cascata tipica del settore trevigiano delle confezioni. Dalle indagini in corso emergerebbe che questi giovani schiavi verrebbero trasportati da un paese all’altro dove serve manodopera e per il laboratorio di Zero Branco sarebbero passati centinaia di giovani cinesi.

“Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire il labirinto delle aziende committenti tramite il passaggio della merce. Non è un lavoro semplice visto che tutto avveniva clandestinamente senza documenti né accordi scritti. Anche dalle etichette è difficile risalire questo “filo di lana” dello sfruttamento. E i primi risultati che stanno emergendo sono davvero sconcertanti: chi dava lavoro ai cinesi sembra siano alcuni terzisti, piccoli artigiani della Marca che lavorano in nero per aziende più grandi. Sfruttati dalle “firme”, hanno a loro volta sfruttato i ragazzi cinesi. In un intreccio che sembra senza fine”.Ancora, sabato 24 ottobre 1998, dopo una famosa trasmissione televisiva di Rai 2 condotta da Gad Lerner dove l’azienda di Ponzano viene messa sotto accusa per il lavoro minorile in Turchia e per quello nero o clandestino in Veneto, su La Tribuna compare la notizia dell’ennesima irruzione dei carabinieri in un laboratorio clandestino di cinesi. In una piazza centrale di Breda, un piccolo comune nell’immediata cintura periferica di Treviso, chiusi per quindici, sedici ore al giorno, in un magazzino dalle finestre oscurate lavoravano sette cinesi, di cui cinque clandestini. Cucivano pantaloni per 20mila lire al giorno. Interviene anche il sindacato.
“Delinquenza pura, la più schifosa perché colpisce gente che non ha alcuna chance. Come sindacato insistiamo sulla responsabilità “produttiva” degli imprenditori, e per questo stiamo inserendo la clausola sociale nei contratti. Chi assegna le commesse, deve essere responsabile e consapevole dei meccanismi dell’intera filiera produttiva”.Fino a pochi mesi fa nella Marca i cinesi registrati dall’ufficio stranieri della Questura non erano più di 350-400. Ora sono il doppio: un tasso di incremento migratorio che non ha eguali nelle altre comunità straniere. Ma i dati ufficiali sono ovviamente calcolati per difetto: la questura sostiene che per ogni cinese regolare ve ne sia almeno uno irregolare. Sempre all’ufficio immigrazione della Questura di Treviso si stimano in 50-60 i laboratori clandestini di cinesi in Provincia di Treviso. Negli ultimi quattro anni ne sono stati scoperti dodici.
“Mesi orsono a Padova una nostra pattuglia ha trovato due cinesi che da un furgoncino estraevano fascicoli e carte per bruciarle al bordo di una strada di campagna. Avevano un passaporto diplomatico regolare. Non abbiamo potuto nemmeno verificare di che documenti si trattasse.” [INTERV7]Un artigiano conferma i sospetti di “contiguità” tra il circuito dei contoterzisti Benetton ed i laboratori clandestini dei cinesi:
“Il mese scorso ho ricevuto una telefonata da una persona che cercava lavoro. Era uno straniero con un accento strano credevo volesse offrirsi come operaio: gli ho detto di venire in azienda il giorno successivo, visto che si era da poco licenziata una ragazza. Ma quando è venuto ho capito tutto. Era un cinese, si offriva per portarsi via capi da cucire con il suo furgone. Mi avrebbe riportato tutto pronto nel giro di una settimana chiedendo meno della metà di quello che mi paga Benetton. L’ho mandato via, ma credo che molti miei colleghi stiano utilizzando questi sistemi” [Interv 5].
Capitolo due
LO SFRUTTAMENTO IN SICILIA

“La miseria offre un salutare spettacolo
a tutta la parte ancora sana delle classi meno fortunate,
poiché è fatta per incuterle spavento ed
esortarla così alle difficili virtù delle quali ha bisogno
per arrivare ad una condizione migliore”

“Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ormai era più d’impiccio che d’altro. Malpelo s’informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava come se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava”.
Giovanni Verga scrive Rosso Malpelo nel 1878, e racconta il lavoro disumano nelle cave del catanese, una umanità abbrutita dal calcolo economico, i ragazzi deformi che in miniera ci muoiono di fatica, gli emarginati che lavorano come bestie, poveri diavoli sepolti vivi dalla rena e ingegneri disturbati a teatro dalle notizie di crolli in miniera e di vite poco importanti stroncate nelle viscere della terra.
Sono passati centoventi anni, ed ancora bisogna scrivere di bambine costrette a lavorare alle falde dell’Etna. Non tutto è perduto, troppo tempo è passato, troppe lotte, troppi diritti conquistati, per i bambini e per gli adulti. Ma se ci si ferma ora, poi bisognerà ricominciare tutto da capo.

Bronte, l’altra faccia del “made in Italy”
Tutto inizia nel dicembre del 1997, con una irruzione dei carabinieri in alcune fabbriche tessili situate tra Bronte e Randazzo: in 13 aziende lavorano 15 bambine operaie al di sotto dei 15 anni e circa 170 “adulti” (cioè di età compresa tra 16 e 30 anni), in nero, senza garanzie sanitarie e previdenziali, tutti sottopagati. Era in nero circa un lavoratore su quattro.
Le fabbriche situate in quest’area producevano per i più famosi marchi italiani e internazionali: Benetton, Rifle, Levi’s, Replay, Armani, Jesus.
Non è certo la prima volta che notissimi marchi vengono scoperti a sfruttare il lavoro di adulti e bambini, sempre in maniera indiretta e con la fragile copertura dei contratti di sub-fornitura. Sia le imprese internazionali come la Levi’s che quelle localizzate nel celebre nord-est abbattono abitualmente i costi di produzione affidandosi a imprese locali che sfruttano i propri dipendenti, e sempre più spesso ricorrono al lavoro minorile.
“C’è sfruttamento nei laboratori asiatici che assemblano le mie scarpe? E’ una cosa normale da quelle parti”, ha detto con la massima tranquillità Giovanni Caberlotto, amministratore della “Lotto”, uno dei simboli del Veneto miracoloso. E conclude così: “potrei anche portare parte della produzione in Italia, nel Mezzogiorno, ma a condizione che vengano ripristinare le gabbie salariali” [Mnd 10 agosto 96].
Di fatto esistono già, e si è andati abbondantemente oltre. “Siamo dunque a Taiwan ?”, si chiedono i catanesi. In fondo, sapere che Taiwan è proprio sotto casa mette in crisi la sicurezza di chi pensa che si tratti di tragedie e povertà degli altri, di paesi lontani, dai nomi esotici, buoni al massimo per qualche campagna di solidarietà.
Ed i sindacalisti, anche quelli che predicano la flessibilità, si accorgono che forse si è andati oltre il consentito, e che qui non è questione di modernizzazione, ma di elementari diritti umani.
Secondo vari quotidiani, locali e nazionali, i lavoratori di Bronte, sia le bambine di 12 anni che gli adulti, stavano davanti ad una macchina da cucire per otto ore al giorno, tutti i giorni con l’eccezione della domenica; venivano pagati 400mila lire al mese e a volte anche meno; erano ufficialmente disoccupati.
I tredici rappresentanti legali delle imprese sono stati denunciati, così come dodici genitori dei bambini.
L’inchiesta dei carabinieri ha fatto finire le fabbriche di Bronte sulle pagine di cronaca dei quotidiani nazionali. Si tratta di un’indagine avviata nel settembre del ‘97 e conclusa tre mesi dopo, a partire da alcune segnalazioni al 112 e da indagini precedenti su un laboratorio di Randazzo. Sono state messe sotto osservazione le aziende della zona, in particolare una ventina di ditte specializzate in abiti e capi d’abbigliamento in conto terzi.
Tre delle ditte esaminate erano sostanzialmente in regola, nelle altre sono state evidenziate irregolarità di tutti i tipi, fino allo sfruttamento dei minori.
Se l’obiettivo dell’imprenditore è pagare il meno possibile gli operai, lo scopo si raggiunge assumendo soggetti “deboli”. I giovani, le donne, i bambini, ed infine le bambine.
E spesso erano appunto bambine a lavorare. Circa il 90 % della forza lavoro è costituito da donne, che a volte hanno un diploma in tasca ma nessuna prospettiva. Una delle fabbriche aveva 100 dipendenti divisi tra due capannoni: solo 20 operai, maschi adulti, avevano un contratto. Le 80 donne tra i 14 e i 24 anni erano in nero.
“Il lavoro alla macchina da cucire è un lavoro pesantissimo. Abbiamo anche avuto sentore di tentativi di licenziamento di lavoratrici che si trovavano in maternità, o comunque lamentele. Ci sono stati anche dei tentativi di comprimere il diritto delle lavoratrici ad avere una maternità tranquilla. Da quello che ho sentito hanno anche tentato licenziamenti prima dell’astensione obbligatoria. Il blitz dei carabinieri, che poi è quanto dovrebbero fare gli organi ispettivi di norma, è stato positivo perché adesso i margini di manovra per continuare a comprimere i diritti delle lavoratrici (in tutti i sensi: dalla maternità alla malattia) sono ridotti”, afferma Gino Mavica della Cgil di Bronte [Interv2].
Sfruttando la disperazione della gente, i titolari delle ditte imponevano turni massacranti (dalle 8 alle 13, dalle 15 alle 17 ed oltre) e salari ridicoli.
Un altro aspetto della questione è il lavoro a domicilio, svolto con le macchine da cucire direttamente nelle abitazioni. Gli incaricati delle grandi aziende provvedono poi a ritirare la merce ed applicare i marchi che tutti conosciamo attraverso vetrine scintillanti e spot televisivi.
Sarebbero 2500 le persone coinvolte in questa attività nell’area etnea. Intanto, i dipendenti delle imprese sotto inchiesta potrebbero ottenere il riconoscimento previdenziale del lavoro effettuato e la differenza tra la paga e i minimi di legge.
Nessuno può però negare che nell’area è diffuso un clima di paura. “Quello che viene fatto è un vero e proprio ricatto sull’occupazione. Dopo il blitz, si è creata la psicosi che stava chiudendo tutto. E questa i padroni l’hanno ‘pompata’ in tutti i modi e in tutte le maniere” [ibidem].
E’ praticamente impossibile che un lavoratore o una lavoratrice parli delle condizioni all’interno della fabbrica, perché ha paura di perdere il lavoro.
Ma tutti sanno in che condizioni si lavora. Enzo Rossi, responsabile dei “giovani comunisti” del PRC di Bronte: “abbiamo fatto un volantino in cui denunciamo la situazione nel nostro paese. Sappiamo che non vengono assolutamente rispettati né gli orari né i contratti sindacali, spesso si è costretti a firmare buste paga solamente fittizie, perché quei soldi sono solo sulla carta e nessuno li prende. So che moltissime persone non sono assolutamente messe in regola” [Interv3].
“Tu capisci che in un’area, Bronte, dove la disoccupazione tocca livelli allucinanti, dove i padri di queste lavoratrici sono poi braccianti, lavoratori che sono disoccupati per anni, e quindi quando in famiglia arrivano dei soldi, è evidente che il sindacato per queste lavoratrici appare spesso come un ostacolo per la conservazione del posto di lavoro”. E’ ancora la testimonianza di Mavica [Interv2].
“Le difficoltà oggettive e le intimidazioni delle aziende sono pesantissime. Per intimidazioni intendo frasi del tipo ‘se fai il sindacato ti licenzio’ o ‘glielo dico a tuo padre’, pressioni psicologiche sulla perdita del rapporto di lavoro in condizioni di sottosviluppo, di precarietà per migliaia di famiglie.
La sindacalizzazione che riusciamo a fare è solo in occasione delle vertenze. Quando sono oggetto di ritorsione, le lavoratrici hanno la possibilità di venire al sindacato e fare un’azione contro l’azienda.
E questo tipo di sindacalizzazione è comunque sommersa, nel senso che noi facciamo la tessera alla lavoratrice, e quindi l’azienda non sa chi è iscritto al sindacato e chi non lo è, perché se facessimo la delega sindacale la lavoratrice già sarebbe colpita perché verrebbe individuata” [ibidem].

Viaggio in un distretto industriale del Sud del mondo
Franco Catania, deputato di “Forza Italia” alla Regione siciliana, è socio di minoranza della Bronte jeans. Quindi, è più che ovvio che sia lui a rompere il coro di condanne e di sdegni.
“Si è fatto un polverone. I casi di lavoro minorile sono tre o quattro e ad ogni modo, purché abbiano preso la licenza media, possono lavorare. Il sommerso qui è inferiore al resto del Meridione e, vorrei dire, fisiologico [corsivo mio]. Adesso, invece, il vero pericolo è che le aziende del Nord ritirino tutti gli ordini fatti alle nostre fabbriche” [Gds 8 dicembre 97].
Catania è un ottimo esempio di mentalità della globalizzazione dal punto di vista del mediatore, quello che in Messico chiamano coyote, il punto di incontro tra gente affamata di lavoro e multinazionali desiderose di sfruttare lo stato di bisogno.
La Bronte jeans srl, fondata dai fratelli Franco e Mario Catania, produce 5mila capi al giorno per marchi come Benetton, Armani, Levi’s [Gds 18 dicembre 97]. Se il dato riportato è corretto, si tratta di una produzione impressionante. “Produciamo circa 1 milione di pezzi l’anno”, dice Giuseppe Linguaglossa, consulente della ditta dei fratelli Catania [Interv1].
La Bronte jeans dichiara nel 1997 appena 57 dipendenti, stando alla visura della Camera di Commercio di Catania che porta la data del 2 ottobre 1997. Sono molte le aziende del comprensorio che dichiarano uno o addirittura nessun dipendente ma – misteriosamente – producono a ritmi record.

[ Estratto della visura del registro delle imprese di Catania, Vis1]
denominazioneBronte jeans srl
attivitàconfezione di capi d’abbigliamento
oggetto socialeconfezione di capi d’abbigliamento, addestramento ed istruzione professionale, iniziative di studio e ricerca, formazione operatori, elaborazione programmi di sviluppo economico, attività editoriali ed educative, etc.
amministratore unicoMario Catania
capitale sociale90 milioni
sedeBronte, zona industriale artigianale loc. SS. Cristo
data di costituzione7 aprile 1986
addetti dichiarati nel 1997indipendenti: 1
dipendenti: 57

[ Estratto della visura del registro delle imprese di Catania, Vis2]
denominazioneArtigianato tessile
attivitàconfezione di capi d’abbigliamento
forma giuridicaimpresa individuale
titolareFabio Catania
sedeBronte, zona industriale artigianale loc. SS. Cristo
data di iscrizione al registro ditte6 maggio 1994
addetti dichiarati nel 1997indipendenti: 1
dipendenti: 1

[ Estratto della visura del registro delle imprese di Catania, Vis3]
denominazioneC.S.M. (Consorzio siciliano manifatturiero)
attivitàservizi organizzativi e di formazione professionale
oggetto socialepromozione dell’attività dei consorziati per l’acquisizione di appalti pubblici e privati
forma giuridicaconsorzio con attività esterna
amministratore unicoGiuseppe Linguaglossa
sedeBronte, via Marconi
data di iscrizione al registro ditte19 febbraio 96
addetti dichiarati nel 1997indipendenti: 8
dipendenti: 9

In realtà è molto difficile sapere con precisione quanta gente lavora per un’azienda.
Per saperlo può essere utile chiedere ai diretti interessati, andando nella fabbrica del gruppo Catania che si trova appena fuori Bronte, proprio sotto l’Etna.
“Alla Bronte jeans lavorano più o meno un centinaio di persone. Alcuni cicli di lavorazione sono affidati all’esterno, per cui il totale di persone che lavorano per noi è di circa 300″, afferma Linguaglossa, che è un ingegnere dai modi gentili e dai ragionamenti razionali, cioè disumani [Interv1].
Si occupa di questioni tecniche ed organizzative, mi dice con orgoglio che la Bronte jeans è un’impresa all’avanguardia, che non ci sono problemi di sicurezza e che ha predisposto un ‘servizio interno’ per monitore i problemi e raccogliere le richieste delle lavoratrici.
Tutto a posto dunque? Formalmente sì. Ma i problemi veri sono due.
1. Al primo livello di subappalto è difficile che ci siano irregolarità vistose ed “eccessi” nello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma al secondo livello non si sa cosa succede. “All’esterno affidiamo alcune parti del prodotto finito, per esempio le tasche. Li affidiamo alle fabbriche dei dintorni, specie queste qui che abbiamo accanto e di fronte” [ibidem].
Linguaglossa nega che nella sua azienda ci sia lavoro nero e minorile ma ammette che “nelle altre piccole imprese della zona sì, il fenomeno è presente, anche perché sono ditte di imprenditori improvvisati” [ibidem].
2. Anche quando tutto avviene nei termini di legge, il sistema della produzione è ugualmente disumano. Le grandi imprese (Benetton, Levi’s, Armani) “forniscono i progetti, che sono tutelati dal segreto industriale. Quindi assegnano la commessa, indicando con precisione estrema le procedure di lavorazione.
“Il prodotto che esce deve essere lo stesso che farebbe Benetton in persona. Le indicazioni riguardano ogni aspetto, compreso il tipo di filo da usare e la tensione del filo. Sì, perché è diversa per ogni marca di jeans. Quindi ci occupiamo del taglio, dell’assemblaggio e della cucitura” [ibidem].
Tutto deve avvenire nei tempi stabiliti: è un contratto a cottimo, che determina una vera e propria corsa contro il tempo per terminare il lavoro puntualmente. E se questo non succede?
“Finora non è mai successo. Non so cosa accadrebbe, presumo che siano guai. Forse sono previste delle penali, ma non sono sicuro” [ibidem].
Il pericolo vero è il ritiro della commessa, lo spauracchio che viene agitato continuamente. Non si può dire che sia dignitoso il lavoro in queste condizioni. Ma non è tutto: per evitare tale tragedia nessun sacrificio viene risparmiato.
Le irregolarità e le forme estreme di sfruttamento sono direttamente causate dalla necessità di rispettare la commessa. Come abbiamo visto, per raggiungere questo scopo ci si affida anche ai subappalti a mini-imprese che non lavorano nel rispetto dei diritti. Oppure si ricorre agli straordinari. “So che quando c’è urgenza di consegna c’è gente che lavora anche la domenica” racconta Rossi [Interv3].
Mavica ci spiega un altro metodo: “Allora, ci risulta che il grosso delle aziende, a parte quelle che rispettano il contratto, fa un lavoro di questo tipo: consegnano buste paga intono alle 800-900mila lire, e sono soldi che effettivamente vengono dati alle lavoratrici, ma c’è un altro giochetto.
Vengono segnate un numero di giornate inferiori a quelle effettivamente lavorate. Cioè, formalmente non sono gonfiate, perché il saldo netto è lo stesso di quello percepito dalle lavoratrici. Però il numero di giornate segnate in busta è corrispondente al salario contrattuale.
Questo è solo uno degli esempi, perché poi le aziende per violare il salario contrattuale ne inventano 50mila!” [Interv2].
Da tutto questo, e da un punto di vista strettamente formale, Benetton (e per certi aspetti la stessa Bronte jeans) ne escono con le mani pulite e forse la coscienza a posto. Ma non possono dire di essere innocenti. Anche perché per gli stessi sub-fornitori non c’è una scelta diversa nell’attuale sistema, come ammette Linguaglossa: “abbiamo pensato di metterci in proprio, ma non è possibile metterci in proprio e sfidare col nostro marchio le multinazionali: il mercato ci schiaccerebbe” [Interv1].

“Questa è una persona molto pericolosa…”
“Ho lavorato per circa un mese senza essere messa in regola, poi dopo un mese, mi hanno messa in regola e ho continuato. [E però] i problemi c’erano perché nella busta paga risultava un prezzo quando a noi ci pagavano a… al limite ci pagavano a 16 mila lire più 3 mila lire di premio se non mancavi niente in un mese, perché una volta che tu mancavi un giorno al mese ti toglievano le 3 mila lire, che riguardava tutto il mese” [Interv4].
Si tratta della testimonianza, raccolta da Radio Popolare, di una lavoratrice della Bronte jeans ingiustamente licenziata. Il racconto delle condizioni di lavoro è riferito ad alcuni anni fa.
In pratica nella busta paga era dichiarata una cifra superiore a quella percepita effettivamente? “Sì, io nella busta paga avevo dichiarato le 50 mila, le 60 mila quando io invece ne prendevo solo 19 mila senza mancare niente al giorno. [Nella busta paga c’era scritto] circa 1 milione, 1 milione e 200 mila, una cosa del genere”.
E invece, ogni fine mese, quanto prendeva effettivamente?
“450, 500 mila lire per 8 ore al giorno, in più lo straordinario se serviva, la sera oppure i sabati lavorativi. Lo straordinario veniva pagato il 33% in base all’ora” .
E tutte trattate in questa maniera? “Sì, sì. Tutte allo stesso modo, non c’era preferenza”.
Come mai lei ha accettato queste condizioni?
“Mi sono sempre lamentata per quanto riguardava le buste paga; però mi dicevano che le condizioni erano quelle se volevi starci ci stavi, se no dovevi licenziarti tu. Siccome io ero una di quelle che non volevano licenziarsi personalmente ho cercato sempre loro che, cioè che sbagliassero sempre i datori di lavoro. Tutti, datori di lavoro, ragionieri, tutti la stessa cosa ti dicevano”.
E quindi lei aveva una sorta di ricatto, o accettava quelle condizioni oppure la licenziavano… “Eh sì. Io mi sono lamentata subito perché il primo mese che ho lavorato non ho preso nemmeno una lira. Perché quel giorno ci hanno detto che c’erano problemi per quanto riguardava i pagamenti e ci hanno rinviati al prossimo mese. Io mi sono lamentata subito. Ho detto: guardi, è già da un mese che lavoro e come prima esperienza andiamo proprio bene…”
E poi dopo, quando ha scoperto che i soldi erano di meno nella busta paga rispetto a quello che era dichiarato? “Non ancora ero in fabbrica e io ho già messo l’avvocato. Abbiamo avuto una sentenza. Anche se loro [i dirigenti] parlavano, per me era una cosa normale, perché io mi richiamavo sempre ai miei diritti, non avevo paura di niente”.
Avete fatto uno sciopero alla Bronte. “Eh sì. Quello sciopero… ci hanno mandato tutte a casa, ci hanno buttato pure i carrelli addosso. I direttori, quelli che dirigevano la fabbrica. Eh sì, ci hanno mandato fuori dal cancello perché noi eravamo dentro la fabbrica per non lavorare, perché volevamo i nostri diritti, e ci hanno buttati via. Ci sono state delle minacce di licenziamento, però a me personalmente no. [Dopo lo sciopero] sono state mandate a casa un paio di persone, sì. A me mi hanno licenziata. Per me non era una cosa da… il lavoro ormai ce l’avevo e me lo tenevo perché io ci lavoravo, ma non per passare il tempo, andavo a lavorare veramente perché avevo bisogno di lavorare”.
L’hanno licenziata? “Sì”. Con che motivazione? “Non si sa”. Che cosa è successo? Lei un giorno è stata chiamata e le hanno detto: basta, domani non viene più?
“No, a me mi hanno mandato un telegramma. Sì, un telegramma in cui mi dicevano: da oggi lei non fa parte più della nostra azienda. Perché? I motivi sono tanti. Una volta che una si sposa, là dentro non deve più starci, guardi. E’ questo qua. Specialmente quando ti richiami ai tuoi diritti. Alla fine la scusa è quella del matrimonio”.
Nel senso che lei è stata licenziata con la scusa che si era sposata? “Non proprio con quella scusa. Loro hanno messo solo: giusta causa, e non lo so nemmeno io né il mio avvocato”.
Cioè, nessuno le ha ancora spiegato perché è stata licenziata? “No”. Ora lei non lavora più. “Non si riesce più a trovare un altro posto, perché una volta che parli di udienze ecc., tutti dicono: ti chiamiamo, però poi alla fine non c’è niente […] Allora si trattava Benetton, Armani, Moschino, e poi alla fine Levi’s. […] Io sto lottando per riavere il mio posto di lavoro ma non per qualcosa…per questione di principio, dopo di che, una volta arrivata là, io dico, sì ho vinto ma adesso mi ritiro io personalmente”.
Il 10 aprile ‘98, una esponente del “Coordinamento Nord/Sud” di Milano riceve una telefonata dall’on. Franco Catania.
“Lei è senz’altro al corrente della Bronte jeans. L’interessamento del vostro coordinamento potrebbe nuocere alla nostra azienda. Tutto ciò che sta succedendo è una bolla di sapone gonfiata dai mass-media. Su 700 dipendenti solo 4 o 5 minori di 15 anni che non avevano il nullaosta [?].
“C’è la dichiarazione di una sola persona che è totalmente falsa. Questa persona è molto pericolosa, è una ragazza che sfida gli uomini, mette le mani addosso. Proviene da una famiglia povera, sono in 16 in due stanze. I due nipoti, che lavorano nella nostra azienda, hanno due macchine e non parlano con la zia. Tutto ciò per dirle che tipo di ragazza è. La ragazza non ha più rapporti con noi. E’ l’unica vertenza, noi non abbiamo mai avuto problemi. Noi il 25 maggio faremo ricorso.
La Bronte jeans oggi dà un sostegno all’economia locale. Sul Sole-24 ore la Bronte jeans chiede personale. Noi assumiamo con i contratti di formazione. Se lei telefona alla CGIL le diranno come opera la nostra azienda. Il sindacato però non ci è amico, è a favore del dipendente.
Luciano Benetton in persona ha dato molta importanza al vostro coordinamento, mi ha inviato copia della vostra presentazione, ha già organizzato una visita a Bronte, ci ha anticipato che verranno a vedere.
Sono preoccupato non perché siamo dalla parte del torto, noi abbiamo tutto in regola, applichiamo i contratti collettivi, la sicurezza. Ma se per assurdo il 25 maggio la ragazza vince la causa, la Benetton per non avere più rogne potrebbe decidere di rescindere il contratto con la Bronte jeans. Noi abbiamo fatto investimenti per i macchinari, rispettiamo le esigenze qualitative, ma la Benetton potrebbe facilmente portare il lavoro all’estero dove già ha laboratori: Tunisia, Romania, Ungheria.
Con la Benetton mi trovo bene, quello che ci dà ci consente di pagare gli operai, i trasporti. In altri momenti avrei potuto avere commesse da altri, ma ora il mercato è in crisi, quindi non posso permettermi di perdere le commesse di Benetton, nel qual caso mi troverei costretto a licenziare 100 operai.
Il vostro Coordinamento che si propone di difendere i diritti dei lavoratori, in questo caso indirettamente avrebbe partecipato al licenziamento di 100 operai.
Noi vogliamo organizzare una vostra gita/visita nell’azienda di Bronte, a nostre spese, così potreste vedere come tutto funziona, poi convinti, dovreste scrivere due righe a Benetton dicendo che la Bronte jeans è a posto e che quindi per voi il caso è chiuso. Se non venite, noi vi possiamo spedire l’elenco dei dipendenti con i relativi indirizzi e numeri di telefono così potete interrogarli; vi possiamo spedire anche i libri paga così potreste controllare; l’importante è che voi spendiate due parole a nostro favore con Benetton che vi tiene molto in considerazione” [Ctn].
Le denunce dell’operaia licenziata sono roba del passato o conservano la loro attualità? Alla domanda se è normale che si mettano in busta paga 500 mila lire al posto del salario legale, Catania risponde “500 mila lire? No, 800 mila…” [ibidem].
Il 30 gennaio del ‘98, Luciano Benetton in persona aveva risposto via lettera ad una precedente comunicazione del “Coordinamento Nord/Sud” che, prendendo spunto dall’intervista di Radio Popolare, lamentava le condizioni di lavoro nelle imprese del sistema Benetton.
“Tengo a evidenziarLe che mi ha particolarmente sorpreso l’assoluta certezza che traspare dal Suo scritto nell’individuare una interpretazione autentica dei fatti, delle loro connessioni, delle relative motivazioni, interpretazioni dovute – voglio sperare – all’aver trascurato di verificare la fondatezza di quanto sopra richiamato attraverso una semplice ricerca di riscontro presso i numerosi e diversi interlocutori del nostro sistema pur essendo questi ultimi portatori di diversi interessi, ma comunque in grado di correggere la macroscopica disinformazione su cui poggiano le Sue considerazioni”.
La lettera si concludeva in questo modo: “sarò lieto di aiutarLa a correggere le cattive informazioni di cui dispone per consentirLe di assolvere meglio all’incarico che ricopre nella Sua organizzazione. Con i migliori saluti. Luciano Benetton”.

La libera impresa (coi soldi dello Stato) e l’imbroglio del mercato
“Da alcuni anni è stata costruita nella zona del Santissimo Cristo una zona industriale e artigianale, dove sono stati costruiti dei capannoni che l’amministrazione comunale ha affidato ad alcune imprese. Ci sono falegnami, così come industrie come quelle dei jeans.
Devono pagare per 10 anni 200mila lire al mese. Dopo 10 anni questo capannone resta agli imprenditori e agli artigiani. Ci sono state anche delle questioni su questi capannoni. L’amministrazione comunale a cui mi riferivo è quella precedente: c’era lo stesso sindaco, che è un uomo di centro, ma era sostenuto da uno schieramento diverso da quello attuale” [Interv3].
“Nel 1993 c’è stato uno sciopero in una impresa del gruppo Catania, motivato dai ritardi nel pagamento delle spettanze. Finì con un accordo all’Ufficio provinciale del lavoro.
Sappiamo che in passato ci sono state indagini, e che sono state trovate irregolarità consistenti ed elevate multe. Violazioni contrattuali. E quindi è vero che il quadro adesso è abbastanza accettabile, anche se non idilliaco: ci sono comunque, anche se in maniera non accentuata, violazioni contrattuali, sulle ferie, sui pagamenti.
Questo non grazie al fatto che il gruppo sia all’improvviso diventato immacolato e vergine dal punto di vista del rispetto dei diritti dei lavoratori, ma è dovuto al fatto che si sono fatti finanziare questi strumenti: sono a centinaia, credo che quasi tutti gli addetti del gruppo sono con borse lavoro, contratti di formazione, o cose del genere.
Rispetto alle aziende del nord c’è un costo del lavoro che è valutabile nell’ordine del 30 % in meno, e poi è per questo che mandano le commesse al Sud. Questo è il dato.
Fino a quando non hanno avuto questi strumenti che gli hanno abbattuto il costo del lavoro, anche da quello che sto dicendo, gli scioperi, le vertenze, grosso modo la situazione di violazione marcata dei contratti e delle leggi era omogenea in tutte le aziende di Bronte” [Interv2].

Il settore tessile nell’area di Bronte [Tab]
c.f.l. /97borse lavoro /98p.i.p. /98totale
Bronte jeans (Franco e Mario Catania)601050120
Difesa srl (chiusa)20101040
Rossonero (Bertolone)901030130
MaBro (Mario Catania)60666
Artigianato Tessile (Fabio Catania)601070
Consorzio Siciliano Manifatturiero4812
Dima conf. (Catania)2020
Fashion manufactoring33
Barbagallo77
Wolf (Catalano – Salamone)1212
Warol (Catalano)
Les conf.
Lonav
Bronte industr. conf.
Bertino
Calì Alfio
Teoria conf.
Elledue srl – Elledue moda

La tabella conferma quanto detto: le imprese della prima fascia (le prime 10; e dal numero 1 al numero 7 abbiamo le ditte del gruppo Catania) possono contare su centinaia di posti a contributo statale o regionale: per il 1997 i contratti di formazione lavoro (c.f.l.), dal ‘98 le borse lavoro della legge Treu ed in più, per la Sicilia, i PIP della legge Briguglio, che per alcuni anni abbuona i contributi per i lavoratori. Il gruppo Catania beneficia di altri 70 PIP oltre quelli indicati in tabella. Insomma, buona parte della busta paga che dovrebbe versare è a carico della collettività. Sembrerebbe l’ennesimo caso di imprenditoria assistita, aggravata da un’ombra di conflitto d’interessi: Franco Catania è contemporaneamente deputato alla Regione e imprenditore che beneficia dei contributi regionali e statali.
Ed anche lo stesso meccanismo economico è ben lontano dai valori tanto decantati del ‘rischio d’impresa’ e del ‘libero mercato’.
Non c’è libera concorrenza nel mercato dominato dal poche multinazionali che operano di fatto in regime di oligopolio, e sono loro a decidere dei prezzi, a controllare la distribuzione, ad impedire nei fatti l’ingresso di nuovi concorrenti.
Ed anche le imprese contoterziste, una volta ottenuta la commessa, sfruttano una rendita parassitaria. L’unica concorrenza si ha per ottenere la sospirata commessa: ma qui la bravura consiste nell’offrire condizioni più appetibili, e cioè un costo del lavoro più basso. Vince chi sfrutta di più e meglio i propri lavoratori.
“Benetton, Rifle, Moschino, Armani e tutte le altre aziende committenti sono quelle marche che vendono il capo o il jeans a 100-200mila lire nella boutique della città e qui invece pagano [poco o niente]…
Anche perché c’è una concorrenza spietata per prendersi le commesse, e quindi [le ditte contoterziste] hanno un margine parassitario di rendita, perché il profitto non nasce dalla produzione, qui c’è un terzo che lavora e si lucra sulla differenza tra il costo ed il ricavo, che è altissima. In questo senso parlo di rendita parassitaria”.
Mavica continua: “Noi abbiamo proposto a queste aziende di darsi un minimo di autonomia, di consorziarsi, di crearsi un mercato. A parte l’arretratezza culturale, mi rendo conto che non c’è uno spazio di mercato. Ovviamente ormai Benetton ha il monopolio del terziario, delle catene distributive. E in più c’è la minaccia per cui l’attività produttiva se la possono dislocare in Ungheria o… E’ la minaccia ricorrente, che portano a Sud o ad Est la produzione” [Interv2].
Una operaia, licenziata ingiustamente, ha sporto denuncia contro la “Brontejeans”. In questo modo è iniziato un duro confronto tra una donna senza lavoro ed il principale concentramento di potere della zona.
Con la sentenza n. 26 del giugno 98 la pretura di Bronte ha condannato l’azienda alla reintegrazione del posto di lavoro ed al pagamento della differenza retributiva (la cifra ammonterebbe a svariati milioni).
In questo modo è stato esplicitamente riconosciuto che il licenziamento era ingiusto e che all’operaia è stato sottratta una parte – notevole – di quanto le spettava. L’avvocato che ha seguito la vicenda per conto del sindacato si trova adesso ad affrontare il ricorso in appello da parte della Brontejeans.
Ma il gruppo Catania è impegnato in altri due procedimenti, che stavolta riguardano la “Katia confezioni” : l’oggetto è ancora la differenza retributiva.
Quest’ultima ditta è stata chiusa da qualche tempo. Ed ecco ancora un altro problema: la brutta abitudine dei tessili brontesi di aprire, chiudere, riaprire, modificare nomi e sigle.
Attualmente, il sindacato segue ben 16 controversie legali tra aziende e lavoratrici. Sette contro la “SAB confezioni”, dichiarata fallita il primo aprile di quest’anno; tre riguardano il gruppo Catania; le altre piccole aziende, spesso chiuse.
In qualche caso i procedimenti sono in atto. Ma quasi tutti si sono conclusi con la vittoria delle lavoratrici. La vicenda-tipo è la seguente: l’azienda opera lungamente ai margini della legalità, quindi licenzia per motivi vari una lavoratrice. Quest’ultima si rivolge al sindacato e chiede che le siano riconosciute le spettanze dovute.
La sentenza è in genere favorevole. Se nel frattempo l’azienda non è scomparsa o non è fallita è possibile liquidare il denaro.
Già nel ‘94, un altro industriale brontese, amministratore unico della Faby confezioni, fu condannato per estorsione, perché toglieva 300mila lire al mese dalla busta paga delle operaie, minacciando il licenziamento in caso di proteste.
Subito dopo la condanna, il titolare decise di chiudere la fabbrica, licenziando le lavoratrici senza rispettare le procedure di mobilità.
Quindi le invitava ad andare a lavorare presso la Luca Salvatore, un’altra azienda a lui intestata, dove operavano operaie regolarmente assunte insieme ad altre in nero. L’azione di denuncia della Uil rendeva di pubblico dominio la vicenda. Da allora, però, il sindacato non ha ritenuto di fare azioni analoghe.
A Bronte – pochissime le eccezioni – si respira un clima di timore generalizzato. Più ci si avvicina ad argomenti scabrosi (il lavoro minorile, il lavoro nero, qualsiasi cosa che riguardi i fratelli Catania) più si avverte fastidio, insofferenza e spesso paura.
Qui il sistema vigente è l’economia del ricatto. Gl’imprenditori locali minacciano licenziamenti, le multinazionali minacciano il ritiro delle commesse.
Settecento ragazze vivono appese ad un filo. Questi sono solamente i casi resi pubblici da procedimenti giudiziari, ma tutto lascia immaginare violazioni permanenti e soprusi sistematici. In questo quadro, qual è il ruolo delle istituzioni pubbliche e dei grandi sindacati? Bisogna sottolineare che gli imprenditori violano sempre più spesso le leggi vigenti, rompendo in tal modo il patto sociale che vorrebbe tutti – anche i privilegiati – formalmente sottomessi alle stesse regole.
Se lo Stato non sanziona tali violazioni le legittima di fatto, affermando l’inesistenza di una legalità universalmente valida e – al contrario – la validità della legge del più forte.
Il tentativo delle istituzioni pubbliche e dei sindacati di ottenere l’”emersione” del lavoro nero è stato giudicato come una saggia strategia per sanare un’economia “sporca” finché si vuole, ma viva e reale. L’emersione – così come si sta configurando – rischia di premiare i furbi, favorire l’ingiustizia, celebrare il furto ed insegnare la disonestà.
“L’avvenuto riallineamento estingue i reati previsti da leggi speciali in materia di contributi e premi e le obbligazioni per le sanzioni amministrative e per ogni altro onere necessario. Sono fatti salvi i giudizi pendenti promossi dai lavoratori ai fini del riconoscimento della parità di trattamento retributivo”, dice un articolo del celebre “pacchetto Treu” [RIAL, 1].
Il condono nell’area etnea è un trofeo assegnato dallo Stato agli sfruttatori. Gli imprenditori del distretto brontese, non contenti delle concessioni dei sindacati Cgil-Cisl-Uil, hanno rifiutato le proposte fatte nell’estate del ‘98 (restituzione in un anno del 5% della differenza tra salario di fatto e salario previsto dal contratto nazionale, 100 % della retribuzione in 4 anni [RIAL2,5]), pretendendo condizioni ancora più favorevoli.
Le aspettative degli imprenditori sono state alimentate dalle promesse di sanatoria fiscale e contributiva espresse dal ministro del Lavoro Treu [COR 2 aprile 1998], che intende evidentemente proseguire la tradizione italiana dei condoni.
Ci troviamo così di fronte una scena surreale, coi ladri in doppiopetto che discutono delle condizioni di riconsegna della refurtiva.

Chi ispeziona gli ispettori?
“Ogni mese la Levi’s ci manda gli ispettori. Le ispezioni di Benetton sono meno frequenti, ma ci sono ugualmente” dice il consulente del gruppo Catania [Interv1].
La Levi’s è tra le primissime multinazionali ad essersi dotata di un codice di autoregolamentazione. Nike, Reebok ed altre hanno fatto lo stesso.
La decisione della Levi’s fu esemplare per il movimento dei consumatori, perché determinata da una campagna di stampa che denunciava comportamenti scorretti della multinazionale in Messico ed in Asia. Levi’s si impegnava a non subappaltare la propria produzione a ditte del Sud del mondo che ricorrono al lavoro minorile, che ostacolano la libertà sindacale e che violano i diritti umani [G&P n.13/14].
Tutte le multinazionali cercano di controllare l’applicazione di questi codici tramite ispezioni, formalmente molto rigorose. Ascoltiamo ancora la testimonianza delle ispezioni alla Bronte jeans: “Le ispezioni della Levi’s sono molto severe, controllano le condizioni lavoro, verificano tutto, anche le condizioni dei bagni. La minaccia, se tutto non è in ordine, è di ritirare la commessa” [Interv 1].
Il problema delle ispezioni ci conferma la validità delle questioni già sollevate: primo: non si verifica ciò che accade nei subappalti ulteriori; secondo: il lavoro come “corsa contro il tempo” è non solo tollerato ma direttamente causato dal tipo di commesse delle multinazionali; terzo: la minaccia perenne di ritiro delle commesse provoca panico ulteriore e condizioni psicologiche – diciamo così – non ottimali. Anche perché il lavoro è sempre frenetico e turbato dal ricatto permanente. Di fronte al pericolo maggiore, ogni condizione viene accettata.
“La Benetton basa la sua attività su un sistema produttivo decentrato” ammette Umberto Dardi, direttore relazioni industriali di Benetton, “[…] l’azienda, da piccolo maglificio è progredita diversificando le produzioni fino ad arrivare agli attuali 82 milioni di capi. Le fasi più critiche vengono realizzate all’interno e il resto in economia di scala all’esterno […].
In Italia contiamo su una rete di 600 aziende in conto terzi (artigiane e a dimensioni industriali) che impiegano un totale di 12/13 mila addetti (il dato è oscillante perché dipende dalla tipologia del prodotto preminente in un dato momento sul mercato).
Esiste un rapporto molto stretto fra il sistema aziendale e i terzisti. […] Per l’azienda il contoterzista è un “partner” perché se il rapporto fosse conflittuale non sarebbe possibile produrre. Il rapporto deve essere però reciprocamente conveniente. Benetton chiede “affidabilità”, cioè rispetto degli standard qualitativi e dei tempi di consegna e “flessibilità”, cioè capacità di rispondere velocemente alle richieste del mercato adattando la produzione e gli orari di lavoro alle esigenze di stagionalità. Se il terzista non è affidabile, diventa “ruota di scorta” e con Benetton “non lavora più”. L’azienda chiede questo e dà in cambio la certezza e la puntualità del pagamento” [Bnt3].
Il 27 giugno 1997 un gruppo di piccoli imprenditori in conto terzi manifestavano proprio davanti alla sede di Benetton. Lamentavano un malessere diffuso: pagamenti dai committenti con scadenze fino a 180 giorni, ordinazioni per telefono senza nessun vincolo contrattuale, produzioni per grandi quantitativi in tempi strettissimi [Mnf 28 giugno 97].
Interrogato su una proposta di legge di Rifondazione che prevede la figura giuridica del subfornitore, l’obbligo del contratto in forma scritta, l’indicazione dei tempi massimi di pagamento, il versamento dell’IVA dopo l’incasso, Dardi si accalora e afferma: “è una legge inutile che darà luogo a contenziosi legali in un sistema dove i tribunali civili già non funzionano; prima i rapporti si regolavano direttamente, e se i rapporti non funzionano, si scindono…”.
Va bene, ma allora quelli che protestano? “I terzisti hanno manifestato davanti alla sede di Benetton solo per avere una cassa di risonanza sui giornali, non erano neppure di Treviso. Se manifestavano davanti a un piccolo maglificio non se li filava nessuno. Ho sfondato il picchetto [!] e mi sono reso disponibile a discutere con loro, ma non hanno voluto” [Bnt3].
Secondo Adriano Linari, della Filta-Cisl nazionale, il sindacato è presente solo in 100 delle 600 aziende che operano in conto terzi per Benetton.
La multinazionale di Treviso, sollecitata dal Coordinamento lombardo “Nord-Sud del mondo”, ha annunciato una ispezione approfondita nella fabbrica della Bronte jeans, per verificare il rispetto dei contratti e delle leggi, le norme antinfortunistica, la sicurezza sul lavoro, la salute delle lavoratrici.
“Come Cgil, negli incontri noi abbiamo chiesto alle multinazionali di vigilare realmente sul rispetto degli accordi. Lo sappiamo che in parte è una pretesa, perché gli chiediamo di abbattere il loro margine di rendita parassitaria, però anche sul piano formale hanno delle responsabilità dirette o indirette su queste violazioni”, dice Mavica [Interv2].
Occorre aggiungere il problema dell’indipendenza delle ispezioni. “La multinazionale e l’azienda ispezionata hanno gli stessi interessi convergenti ed è per questo che a loro non piacciono né il sindacato né gli organi ispettivi” [ibidem].
“La prima multinazionale ad avere adottato un codice di condotta è stata la Levi’s nel 1992. Poi sono seguite Reebok, Nike, Mattel, Artsana”, dice un documento del Centro nuovo modello di sviluppo.
“Ormai sono veramente tante le imprese che hanno un codice, ma dai paesi produttori continuano a giungere denunce di gravi abusi. […] I codici di condotta non servono a niente se non esistono dei sistemi di controllo. Le multinazionali si difendono dicendo che esse hanno i sistemi di controllo. Nike, ad esempio, argomenta di aver ingaggiato 800 ispettori, ma finché saranno pagati da lei e dovranno rispondere a lei, non daranno nessuna garanzia. […]
Per questo, varie realtà stanno studiando un sistema di controllo indipendente da proporre alle imprese. I gruppi che hanno un progetto in fase più avanzata sono la Clean Clothes Campaign (coordinamento dei gruppi europei che si battono per condizioni di lavoro dignitose nell’ambito dei prodotti tessili e calzaturieri ) e il Council on Economic Priorities (un gruppo statunitense che svolge indagini sul comportamento delle imprese per orientare i consumatori e i risparmiatori da un punto di vista etico).
Le loro proposte sono molti vicine e prevedono: un codice standard da rispettare, linee guida per l’attuazione del codice, linee guida per l’individuazione di imprese private e ONG a cui affidare il controllo, criteri di certificazione” [Cnms].
“Le ‘grandi firme’ dell’abbigliamento italiano che esportano in tutto il mondo sono a conoscenza dello sfruttamento del lavoro minorile in questo settore? […]
Se l’esportazione dei nostri prodotti si basa sullo sfruttamento di queste realtà, sarebbe meglio che queste ‘grandi firme’ non uscissero dal nostro Paese”. E’ arrivata anche in Parlamento la storia di Bronte, per merito di una interrogazione del senatore dei Verdi Natale Ripamonti.
Il lavoro minorile – tra l’altro – è solo l’aspetto più appariscente di un sistema di sfruttamento scientifico che non risparmia certo gli adulti. I nomi delle grandi imprese coinvolte sono state appena sussurrate sui mass media, nascoste tra le righe degli articoli e nominate in gran fretta alla televisione.
“Penso a casi recenti, come quello di Bronte e di nullanafredda, perché i giornali hanno parlato così poco dei committenti che erano in rapporto con queste aziende? C’è stato sostanzialmente un silenzio che non comprendo”, si chiede Cofferati, segretario della Cgil [Cor 7 gennaio 98].
Una domanda tutto sommato ingenua: basta sfogliare un qualsiasi giornale per notare ipocrisie e contraddizioni. E non è neanche difficile capirne le motivazioni, se si pensa alla quantità di denaro che i media incassano dalle pubblicità di Benetton o dei produttori di jeans. Proprio nel numero in cui pubblica i risultati delle indagini nel catanese, “la Repubblica” fa uscire un reportage di due pagine intere, in chiave celebrativa, sulla Benetton, nell’ambito dell’inchiesta “Azienda Italia: viaggio tra gli imprenditori alla prova dell’Europa” [Rep 17 dicembre 97].

Benetton investe in Sicilia
E’ sbarcato più volte in Sicilia, il signor Benetton. E sempre ha trovato servilismo e porte spalancate. La Benetton per i Grand Prix del 1996 è stata presentata nel teatro greco di Taormina, dopo un tira e molla con la Soprintendenza, che alla fine accetta la presenza delle autovetture in un luogo del tutto non idoneo. L’unica condizione posta è quella dei motori spenti!
Sono presenti Flavio Briatore e i nuovi due piloti Jean Alesi e Gerard Berger, oltre a madrine e testimonials del mondo dello spettacolo. Ci sono anche Luciano ed Alessandro Benetton ed il terzo pilota Vincenzo Sospiri, campione del mondo di Formula 3000, nato a Forlì ma residente a Montecarlo [Gaz 5 febbraio 96].
In occasione dell’apertura del megastore Benetton a Messina, il “Giornale di Sicilia” dedica un articolo a tutta pagina della cronaca cittadina al “mitico Luciano” che “crea altri dieci posti di lavoro” [Gds 8 novembre 97]. Secondo la “Gazzetta del Sud”, che dedica meno spazio ma usa un tono un po’ più servile, i nuovi posti di lavoro sono “una ventina” e “costituiscono una boccata d’ossigeno sul fronte dell’occupazione nella nostra città (!) che su questo versante registra un ‘profondo rosso’ allarmante” [Gaz 8 novembre 97].
L’assessore comunale al commercio ed un consulente della giunta provinciale si sono sentiti in dovere di partecipare all’inaugurazione di quello che per i quotidiani locali è il “più grande negozio Benetton d’Europa” e “uno dei più grandi del mondo” [ibidem]. La superficie di 1500 metri quadri comprende due piani: quello superiore è diviso con il punto vendita della Nike.
Ma l’aspetto più significativo della presenza Benetton in Sicilia sono ovviamente le commesse.
Il materiale, la stoffa che serve a fabbricare i capi Benetton, proviene da varie parti del mondo. Le imprese che ottengono il subappalto hanno il compito di “assemblare” la materia prima – in questo caso i tessuti – e consegnare il prodotto finito.
Ma i tessuti sono inviati direttamente da Benetton? “No”, risponde Linguaglossa della Bronte jeans, “siamo noi che li andiamo a prendere dalle parti di Ravenna, a spese nostre. Ci siamo organizzati con fantasia alla napoletana; o alla siciliana: usiamo il trasporto via nave, insieme alle aziende vicine. La nave è un mezzo valido di trasporto, dividiamo le spese con le altre aziende locali, e poi siamo anche tutelati dal punto di vista dei furti” [Interv1].
I furti, la sicurezza. La questione è sollevata sistematicamente ogni volta che si parla di investimenti degli industriali, specie settentrionali, nel Mezzogiorno. E’ un problema non da poco, visto che ci troviamo in una zona al confine tra i regni di alcuni tra i maggiori clan mafiosi della Sicilia. Possibile che un’azienda che lavora per multinazionali come Benetton non ne sappia nulla? “Ma la Bronte jeans non ha mai avuto problemi di questo tipo”. Linguaglossa ci offre la versione dell’isolafelice: “nessun problema di sicurezza del territorio, mai avuto problemi di questo tipo” [Interv1].
“Io no ho elementi certi” afferma invece Mavica, “ma ovviamente ritengo che la questione del racket interessi anche le aziende tessili, perché è impensabile che a Randazzo [a pochi chilometri da Bronte] il macellaio chiude perché c’è il pizzo (e stiamo parlando del macellaio che ha un reddito x) e poi a Bronte (dove c’è un fatturato di tre miliardi) non ci sia l’interesse di gruppi malavitosi o della mafia.
Non abbiamo riscontri. Denunce, meno che mai. Anche se c’è, e io ritengo che c’è, la faccenda del racket non esce fuori. Non ci sono denunce, né formali né informali. Da quello che sappiamo noi non ci sono indagini in questo senso, ma riteniamo che sia un settore interessato dal fenomeno.
“L’area di Bronte è un crocevia tra i Nebrodi e la zona della Piana di Catania, quindi tra Tortorici dove ci sono gruppi mafiosi come i Bontempo Scavo, e poi il triangolo della morte Adrano-Biancavilla-Paternò, con i gruppi che sono saliti agli onori della cronaca, l’ex gruppo Alleruzzo” [Interv2].
La sentenza del processo “Orsa maggiore” contro la mafia catanese descrive così il controllo del territorio realizzato da Cosa Nostra:
“[Dalla metà degli anni ‘80 in poi, unendo il gruppo Santapaola,] insieme con quelli del clan del Malpassotu esistenti già da qualche anno, l’organizzazione riuscì a “radicarsi” sempre più sul territorio, realizzando un controllo dello stesso in modo penetrante e diffuso.
Tale controllo venne suddiviso tra l’organizzazione del Malpassotu e quella del Santapaola, affidando alla prima principalmente il controllo del territorio dei comuni pedemontani della provincia catanese, tradizionale “dominio” del clan del Malpassotu, e all’organizzazione del Santapaola il controllo del territorio cittadino, nonché dei paesi della riviera catanese” [Om, 288].
“Il fatto che formalmente non si parli di Bronte come di un posto dove è ubicato un gruppo malavitoso maggiore non significa che Bronte non sia oggetto di presenze e di interessi malavitosi. Io non penso che onestamente ci sia qualcuno che possa sostenerlo seriamente.
L’amministrazione comunale, oltre che sul lavoro minorile, dovrebbe intervenire per promuovere un’associazione antiracket. Le associazioni di categoria come la Confcommercio, in questo senso, non mi sembra che siano molto attive. Capisco le difficoltà enormi, ma c’è comunque un problema di segnali. Perché io ritengo che c’è una influenza significativa di gruppi malavitosi anche per quello che riguarda il settore [tessile].
Non ci sono riscontri. Ma a rigor di logica e da quello che si sente, non è serio dire che [le aziende] non sono interessate” [Interv2].
Sarebbe davvero mostruoso che il sistema del tessile di Bronte avesse accettato di pagare dei costi aggiuntivi alla criminalità rifacendosi parallelamente sui salari. E sarebbe ancora più mostruoso – anche se si tratta solo di una ipotesi che deriva dagli elementi raccolti fin qui – un patto col diavolo ad altissimi livelli che garantisce pace sociale e ‘tranquillità’ agli imprenditori.

Il lavoro sui Nebrodi
Il caso delle bambine di Bronte è diventato – per qualche tempo – famoso solo grazie ad una indagine dei carabinieri. Ma tutti concordano sul fatto che non si tratta di un caso isolato. Secondo le stime dei sindacati e dell’Inps, in alcune aree il sistema del subappalto e del lavoro in condizioni di sfruttamento sarebbe praticamente generalizzato.
Una di queste zone è la striscia che congiunge i comuni di Brolo e di Sant’Agata Militello, e poi più su fino ai casolari sparsi sui monti Nebrodi. Quest’area della provincia di Messina sarebbe una zona franca dove lo sfruttamento, anche di manodopera infantile, ha raggiunto livelli scientifici.
Il meccanismo è sempre lo stesso: le grandi aziende del nord subappaltano ad intermediari la produzione di camicie e maglie. Gli intermediari li affidano a fabbriche-fantasma di imprenditori sciacalli oppure al lavoro nelle abitazioni di famiglie povere.
“Moltissime aziende tessili del Nord sono coinvolte” afferma Giuseppe Briante, segretario provinciale Cisl per la provincia di Messina. “E col sistema del lavoro a domicilio i controlli sono difficilissimi”. Nino Presti della Cgil dice che il suo sindacato ha “spesso segnalato alla segreteria nazionale il fenomeno, chiedendo di non contrattare con le imprese tessili coinvolte, anche se indirettamente. Loro [le imprese tessili] sostengono che non possono sapere come viene svolto il lavoro, una volta subappaltato: ma dovrebbero comunque assumersene la responsabilità” [Rep 8 gennaio 97].
Un quotidiano nazionale ha raccolto la testimonianza di un bambino – lavoratore che potrebbe benissimo vivere in India e invece abita tra i casolari di un piccolo paese dei Nebrodi. Ha 13 anni, ha lasciato la scuola senza completare la seconda elementare e lavora anche 12 ore al giorno.
“Venne lo zio [l’intermediario locale] e mi disse di andare al magazzino, che mi avrebbero pagato. Ho cominciato a 100mila lire la settimana, adesso certe volte se lavoro molto arrivo a 200mila.
“Siamo una decina, molti vanno e vengono ma io resisto perché porto i soldi a casa; a volte anche mia madre riesce ad avere il lavoro. Ci nascondono nel sotterraneo, hanno paura degli sbirri. Ma loro non arrivano mai. Le elementari non mi piacevano, al magazzino mi trattano bene” [ibidem].
In tutta la provincia di Messina le aziende tessili sarebbero un centinaio, con circa tremila addetti, donne per la maggior parte, ed un volume d’affari che sfiora i 200 miliardi. Ovviamente si tratta di dati che non tengono conto del “sommerso”, cioè di tutte quelle micro-aziende più o meno clandestine che vivono al di fuori di ogni regola.
La situazione messinese sembra una copia di quella etnea, ma la chiusura, il muro di silenzio ed il terrore di perdere il lavoro sono ancora più presenti.
Da segnalare, tra le tante vicende significative, la “cittadella del tessile” di Sinagra, un distretto industriale generosamente finanziato dalla Regione siciliana e mai entrato in funzione anche a causa del fallimento della “Siaf”, l’azienda dei fratelli Mollica, gli imprenditori diventati celebri per ipotetiche relazioni con mafiosi e per gli incontri con l’ex sottosegretario agli Interni Angelo Giorgianni.
Esemplare, infine, è la storia della “Jeansud”, una impresa della zona di San Michele che produceva jeans per Benetton.
Di quest’azienda dell’area messinese non rimane più nulla. Dopo 10 anni di attività, ha infatti chiuso ed è stata dichiarata fallita. Il motivo del fallimento, secondo i sindacati, “è da rintracciare nei prezzi stracciati con i quali si doveva lavorare”. La concorrenza dei mercati orientali era spietata, ed ha portato ad una rincorsa ad abbassare i salari. Ma neanche questo è bastato, e la ditta, dopo anni di difficoltà, ha dovuto arrendersi [Gds 22 febbraio 98].

capitolo tre
LO SFRUTTAMENTO IN ARGENTINA 
“C’è chi crede che la terra gli appartenga…
Noi sappiamo di appartenere alla terra”
Proverbio Mapuche

“La justicia federal investiga el presunto desvìo de un rìo que pasa por una de las estancias que el grupo Benetton tiene en la Patagonia“. Il 25 febbraio del 1997 il quotidiano argentino Clarìn dà notizia di un’indagine aperta a Buenos Aires. Lo sfondo del reato si chiama El Maitèn, si estende per 122mila ettari ed è uno dei sette feudi che il gruppo di Treviso ha acquistato in Patagonia.
L’accusa, invece, riguarda el disvìo del Rìo Chubut, che nasce nella cordillera e va a morire nell’Oceano Atlantico. Il tratto di fiume in questione si trova, più o meno, a 90 kilometri da Bariloche. Il gruppo italiano avrebbe deviato il corso del fiume per migliorare il pascolo delle proprie pecore merinos, che producono la materia prima che sarà utilizzata per i capi d’abbigliamento destinati ai mercati di tutto il mondo [Cla 25 febbraio 97].

Un particolare insignificante
Ma le terre della Patagonia erano già abitate nel 1991, quando i fratelli Benetton acquistarono otto latifondi per un totale di 900mila ettari (più di 40 volte il territorio della capitale federale). Sette di questi territori sono ubicati in Patagonia. Il gruppo veneto sborsò 50 milioni di dollari.
Fu allora che se abriò una herida, si aprì una ferita, secondo la significativa espressione di un comunicato dell’organizzazione indigena Aukache [Auk].
Per prima cosa, nessuno si preoccupò delle conseguenze della deviazione del fiume sulle popolazioni a valle. Il nuovo corso del Rio avrebbe fornito pascoli verdi alle pecore di Benetton, ma nello stesso tempo gli effetti sull’equilibrio ecologico ed antropico sarebbero stati catastrofici.
Carlo Benetton, il minore della famiglia, ha l’abitudine di venire in Argentina tre o quattro volte l’anno. Tra i suoi compiti, analizzare la qualità della lana delle sue 300mila pecore [Viva, 24].
Gli italiani hanno reagito alle proteste degli indigeni con la prepotencia de todo terrateniente, la tipica prepotenza dei latifondisti, rifiutando persino di pagare al locale municipio un aumento delle tasse di proprietà.
Il comune di El Maitén e gli imprenditori italiani sono in conflitto per una questione di imposte che, in totale, non superano i 9mila pesos l’anno. Grazie ad efficaci pressioni, Benetton otteneva la sospensione del pagamento. Proprio quell’anno, il 1996, i profitti del gruppo raggiunsero i 162 milioni di dollari.
Una recente ordinanza ha disposto un aumento dell’imposta per i possessori di più di 2500 ettari. Così la quota è passata a 9500 pesos.
Miguel Guajardo, intendente di El Maitén, dice che “i Benetton vogliono pagare in ragione di 40 pesos per ettaro. Io dico che quelle terre valgono 100 pesos ed anche di più”.
Durante l’estate del ‘97, il Consiglio deliberante di El Maitén ha emanato una ordinanza che pone fine alla disputa. “L’unica cosa che hanno ottenuto i consiglieri è dare ragione ai Benetton”, dice Guajardo.
Nell’ufficio Benetton nel centro di Buenos Aires, il punto di vista è del tutto opposto. Josefina Braun, portavoce della multinazionale italiana, dice: “Sono loro che ci devono del denaro. Pretendono da noi il pagamento del 3 % annuo del valore fiscale della terra, quando il patto fiscale specifica che non si può pagare più dell’1,5 %. I nostri registri contabili ci dicono che in questo momento ci devono 70mila pesos”.
“Se si valutano le cifre in questione, la polemica sa più di risentimento politico o diffidenza tra locali e stranieri. E comunque rivela le difficoltà di convivenza tra argentini e stranieri nelle terre della Patagonia” [Viva, 25].

Prohibido pasar
La zona chiusa ai pescatori a Leleque è un’altra nulle di scontri e malintesi. “Non è giusto che i fiumi che si trovano dentro i suoi campi siano vietati agli abitanti locali. ci obbligano ad accedere alla natura in maniera furtiva”, si lamenta Enrique Cleri, presidente della Càmara de Prestadores de Servicios Turisticos del Chubut. “Ci stanno rubando la nostra identità di abitanti della cordigliera”. Guajardo aggiunge: “Hanno recintato buona parte del fiume e non si può entrare se non con un avvocato” [Viva, 25].
E’ certo che l’arrivo di questi nuovi padroni, in una terra dove ogni abitante è un ambientalista scrupoloso, dà per risultato una trama complicata.
“Noi non proibiamo di pescare, perché il fiume è dello Stato, però non lasciamo passare perché è proprietà privata”, dice Ronald MacDonald, amministratore del latifondo Leleque, nella provincia di Chubut.
Per accedere al Rio Chubut, che attraversa il latifondo, occorre attraversare circa 40 kilometri della terra dei Benetton. E chiaramente non è facile [ibidem, 24].
Carlos Vivoli, amministratore dei latifondi Benetton in Patagonia, propone un ragionamento molto più diplomatico rispetto a quello di MacDonald: “Non vogliamo avere problemi con nessuno. Chi vuole pescare può farlo. Possono usare il fiume ma non la terra, però sembra che la trota più grande si trovi sempre in un luogo più inaccessibile”.
Josefina Braun ci offre ancora una versione differente: “Facciamo passare alcuni pescatori senza tassarli, anche se gli altri lo fanno. In più, diamo uno spazio di terreno dove possono accamparsi” [ibidem, 26].
Ma i misfatti de los italianos non si limitano ad un solo latifondo: gli emissari di Benetton hanno preso possesso dei territori da sempre abitati dalla comunità india “Vuelta del Rìo“, in località Colonia Cushamen.
Con magnanimità, Benetton ha destinato una piccola porzione di terra (Reserva de la compañia) alle famiglie sgomberate.
Lo stravolgimento dei tradizionali assetti ambientali e sociali ha avuto conseguenze che non è difficile immaginare. L’organizzazione Mapuche – Telhuece “11 de octubre” ha denunciato che i membri della comunità “Vuelta del Rìo” vengono utilizzati dalla compagnia come mano d’opera a basso costo.
Duecento dollari al mese, per turni di lavoro che iniziano al sorgere del sole e terminano quando fa buio.
D’estate, non è raro il flagello della siccità. Allora, l’accesso alle acque del Rìo Lepa diventa l’unica risorsa di vita. Le organizzazioni indie denunciano che Benetton è arrivato a vietare la possibilità di utilizzare le acque del fiume con cancelli e fili spinati.

“Como proteger nuestra Patagonia”
L’ingombrante presenza di Benetton in Patagonia ha suscitato riserve e proteste anche in ambito istituzionale.
Carlos Maestro, governatore della provincia di Chubut, interviene sulla questione: “La Patagonia, che occupa un terzo del territorio nazionale, è oggetto di una riscoperta da parte degli stranieri. Cosa comprano gli stranieri? Comprano le terre migliori, senza limiti né ostacoli. Comprano le terre più belle, le più fertili, senza alcun problema.
“Quando i Benetton comprano un milione di ettari in Patagonia, comprano tutto. Nelle loro terre, ‘proprietà privata’, hanno fiumi, ruscelli, laghi, lagune, ricchezze forestali, minerarie, tutti i tipi di opzioni produttive. E’ una possibilità sognata da tutti i ricchi del mondo.
Mi immagino Benetton che racconta ai suoi amici italiani che qui si può comprare un milione di ettari senza nessun problema. Come dovranno sforzarsi per spiegare che nel mondo esistono luoghi così, talmente facili!
“E’ chiaro che non ho niente contro Benetton. I responsabili siamo noi. Vogliamo investimenti, ne abbiamo bisogno. Però investimenti che diano progresso al nostro popolo, non semplici acquisizioni di terre.
“Oggi i Benetton utilizzano negli allevamenti la metà del personale utilizzato dai precedenti padroni. Proclamano di aver piantato alberi per 3mila ettari, però dimenticano di aggiungere un particolare: lo hanno fatto col denaro elargito dalla provincia di Chubut, nel quadro della politica di riforestazione.
Così, noi argentini restiamo privi dello scenario in cui dovremmo essere protagonisti di un futuro migliore” [Viva3, 25].

La Patagonia alambrata
Nel 1996 furono realizzati più di 210 contratti di vendita per migliaia di ettari nelle cinque provincie che formano la Patagonia. Il New York Times titolò: “Patagonia: un nuovo campo da gioco per i ricchi” [Viva, 26].
Da qualche anno il feudo “La primavera” – 5mila ettari – è di proprietà di Ted Turner, noto come inventore della CNN e marito di Jane Fonda. La coppia si serve della tenuta per le vacanze. Charles Lewis, un altro miliardario statunitense, possiede 8mila ettari nella zona di Lago Escondido, tra Bariloche ed el Bolsòn.
Lewis, che è famoso come socio di Sylvester Stallone e Bruce Willis nella catena di ristoranti Planet Hollywood, proibiva l’accesso al lago. Dopo le proteste dei pescatori e di alcuni deputati provinciali e consiglieri comunali [Cla 5 febbraio 98], Lewis ha negato ogni divieto d’accesso, ammettendo però di aver installato lungo la strada una cabina di sicurezza e guardie con walkie talkies che controllano la zona [Viva, 28].
In totale gli stranieri possiedono più di un milione di ettari (Benetton, da solo, ne ha circa 900mila). I contrasti con le popolazioni locali non riguardano soltanto i Benetton ma un po’ tutti i nuovi proprietari della Patagonia. Anche perché i comportamenti dei latifondisti stranieri sono molto simili tra loro. Viva chiude la sua lunga inchiesta pubblicando le fotografie di tre cartelli sullo sfondo del cielo patagonico: su tutti e tre si legge “probriedad privada”, con le varianti “prohibido pasar” oppure “prohibido entrar”.
Il primo accoglie i visitatori delle tenute di Benetton, il secondo quelli di Charles Lewis ed il terzo di Ted Turner.
Il Còdigo Civil obbliga i proprietari terrieri a lasciare una via aperta al pubblico di 35 metri lungo un fiume o un canale. I latifondisti sostengono che quella strada serve a navigare (cioè – ad esempio – per assicurare una barca alla costa tramite una fune) e non per camminare o pescare [Viva, 27].
La legge tace del tutto sul modo di raggiungere i fiumi. “E’ come se ci dessero un uovo dicendoci di mangiare il tuorlo senza toccare il guscio”, si lamenta don Cosme, un patagonico che si esprime con efficaci metafore gastronomiche [Viva, 28].

Mercato mondiale contro economia locale
L’abbandono dei latifondi della provincia di Santa Cruz chiarisce il grave dramma sociale che si nasconde dietro l’apparizione dei potenti investitori stranieri. Si tratta di una zona dove l’attività principale è la produzione della lana.
Una stima recente indica che negli ultimi due anni sono spariti dalla provincia 600 piccoli allevatori di ovini; mentre circa 400 hanno venduto le loro terre a prezzi irrisori, dopo che i terreni erano stati impoveriti dall’uso intensivo.
Per molti, l’unica prospettiva diventava l’emigrazione ed un futuro di incertezze. Questa realtà è la nitida immagine di un processo che esige altissimi costi sociali e non si occupa dei tanti piccoli produttori che hanno perso tutto.
Salta agli occhi il trattamento preferenziale che lo Stato argentino riserva a coloro che si insediano al Sud: privilegi per i forti e dimenticanza per i più deboli [Viva2, 22].
Owen ap Iwan è il bisnipote del pastore Michael Daniel Jones, un pioniere che nel 1865 abbandonò il suo paese per motivi religiosi, si imbarcò sulla “Mimosa” con altri 150 gallesi e fondò una colonia nei pressi di Puerto Madryn. “Mi dispiace vendere questa terra. Questa proprietà stava per compiere cento anni con la nostra famiglia”. La terra finirà a due ricchi nordamericani, che imporranno un tributo di trenta pesos per la coltivazione e la pesca.
Armando Sàenz è un allevatore di ovini di terza generazione nella zona di Camarones, in Chubut. Sàenz, già ai vertici della Federaciòn de Sociedades Rurales del Chubut, dice: “L’allevamento in Patagonia attraversa oggi la maggiore crisi della sua storia”. Elenca gli stabilimenti chiusi ed i produttori sul punto di fallire.
Quali sono i problemi principali? “Le oscillazioni del prezzo della lana, alti costi della produzione e le migrazioni dalla campagna alla città” [Viva1, 30].

Marici weu! Marici weu!
Wall Mapu (Territorio Mapuche), prima delle invasioni, si estendeva da oceano ad oceano. Partiva dalla Patagonia, la punta meridionale del continente Americano, e giungeva fino all’attuale provincia di Buenos Aires. Il popolo Mapuche ha continuato a resistere ai tentativi di genocidio winka, dei bianchi.
La sua storia recente è quella dei tentativi di assimilazione; delle continue espropriazioni; di uno sterminio lento e metodico. El señor Benetton è soltanto l’ultimo arrivato.
Con la costituzione degli Stati di Cile ed Argentina iniziarono le campagne di sottomissione delle comunità. Il popolo Mapuche è stato tra gli ultimi ad essere soggiogato. Un secolo e mezzo fa il generale Roca fu il protagonista del “Piano di Colonizzazione Indigena”, che aveva il solo fine di creare un unico Stato ed una sola cultura.
Il territorio Mapuche di Pulmarì – tolto ai suoi abitanti – divenne successivamente oggetto di contesa tra proprietari inglesi ed esercito argentino. Nel 1948 Peròn espropria gli inglesi e stabilisce la sovranità argentina sulle terre indigene.
Nel 1984 il presidente Raùl Alfonsin annuncia che il momento atteso dai popoli nativi è finalmente arrivata. “Sarà esaudita la loro richiesta di restituzione delle terre”.
Tre anni dopo la promessa ha assunto le forme della truffa ed il sapore dell’inganno. Corporaciòn Interstadual Pulmarì (CIP) è il nome dell’ente cui viene assegnato il compito di amministrare le terre. Il vertice è un direttorio di nove membri, otto rappresentanti della provincia e della nazione, ed un solo rappresentante indigeno, nominato con decreto del governo!
I 100mila ettari che formano Pulmarì (“si fece la notte”, in lingua mapuche) si estendono nei pressi del confine con il Cile, in una zona montagnosa adatta alla pastorizia ed all’allevamento. Da lungo tempo, tutte le organizzazioni Mapuche chiedono incessantemente la restituzione di Pulmarì.
Il coordinamento dei gruppi Mapuche, nel 1995, si stanca di attendere un cambiamento e denuncia la situazione: i funzionari del CIP si arricchiscono illecitamente, retribuiscono in nero il personale, molti luoghi sacri Mapuche vengono classificati come “zone turistiche”.
Undicimila ettari vengono assegnati illecitamente ad un allevatore di Loncopué. Ai Mapuche nessun beneficio eccetto concessioni per l’esercizio della pastorizia.
Il governo non ascolta le proteste Mapuche. A maggio la sede del CIP viene occupata per una settimana. L’azione di lotta rende più sensibile alle problematiche indie il governatore Sobish, che promette la restituzione degli appezzamenti richiesti.
Un mese dopo, considerato che le promesse sono rimaste tali, i Mapuche occupano gli appezzamenti ed evitano così la moria di bestiame che il durissimo inverno stava provocando. La Corporaciòn denuncia gli occupanti come “usurpatori di terra”. Alla fine dell’anno il giudice federale Rubén Caro ordina alla Gendarmerìa Nacional di ottenere lo sgombero totale dei campi.
Nel 1996, in febbraio, Veronica Huillipàn, Mapuche di etnia Werkèn, si reca alle Nazioni Unite per denunciare la situazione del suo popolo. Alcune ong europee si costituiscono in comitato di osservazione.
Le autorità statali ignorano le pressioni internazionali ed aumentano il ritmo delle concessioni di terra. In poco tempo centinaia e centinaia di ettari hanno nuovi proprietari.
Qualche mese più tardi i membri delle comunità Ñorcinquo impediscono ai nuovi padroni l’ingresso nelle proprie terre. “Si tratta di un gesto di giustizia storica”, dicono i rappresentanti della comunità.
Il copione si ripeterà ancora più e più volte: espropri delle terre dei Popoli originari, occupazioni, sgomberi delle Forze speciali, sequestri di bestiame, arresti, procedimenti giudiziari per “usurpazione” [Map, 2 sgg.].
Oggi i Mapuche sono circa 35mila, divisi tra Cile e Argentina. Sono localizzati per lo più nelle province patagoniche di Neuquén, Chubut e Rìo Negro. Esistono delle comunità Mapuche anche in alcune località delle province di Buenos Aires, La Pampa, Santa Cruz.
I problemi principali sono l’alto indice di povertà, la denutrizione infantile e l’elevata percentuale di emigrazione, specie verso le periferie delle città [Avm, marzo-aprile-maggio 1998, 1].
La lotta non è terminata, ed i Mapuche sono estremamente organizzati e determinati. “Marici Weu !” – dieci volte vinceremo! – è lo slogan che chiude i comunicati di denuncia che da alcuni anni vengono diffusi internazionalmente.

Scontro di culture
“Il concetto di territorio, che tanto allarme suscita, inteso come lo spazio fisico dove un Popolo esercita il controllo e l’influenza culturale, viene spiegato dai nostri Lonko [le autorità tradizionali] quando espongono il significato di Wall Mapu, ovvero l’unità spazio-terra-sottosuolo. […]
“Abbiamo la responsabilità di sostenere questo equilibrio. Per questo affermiamo – e deve essere riconosciuto chiaramente – che oggi noi Mapuche non abbiamo un territorio ma porzioni di terra” [Map, 5].
Il conflitto tra popolazioni originarie e colonialisti – al di là dei protagonisti occasionali – nasce sempre da uno scarto tra diverse culture. Quella occidentale, fondamentalista, aggressiva e totalitaria, pretende di imporre il proprio pensiero unico a tutti gli abitanti del pianeta.
Per Benetton il territorio è strumento, il fine è produrre-vendere-competere. La velocità è un valore. Il tempo è lineare e non circolare. L’equilibrio è un concetto sconosciuto.
Il punto di vista Mapuche è specularmente opposto: “Oggi il nostro Wall Mapu, trasformato in oggetto di lucro sanguina di fronte a tanto sfruttamento e abuso delle risorse naturali, e così la vita Mapuche è sotto minaccia. E siamo noi Mapuche che dobbiamo ristabilire e mantenere tale equilibrio [corsivo mio][…] Noi esigiamo la libera determinazione per avere la nostra vita differenziata e degna” [Map, 6].
L’obiettivo dei Mapuche non è la costituzione di uno Stato separato, anche perché il loro concetto di sovranità è del tutto diverso da quello della tradizione occidentale. Distinguono infatti tra la nostra concezione di terra, che può essere posseduta dalle persone, sulla quale acquisiscono un diritto esclusivo, e la loro, basata sul concetto di territorio, su cui esercita i suoi diritti un popolo, che manifesta il suo controllo sulle risorse e sui processi sociali e culturali.
Nella cultura dei Popoli originari non c’è nessuna pretesa di esclusività, che invece è fondamentale per la nostra idea di sovranità: i Mapuche rivendicano la creazione di giurisdizioni indigene – sul modello colombiano – basate sul principio di competenza e non su quello di proprietà esclusiva [Map, 13].
I Popoli originari sono pre-esistenti rispetto allo Stato argentino. Sono stati inglobati con la forza e le invasioni senza la loro volontà o contro la loro volontà. Il “diritto all’istruzione” nella scuola nazionale si è rivelato uno strumento per assimilare le culture originarie e uniformare ogni pensiero, cancellando le tradizioni “inferiori”.
A scuola, i bambini Mapuche sono costretti ad imparare lo spagnolo anche se a casa si parla Mapudugun. Il 70 % dei Mapuche oggi ha dimenticato la propria lingua, ed è stato allontanato irrimediabilmente dalla filosofia e dalle conoscenze degli antenati.
Naturalmente, la scuola argentina punisce i bambini dei Popoli originari, definisce “insuccesso scolastico” la loro diversità culturale, accresce frustrazioni: dalle bocciature nelle aule scolastiche alla manodopera a basso costo nelle periferie delle città il passo è breve.
L’educazione autonoma Mapuche si basa su altri principi: la relazione e l’interscambio sono i valori chiave: la biodiversità (Ixofil Mogen) è il fulcro della cultura indigena. L’uomo Mapuche (che) si considera solo una delle forze (newen) del Wall Mapu, ed il suo compito è assicurare l’armonia tra gli elementi” [Map, 8].
Tra armonia e sfruttamento esiste una opposizione irrimediabile. Da quando il governo argentino ha attivato le concessioni per YPF (Yacimientos Petroliferos Federales), vasti tratti di territorio Mapuche sono finiti in mano alle compagnie del petrolio e del gas. Le conseguenze sono state inquinamento ambientale e nuove e sconosciute malattie per gli umani.
L’11 agosto 1998, le comunità Collas e Mapuche sono scese in piazza nel centro di Buenos Aires, per manifestare contro la costruzione di un gasdotto andino che dovrebbe passare per i luoghi sacri del loro territorio. Il “progetto Mega” è frutto delle sinergie tra YPF, Dow Chemical e Petrobràs [Cla 12 agosto 98, 57].
I Mapuche rivendicano il rispetto della risoluzione 4476 del Dipartimento dello Sviluppo sociale: “La terra per i Kaxipayiñ ha un carattere sacro. Per questo non può essere trasferita, essendo il diritto su essa di carattere collettivo” [Vid, 13 luglio 98, 25].
“Utilizziamo altissima tecnologia che non contamina l’ambiente”, dicono Jos Remacle e Daniel Sammartino, responsabili di projecto Mega. “Abbiamo il titolo per continuare i lavori, avendo acquistato le terre. Una corte federale ci ha autorizzati. Non vogliamo pregiudicare i diritti degli indigeni. Saranno disturbati solo il tempo necessario alla costruzione delle opere” [ibidem].
La situazione in Cile è del tutto analoga. Domingo Raìm, rappresentante del Consejo de todos las tierras – un’organizzazione nata nel 1989 dopo la caduta della dittatura militare di Pinochet – racconta delle battaglie che il suo popolo sta conducendo attualmente.
La lotta contro un’impresa produttrice di energia elettrica, impegnata nella costruzione di una diga nel territorio dell’alto Rio Bio Bìò, in una zona che i Mapuche considerano sacra.
L’opposizione nei confronti di un mega-progetto del governo che intende costruire un’autostrada lungo la costa, dal confine settentrionale col Perù fino all’estremo sud del Paese.
“Stiamo impedendo che questa strada si costruisca sulle nostre terre. In diverse occasioni abbiamo avuto dei colloqui col ministro delle Opere pubbliche, il signor Ricardo Lagos, il quale afferma che in Cile tutto va bene e che i Mapuche hanno molti benefici dalla democrazia”, dice Domingo Raìm [Map2].
“Lui è tra quelli che insiste affinché l’autostrada passi per le nostre terre; in questo modo – secondo lui – potremmo superare l’estrema povertà in cui viviamo.
Però noi siamo convinti che un’autostrada non può risolvere il problema della fame tra il popolo. Altrimenti la soluzione per tutto il mondo sarebbero molto facile: costruire autostrade!
“In realtà queste opere servono solo alle multinazionali, affinché distruggano il nostro territorio, aumentino i loro guadagni e continuino a contaminare il mondo” [ibidem].
Infine, è arrivato il PDGH (Proyecto de diversidad del genoma umano), che a partire dal 1994 ha deciso di schedare e brevettare il maggior numero possibile di geni delle ottomila popolazioni ritenute “culturalmente differenziate”. La prima fase consiste nella raccolta di campioni di sangue, capelli, frammenti di pelle e di unghie.
Quindi saranno estratti dei campioni di DNA, da custodire in depositi centrali, congelati. I ricercatori interessati ai geni potranno firmare dei contratti col Proyecto genoma, esclusivista di ogni informazione genetica dei popoli indigeni esaminati.
E’ quasi inutile dire che i Mapuche si sono ufficialmente opposti alle richieste dell’Università della Pennsylvania che chiedeva dei campioni di sangue da 150 indigeni. L’esperimento tuttavia, è stato realizzato ugualmente, nel 1996, senza autorizzazione.

Impatto ambientale
Lo Stato argentino si è rivelato complice dei latifondisti e di Benetton in particolare, secondo il copione tipico dei processi coloniali. Sordo alle denunce, il governo di Buenos Aires ha aggiunto alla vicenda il sapore della derisione promuovendo – tramite l’Istituto Nacional contra la Discriminacion, la Xenofobia y el Racismo (INADI) – una mostra dei celebri cartelloni pubblicitari della holding di Treviso.
L’iniziativa si è tenuta presso il centro culturale Recoleta a partire dal 27 marzo. Poche settimane prima, il Clarìn aveva riportato le denunce Mapuche contro Benetton [cfr. Cla 8 marzo 98; 14 marzo 98]. Di conseguenza, i responsabili di INADI non potevano non sapere [Auk].
Le indagini federali – del resto – parlano chiaro sulle responsabilità di Benetton. Una brigata della Gendarmerìa Nacional, con base ad El Bolsòn, aveva sorvolato le proprietà per verificare le modifiche idrogeologiche apportate al territorio.
I responsabili del latifondo Benetton, interrogati dagli inquirenti, ammisero di aver effettuato dei lavori sul fiume, durante l’estate, ma precisarono che il canale che modifica il percorso del Rìo è vecchio di molti anni.
In ogni caso, date le caratteristiche del fiume, qualunque approvvigionamento idrico deve essere subordinato a severe regole di controllo del volume delle acque. Invece, nessuno ha pensato nemmeno ad uno studio di impatto ambientale!
Secondo l’ecologista Alejandro Beletzky, ispettore delle Risorse naturali del Rìo Negro, potrebbe essere applicato l’articolo del Còdigo Penal che riguarda l’appropriazione illecita di acqua.
Fu proprio Beletzky a denunciare per primo i crimini ambientali di Benetton, seguito subito dopo dalle organizzazioni delle popolazioni indigene che vivono nei pressi del Rìo.
Iniziarono le indagini. Miguel Wegrzyn, delegato della segreteria per le risorse naturali del Rìo Negro, effettuò una ricognizione aerea. La deviazione del corso del fiume era evidentissima. Ed era chiaro anche che el desvìo riduceva molto le acque del Rìo Chubut. Le riduceva al punto da provocare danni alle specie che vivono nel fiume: la deviazione potrebbe causare morie di salmoni ed altri pesci [Cla 25 febbraio 97].

El dueño Luciano
Trabayar para nosotros es un hobby“, dice Luciano Benetton in una intervista al Clarìn. Una impresa familiare, che però possiede tanta terra da esser diventato uno dei maggiori latifondisti in Argentina. “Edizione Property” (il significativo nome di Benetton in Argentina) è padrona di un totale di 850mila ettari. La Weltanschauung di Benetton si riassume in tre parole d’ordine: “più investimenti, meno forza lavoro e più vendite”.
Ha fiducia nell’economia argentina ?, chiede l’intervistatore.
“Per noi è un paese molto speciale, al quale siamo legati in termini molto personali. Da nessuna altra parte abbiamo fatto tanti investimenti: avviamo la produzione e la abbandoniamo, apriamo negozi, produciamo il 10 % della lana che consumiamo, acquistiamo terreni…”
Perché produce molto in Italia, e non in Asia, come tanti altri tessili che trovano costi meno bassi?
“Perché l’etichetta Made in Italy ci dà valore aggiunto” [Cla 14 aprile 1997, 26]. L’Italia, dunque. In una lunga intervista alla Repubblica, Benetton ci illumina ancora sulla sua visione del mondo.
“Berlusconi come imprenditore lo stimo, come politico credo che sia un freno in questo momento”. Ma quali sono i problemi politici? “I fatti personali, Berlusconi appunto, e l’ideologia”.
Le trentacinque ore, naturalmente. “Sono l’esempio tipico di un problema fasullo trattato come vero. […] Sono una scomodità insopportabile, ma soprattutto non servono. Complicano la vita senza generare valore aggiunto, anzi fanno correre il rischio di esportare lavoro dove c’è più libertà [corsivo mio]”.
Ed infatti, a partire dal 1999, chiuderà la fabbrica di Chapelle Saint-Luc, unico stabilimento francese di Benetton. I 169 dipendenti dovranno trovarsi un altro lavoro [Gzt 25 settembre 98]. Lo stabilimento fu aperto nel 1992 e vi si producevano 2 milioni e mezzo di pullover di lana l’anno. Nel 1996 fu chiusa la fabbrica di Chalons-en-Champagne. “Benetton ha chiuso per l’istituzione dell’orario settimanale di 35 ore”, dicono i rappresentanti sindacali.
La motivazione ufficiale è la seguente: “I costi di produzione ci impediscono di allinearci con i prezzi del mercato globale; e non possiamo diversificare la produzione”. Si tratta di una strategia coerente: rifiuto della produzione diretta e ricorso sistematico al subappalto, in aree di crisi dove “il lavoro costa meno”: in questo caso, Spagna, Portogallo, Ungheria ed eventualmente Sud Italia [Tri 25 settembre 98, 15].
Nell’ottobre del ’98 si scopre che una impresa che fornisce la subfornitrice turca di Benetton utilizza lavoro minorile. La risposta è ancora una volta il ricatto: “Pazienza: non resterà che chiudere le attività produttive all’estero. […]
Peccato, però: in Turchia tra i 180 negozi, il licenziatario e i suoi subfornitori, lavorano quasi 1200 persone” [Rep 18 ottobre 98, 33].
Una questione di grande interesse, a questo punto, è quella dei rapporti nord/sud. Insomma, Benetton è davvero un antirazzista?
Diciamo che è un “razzista democratico”. Questa risposta ci aiuta a comprendere: “L’immigrazione riguarderà tutta l’Europa, noi per primi, che stiamo sul confine. In una casa, se il tetto non funziona, è danneggiato chi si trova all’ultimo piano. […]
“Questo è un problema vero ma assolutamente risolvibile! Quando i meridionali sono venuti al nord sono stati ampiamente dei bravi lavoratori. Qualche anno fa il presidente della Volkswagen mi diceva che i suoi operai migliori in Germania erano i siciliani: li additava come i più fedeli, i più generosi, che non si risparmiavano mai [corsivi miei]”.
Va bene dunque l’immigrato schiavo fedele, silenzioso, lavoratore. E per il Sud dell’Italia la ricetta Benetton è un capolavoro di originalità: “Perché non pensare alla Puglia, ma anche alla Sicilia, come ad un’altra California?”
Finale: “il nostro mondo è la globalizzazione”. Cosa dobbiamo fare? “Competere, stare in un gruppo, avere un ruolo” [Rep 23 luglio 98].

capitolo quattro
CONCLUSIONI – BENETTON FORMULA

In una intervista [Rep 18 ottobre 98, 33], Benetton risponde all’inchiesta apparsa qualche giorno prima sul Corriere della Sera, che documentava l’uso di lavoro minorile in una impresa di Istanbul. Quest’ultima, sia pure in maniera indiretta, produceva anche per Benetton.
La strategia difensiva della multinazionale veneta si basa su una questione formale, nel tentativo di dimostrare che i ragazzini fotografati avevano l’età per lavorare, secondo la legge turca.
In questo modo viene ignorato il contesto, le condizioni di povertà e sfruttamento nelle fabbriche che, nel Sud del Mondo, producono per le ricche multinazionali occidentali.
Ma – nel caso specifico – anche questo non basta. Bisogna sottolineare con forza che anche il semplice investimento in Turchia è un atto gravissimo, perché si tratta di un paese sotto regime militare e impegnato nel genocidio del popolo kurdo. In quel paese i diritti umani – come ampiamente documentato da Amnesty International – vengono sistematicamente violati. Non esistono diritti sindacali. Nessuna multinazionale può ignorare questa situazione e non sentirsi responsabile di ciò che avviene dentro le fabbriche.

“Due volte il Belgio”
La produzione di filati Benetton in un anno è pari a “oltre 100 milioni di chilometri di lunghezza, pari a 2500 volte il giro del mondo sulla linea dell’equatore, ed una superficie pari a due volte il Belgio”. Lo afferma, con una certa presunzione, il fascicolo del bilancio per il 1993 della multinazionale veneta. Al di là delle metafore spettacolari, questo significa 80 milioni di capi prodotti [Pan 6 agosto 1994].
L’avventura dei fratelli Benetton inizia nel 1965 con un piccolo laboratorio di maglieria. Oggi possiedono filiali in 15 nazioni e 7mila punti vendita in 120 paesi. Il 40% delle vendite dal ‘92 al ‘96 è stato realizzato all’estero. I megastore Benetton si trovano ovunque, da Londra a Riyad a Bucarest. E’ stato tra i primi imprenditori italiani a sbarcare a Cuba.
La “Edizioni Holding” è il cuore del sistema: si tratta di una società finanziaria controllata interamente dalla famiglia Benetton che possiede anche le attività collaterali: calzature, articoli sportivi e attrezzature per lo sport, partecipazioni industriali (21, Investimenti), grande distribuzione (supermercati GS e Autogrill, conquistati nel ‘94 nell’ambito della privatizzazione della SME), alimentare, agricolo, immobiliare, editoria (alcuni quotidiani del nord-est più la rivista Colors).
Ora la finanziaria si divide in un 35% impegnato nel tessile abbigliamento e calzaturiero , un 30% nella distribuzione, un 21% nella ristorazione autostradale, un 15% nell’equipaggiamento e attrezzature sportive e meno dell’1% nei settori immobiliare ed agricolo [Raf 8 dicembre 1997, 6].
Nel 1982 la Benetton inizia la sua diversificazione produttiva acquistando lo storico Calzaturificio Di Varese, quotato alla Borsa di Milano, trasferendone dopo quattro anni la direzione commerciale ed ideativa a Treviso e chiudendo progressivamente tutto il settore produttivo in Italia per trasferirlo rapidamente in Slovenia e Croazia.
Il gruppo nel suo complesso fattura circa 8mila miliardi ed ha circa 26mila dipendenti, compresi gli addetti della grande distribuzione. Nel 1996 ha avuto 101 miliardi di utile netto consolidato.
Tra l’altro, Edizione Holding possiede un imponente patrimonio immobiliare nelle principali città italiane, europee e americane, compresi alcuni edifici storici di notevole valore. In Patagonia, come sappiamo, possiede tenute per 900mila ettari, con allevamenti di circa 280mila ovini, che coprono parte del fabbisogno del gruppo [Bnt1, 2].
Il settore tessile, direttamente, ha circa 10mila dipendenti, ma non è possibile conoscerne il numero esatto. E qui arriviamo al punto: la produzione dei capi d’abbigliamento Benetton è sempre più affidata a ditte, localizzate spesso nel Sud del mondo (ma, come abbiamo visto, anche nel meridione italiano), che ottengono in subappalto le fasi ad alta intensità di lavoro.
La gestione delle attività ad alta intensità di capitale è invece centralizzata dal gruppo di Treviso, la cui finanziaria ha una sede nelle Antille Olandesi e un’altra in Svizzera, luoghi tradizionalmente conosciuti come paradisi fiscali. Un bene immateriale di grandissima importanza è il know how: Benetton possiede le competenze legate alla progettazione del prodotto, e quindi nessun “satellite” può mettersi in proprio.
Il complesso produttivo di Castrette, nei pressi di Treviso, ha il compito di assicurare una certa quota della produzione, il “nocciolo duro” insensibile alle variazioni della domanda.
Benetton, che pure abitualmente tace sulla pratica dei subappalti, ammette che “l’organizzazione del suo sistema industriale è basata su un impegno costante nell’innovazione tecnologica e nella flessibilità dei processi” [Bnt1, 11].
Le lavorazioni più nocive (solo per fare un esempio, durante la stiratura il vapore può reagire con le fibre artificiali ed emanare esalazioni tossiche) sono esternalizzate: in altre parole, la salute di chi lavora ed eventuali incidenti non sono preoccupazioni che riguardano Benetton. Ciò che importa alla holding di Treviso è la massima riduzione possibile dei costi di produzione. L’incidenza del costo del lavoro sul prodotto finito sarebbe all’incirca del 15 %, e tende a diminuire [Mnf 16 aprile 98].
I dati “ufficiali” mostrano già un impressionante decremento del costo del lavoro nel sistema Benetton. Ma a Bronte, per esempio, il costo scendeva fino a 35-45 lire al minuto, molto meno di un contratto di formazione sovvenzionato dallo Stato.
Costo del lavoro medio al minuto nel settore
tessile / abbigliamento (in lire)
media Italia392
sistema Benetton260 /280
impresa artigiana235 (operaio qualificato)
127 (operaio primo livello)
88 (apprendista)
78 (formazione lavoro)

Le fasi della produzione in Italia non sono certo affidate agli appena 2mila dipendenti ufficiali, ma – con l’eccezione dei capi prodotti a Castrette – vengono assegnate a circa 400-600 imprese che occupano approssimativamente 30mila persone.
Abbiamo già visto che ognuna di queste imprese si occupa generalmente di una sola fase del processo (il taglio, la cucitura, o anche solo l’apposizione del marchio) e ancora più spesso subappalta ulteriormente una sotto-fase del processo produttivo. Circa 1700 imprese collaborano complessivamente alla rete della produzione tessile Benetton. Si tratta per la maggior parte di unità produttive con pochissimi dipendenti e con una organizzazione approssimativa.
Ricevono una scheda tecnica con le istruzioni sul lavoro da fare. La commessa si basa sui tempi: per esempio, 7 minuti per terminare un jeans, 12 per i pantaloni, etc… Il pagamento concordato avviene regolarmente se i tempi sono rispettati, secondo modalità tipiche del lavoro a cottimo, con l’aggiunta della corsa folle per consegnare il lavoro nel tempo pattuito.
Se è possibile in linea teorica conoscere le condizioni di lavoro del primo subappalto, è praticamente impossibile sapere cosa succede in caso di subappalto ulteriore. Ecco perché è difficile anche solo sapere quanta gente lavora per la multinazionale veneta.
Per due volte sono trapelate notizie dai laboratori che producono in conto terzi – e talvolta in maniera indiretta – per Benetton, e in entrambe le occasioni tutto è iniziato con una irruzione delle “forze dell’ordine”. Uno di questi episodi lo conosciamo già, è quello di Bronte. Il secondo risale al giugno 1994, quando la stampa riportò la notizia secondo cui a Troyes, in Francia, era stato scoperto un laboratorio clandestino che produceva indumenti per Benetton impiegando un centinaio di immigrati vietnamiti immigrati illegalmente.
Nello stesso periodo, il segretario della Cgil Bruno Trentin attaccava duramente “i signori in guanti bianchi come Benetton, Ellesse, la Fila, vale a dire i responsabili morali di quanto avviene negli stabilimenti dei fornitori”. Trentin si riferiva alla jeanseria “Manuero 2000” di Nereto, in Val Vibrano, al confine tra Marche e Abruzzo. Qui tre operaie (Miriam Pintos, Antonella Reginella, Alexandra Palestro) erano state licenziate dal padrone, Mario Casimirri, dopo aver preso la tessera del sindacato. In più, il licenziamento aveva provocato il plauso delle colleghe della fabbrica, rese solidali col padrone dal ricatto del lavoro, e una serie di fax di appoggio giunti a Casimirri da altri imprenditori [Rep 16 giugno 94].
L’immagine progressista di Benetton è ulteriormente messa in crisi da un’altra denuncia dei sindacati, secondo cui nello stabilimento della Carolina del Nord il gruppo veneto avrebbe speso somme notevoli per evitare la sindacalizzazione.
L’impero Benetton [nulle: Bnt1]
Edizione Holdingfinanziaria della famiglia Benetton
21, Investimentiinvestimenti finanziari e partecipazioni industriali
Benetton Groupabbigliamento (United colors of Benetton, Sisley, 012, Zerotondo)
Benetton Sportsystemarticoli sportivi (Nordica, Prince, Rollerblade, Killer Loop, Kä stle, Asolo, Ektelon)
Gruppo GSgrande distribuzione
Autogrillristorazione stradale e urbana
SportBenetton Formula, squadre di rugby, pallavolo, basket
EditoriaColors, partecipazioni in quotidiani del Nordest

Inoltre, uno degli effetti dell’uso scientifico del ‘conto terzi’ è l’annientamento dell’organizzazione dei lavoratori. Quasi sempre i lavoratori sono sotto ricatto, perché in situazione illegale e/o precaria e perché vivendo in zone difficili e povere sono costretti a vedere nel denaro delle multinazionali una delle poche – se non l’unica – possibilità di sopravvivenza. Non è un caso che i laboratori che producono per Benetton sono situati in aree colpite dalla crisi delle attività agricole, in cui esiste una forza lavoro marginale prodotta dall’espulsione dal settore primario.
Basta osservare ciò che accade a Bronte:
“Bisogna tenere conto che stiamo parlando di sei-settecento ragazze, e generalmente, siccome sono figlie di braccianti o di muratori: il pistacchio è in crisi, l’edilizia è bloccata da anni e i muratori hanno avuto una fase di estrema precarietà e di difficoltà.
E’ evidente che se non si convince la figlia che lo vuole dire al padre o alla madre [di aver subito pressioni dall’azienda, il problema è] che la figlia perde le 800mila lire con cui campa la famiglia, [e quindi] il padre non va dal sindacato a dire: ‘hanno minacciato mia figlia’. Anzi, minacciano la figlia se fa iniziative di questo tipo. Sono purtroppo situazioni ordinarie di tutte le zone di sottosviluppo” [Interv2].
In fondo, l’aspetto più odioso del sistema Benetton – che poi non è altro che il sistema delle multinazionali nell’era della globalizzazione – è la costrizione degli sfruttati a dipendere dallo sfruttamento e – di conseguenza – a “richiedere” lo sfruttamento.
Benetton non è incappata in un incidente di percorso alle falde dell’Etna, per il semplice motivo che il modello del subappalto, il sistema dello sfruttamento scientifico è stato la fortuna del gruppo di Treviso.

Ossa e cadaveri per vendere magliette
Le magliette di Benetton non sono di altissima qualità. Eppure hanno avuto un grandissimo successo in tutto il mondo, e questo si spiega sia con la competitività relativa dei prezzi – che si ottiene nei modi che abbiamo visto – sia con la capacità di vendere più il marchio che il prodotto.
Differenziandosi dagli spot consueti, Benetton è riuscita in un modo o nell’altro a imporre il proprio marchio senza neanche preoccuparsi di mostrare i propri prodotti.
Ogni pubblicità di Benetton ha suscitato aspre polemiche, spesso centrate sul cattivo gusto delle immagini (basta ricordare – tra tutte – l’immagine del cavallo nero che monta quello bianco). Ogni polemica, comunque, è diventata pubblicità supplementare e a costo zero, con centinaia di articoli, prese di posizione, interviste. E quindi Benetton ha avuto tutto l’interesse di insistere su questa strada.
Spesso le immagini sono state condannate in nome dell’offesa alla sensibilità comune. Nel 1995, per esempio, veniva ordinato il ritiro di uno spot offensivo per la sensibilità dei cattolici.
In realtà l’aspetto più grave della questione è che spesso fotografie drammatiche sono state utilizzate a fini puramente commerciali, senza alcuna finalità di denuncia e di impegno, come vorrebbe la propaganda di Treviso.
All’inizio del 1994 l’Autorità antitrust ha condannato Benetton a ritirare la pubblicità che rappresentava un malato di Aids in stato terminale assistito dai suoi familiari.
In Francia la Bvp (Commissione per il controllo della pubblicità) ha chiesto ai media di rifiutare l’immagine di un mercenario negro che – mitra in spalla – tiene in mano un femore umano.
Una immagine che sconvolge molte sensibilità è quella di un delitto di mafia. Si tratta della fotografia del cadavere di Benedetto Grado, parente di Totuccio Contorno, assassinato per vendetta il 25 ottobre del 1983 nel mandamento di Santa Maria di Gesù, Palermo, per mano di Pietro Aglieri e per ordine di Ignazio Pullarà.
L’immagine è stata stampata in tutto il mondo su cartelloni giganti: tre donne vestite di nero – la moglie e le figlie dell’ucciso – accanto al cadavere di un uomo coperto da un lenzuolo e immerso in una pozza di sangue [Gds 4 maggio 95].
Si tratta di alcune delle fotografie della campagna partita nel 1992, basata su temi come la malattia e la morte, la violenza, i cataclismi naturali, l’emigrazione. E’ vero – come sostiene un opuscolo di Benetton [Bnt2, 5] – che si tratta di sette immagini già pubblicate su quotidiani e riviste. Ma è altrettanto vero che venivano riprodotte in un contesto del tutto differente, e con una finalità di informazione e talvolta di denuncia. E non certo per vendere pantaloni e magliette.
Il magazine “Colors” contiene tutto e il contrario di tutto: nel numero 25 [Cls aprile-maggio 98], solo per fare un esempio, si possono trovare attacchi indiretti alla Nestlè e diretti alla Coca-cola, dure critiche ai supermarket (e pensare Benetton possiede la catena GS!) ed alla disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo (ed anche in questo caso il gruppo di Treviso qualche responsabilità ce l’ha…),
In fondo, anche la sterzata sui buoni sentimenti è solo l’ultima trovata di una strategia che mette al primo posto l’immagine, all’ultimo la sostanza e i diritti di chi lavora neanche li considera.
“Il Luciano è un rivoluzionario”, afferma con sicurezza Oliviero Toscani. “Cosa vuol dire avere uno spirito rivoluzionario? Mettere sempre in discussione tutto. E lui lo fa” [Stt n.13/96].
Quasi tutto. Ci sono cose che il signor Benetton non si sogna neanche di mettere in discussione. Per esempio le scelte politiche ed economiche, che sono esattamente l’opposto dei recenti manifesti ispirati al sentimentalismo.
Luciano Benetton è stato senatore per i repubblicani dal ‘92 al ‘94, quindi si avvicina ad “Alleanza democratica”, infine abbandona la politica attiva. In una intervista a “Repubblica” critica il vecchio ceto politico (contraddicendosi con l’appartenenza ai repubblicani, partito storicamente governativo) ed esprime apprezzamento per Berlusconi, “economista di destra come dovrebbe esserlo la sinistra”. Benetton indica gli esempi di Amato e Ciampi. Non sa che tra breve avrà a disposizione un esempio in più, Prodi.
Quali sono le scelte da fare? “Berlusconi ridurrà i costi assistenziali e introdurrà nuovi modelli per rilanciare l’occupazione, dalle gabbie salariali ai salari d’ingresso. E avrà vita facile” [Rep 27 giugno 94].
Ed ecco cosa pensa Benetton delle 35 ore: “si vuole incrementare il numero dei posti di lavoro, ma ciò che il governo propone farà sì che io, così come altri imprenditori italiani, sposterò le fabbriche nell’est europeo, per esempio in Croazia o in Ungheria […] Il rischio è che l’Italia possa perdere competitività”. Si tratta di alcune dichiarazioni rilasciate ad un giornale polacco.
Il commento di Alessandro Sabiucciu, segretario della Camera di lavoro di Venezia: “con questa uscita sulle 35 ore, purtroppo, Benetton si accoda non al coro ma al grugnito dei padroncini nostrani”. E “il manifesto” osserva: “colpisce il linguaggio di Benetton, identico a quello di Romiti o dell’ultimo tondinaro di Brescia o ottico di Cavaso del Tomba”. E poi, quale effetto devastante potranno mai avere le 35 ore su un’azienda che produce per la maggior parte in micro-aziende ed all’estero? [Mnf 16 aprile 98].
Tra l’altro, Benetton ribadisce il suo interessamento all’apertura di una fabbrica nel Sud Italia solo in cambio di una defiscalizzazione temporanea dell’investimento offerta dal governo. A conferma che la vera ideologia del neoliberismo prevede che lo Stato non deve astenersi da ogni intervento in economia, ma solo da quelli che non sono favorevoli.
In pratica, come nella storia di dottor Jeckill e mister Hyde, alla fine il vero volto del signor Benetton è quello del freddo imprenditore che chiede precariato e flessibilità.

Le foto di Toscani
Il problema della pubblicità è molto interessante, non solo sotto il profilo economico ma anche dal punto di vista culturale. Se Armani e gli altri tendono a presentare ed ad imporre un modello competitivo ed aggressivo, molto diverso è l’atteggiamento di Benetton, che punta sia su immagini mirate per colpire profondamente, ma soprattutto sui buoni sentimenti: sull’antirazzismo e sui diritti umani.
E qui si passa dall’ipocrisia alla beffa vera e propria. Benetton ha contribuito alla pubblicazione del fascicolo 2/96 di “Indice internazionale” dal titolo “Villaggio globale”, con tanto di pubblicità di sostegno al vertice FAO sull’alimentazione.
Secondo la multinazionale di Treviso [Bnt2, 12], è stata la stessa agenzia delle Nazioni Unite a chiedere a “Benetton un aiuto per una comunicazione sul primo vertice mondiale sull’alimentazione, organizzato a Roma dal 13 al 17 novembre ” del ‘96. L’immagine ufficiale del vertice, un cucchiaio di legno su fondo bianco, è opera di Oliviero Toscani, il fotografo che ha legato indissolubilmente il suo nome a quello di Benetton.
E’ dal 1984 che Benetton alterna le campagne basate su immagini shock a pubblicità che vorrebbero essere “impegnate”.
Già alla fine degli anni ‘80 sono numerose le immagini di bianchi e neri armonicamente insieme. Ma talvolta sono i diretti interessati a protestare: nel 1989, per esempio, esponenti delle comunità nere Usa protestano per una immagine che mostra una donna nera che allatta un bimbo bianco, riproponendo il ruolo subalterno delle donne di colore [Bnt2, 4].
Praticamente ogni trovata di Benetton suscita polemiche e sconcerto in ogni Paese in cui esce, le immagini sono quasi sempre semplificatorie, banali, spesso di cattivo gusto. Dal 1990 arriva la campagna “United colors of Benetton”, che più tardi diventa un marchio a sé stante: l’antirazzismo diventa la linea guida delle immagini Benetton.
Nell’autunno del 1997 avvia una campagna che mette l’uno accanto all’altro ragazzi bianchi e neri. Ma non mancano le pubblicità di sostegno alle campagne anti-aids: in genere gli spot sono improntati ai buoni sentimenti di stampo progressista.
La stessa impostazione è propria di “Colors”, magazine del marchio Benetton. Nel 1993 Benetton organizza – in collaborazione con la Caritas svizzera e la Federazione internazionale della Croce Rossa – la campagna Clothing Redistribution Project, donazioni di abiti alle popolazioni ‘bisognose’. Il testimonial dell’operazione è lo stesso Luciano Benetton, all’epoca senatore della Repubblica italiana per il PRI, che appare nudo, coperto solo da una scritta che recita: “ridatemi i miei vestiti” [Bnt2, 6]. L’immagine interpreta bene lo spirito dell’iniziativa e sarà riprodotta in copertina da un settimanale nazionale, dando vita ad una ridicola discussione sul ‘nudo maschile’ nelle prime pagine di Panorama e dell’Espresso.
Per l’anno scolastico 1996 Benetton realizza il progetto “I colori della pace”, fornendo libri, quaderni e poster a circa 130mila ragazzi delle scuole elementari di Germania, Italia, Francia, Belgio, Spagna.
Ma il culmine si raggiunge a partire dai primi mesi del 1998, quando sui mass media arriva in maniera massiccia una imponente campagna pubblicitaria che celebra il cinquantesimo anniversario della dichiarazione Onu dei diritti umani.
Da un lato otto piccole fotografie di giovani, ognuno di etnìa diversa. Al centro il testo di uno dei diritti umani contenuti nella dichiarazione Onu. Particolarmente significativa la pubblicità che cita l’articolo 25, il quale recita che “ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia“. Dall’altro lato, una foto più grande ed in primo piano la scritta “United colors of Benetton”.
Al centro compare il simbolo delle Nazioni Unite dedicato all’anniversario, con tanto di logo dell’ufficio Onu per i diritti umani. Guardando con molta attenzione, si può scorgere una piccolissima dicitura, in verticale, che avverte: “The use of the 50 th Anniversary of the Universal Declaration of Human Rights logo does not imply the endorsement by the United Nations of any company or its product“.
E’ più che comprensibile che aziende con molti scheletri nell’armadio puntino a rifarsi l’immagine sfruttando il logo delle Nazioni Unite. Roberto Salvan, responsabile dell’approvvigionamento fondi dell’Unicef-Italia, ammette in una intervista che negli ultimi 10 anni ha ricevuto contributi per operazioni di joint promotion da multinazionali come Unilever e Coca Cola e da imprese dei gruppi Fiat e Berlusconi [Ic dicembre 1997].
Evidentemente, una scritta microscopica da apporre sulle pubblicità dovrebbe servire a prendere le distanze. Ma è solo la soluzione pilatesca trovata dai responsabili Onu per salvarsi la coscienza.

Los colores unidos de la explotaciòn
Deviano il corso dei fiumi, spostano le popolazioni, stravolgono esistenze, modificano ritmi di vita millenari, gestiscono a piacimento le acque e le terre.
In Argentina, un delirio di onnipotenza si è impadronito del gruppo Benetton, lo stesso che nell’emisfero settentrionale si presenta come azienda antirazzista e sensibile.
A partire dall’autunno del 1998 prende il via la nuova campagna pubblicitaria con le ultime fotografie di Oliviero Toscani.
Lo scenario è l’istituto San Valentino, un centro modello per la cura e la riabilitazione degli handicappati, situato a Ruhpolding, sulle Alpi bavaresi. I protagonisti dei manifesti sono dunque ragazzi ritratti nella quotidianità.
“Sono sicuro che qualcuno si scandalizzerà, che mi accuseranno di essere cinico, di sfruttare i bambini per vendere maglioni”, si giustifica il fotografo [Rep 12 settembre 1998].
“Ma se tutto questo servirà a sostenere la causa dei bambini handicappati, ben venga la polemica”. In realtà, da sempre le campagne pubblicitarie Benetton sono complesse operazioni culturali e (soprattutto) economiche.
Quest’ultima mobilita sinergie impressionanti. Sui nuovi manifesti pubblicitari, oltre alla tradizionale dicitura “United colors of Benetton”, compare anche la frase “con la voce di Tim”, una frase dal significato misterioso, certo frutto di geniali “creativi”, che però sta ad indicare la recente sinergia tra il gruppo di Ponzano Veneto ed il maggiore gestore italiano di telefonia mobile.
Nella campagna, oltre a Tim, è coinvolta anche Procter & Gamble, la multinazionale che fattura 50mila miliardi e produce buona parte dei detersivi che si usano comunemente (Ariel, Ace, Dash, …). Naturalmente, è tra i massimi responsabili mondiali dell’inquinamento ed è stata oggetto di una campagna di boicottaggio a causa dei test sugli animali che abitualmente effettua.
Il catalogo Benetton che raccoglie le foto di Toscani si apre con “Il girasole”, un racconto di Susanna Tamaro, che è stata scelta come icona del buonismo, testimonial e difensore d’ufficio dell’operazione. “Fare réclame è come prostituirsi, ma queste foto aprono i cuori”, dice alla Repubblica [ibidem].
Proprio il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è da tempo “invaso” dalle inserzioni di Benetton. Fin qui nulla di strano. E’ però inquietante vedere l’alternanza di inserzioni pubblicitarie ed interviste encomiastiche, celebrazioni fuori luogo e difese non richieste.
“Benetton? E’ la globalizzazione dal volto umano”, scrive un giornalista di Repubblica concludendo una intervista lunga una pagina [23 luglio 1998]. E si potrebbero fare altri esempi, ognuno dei quali riproporrebbe il problema della libertà di stampa e della correttezza d’informazione.
Nonostante l’immagine trasgressiva, Benetton è specialista in furbizie in stile Agnelli – Berlusconi. Le privatizzazioni si sono rivelate niente altro che il trasferimento-dono delle aziende pubbliche dallo Stato ai soliti noti del capitalismo italiano. Benetton è in prima fila. Già da anni ha acquistato la rete Autogrill, che attualmente è in fase di riorganizzazione tramite il franchising: viene applicato il sistema dell’impresa a rete e non di rado si scarica su improvvisati imprenditori il rischio d’impresa.
Nello stesso tempo, la “centrale” mantiene il controllo decisionale ed ottiene comunque dei vantaggi imponendo delle royalties, e talvolta chiedendo contributi per le spese di marketing ed affittando i macchinari [Lib 17 giugno 1998].
Alla fine di luglio Edizione Holding acquista il 4 % della “Pirelli & C.”, al costo di 100 miliardi. Sembrerebbe una normale operazione di borsa, ma i protagonisti giurano che si tratta di una scelta strategica [Rep 31 luglio 98]. Questa volta non ci troviamo di fronte ad una menzogna.
“Schemaventicinque” è il nome della “srl” paritetica già costituita dai due gruppi: l’obiettivo è il nuovo affare del futuro, la gestione degli aeroporti privatizzati (e forse delle grandi stazioni ferroviarie).
Contemporaneamente, Benetton è sul punto di definire l’acquisto della tenuta di Maccarese, 3200 ettari nel comune di Fiumicino, alle porte di Roma. La tenuta appartiene all’Iri, è in vendita da 60 anni, è sempre stata in perdita e solo ostacoli politici e burocratici hanno impedito di venderla.
Cragnotti, Tanzi, Caltagirone sono solo alcuni degli aspiranti acquirenti bloccati da un veto di partito. Tutto bene, dunque? Finalmente una privatizzazione giusta, concessa al migliore offerente? Il problema si chiama Fiumicino. Chiamiamolo pure conflitto d’interessi, anche se rischia di essere un eufemismo.
Benetton ha una partecipazione nella società “Aeroporti di Roma”. Sui terreni di Maccarese dovrebbe sorgere la quarta pista dell’aeroporto di Fiumicino. Benetton spenderebbe appena 120 miliardi per l’intera tenuta, ma potrebbe riaverne in tasca subito 90, vendendo i terreni destinati alla pista. [Cor 2 agosto 1998].

La legge della giungla
“Il Mapuche viene accettato solo se si sottomette allo schema di partecipazione e decisione già stabilito. Se non accettiamo, veniamo repressi” [Map, comunicato del 15 maggio 96, 5] . La Coordinaciòn de Organizaciones Mapuche denuncia da tempo la logica di conquista che sta portando allo sterminio delle culture altre. Una logica che è anche quella di Benetton.
“Per il nucleo imprenditoriale che governa il mondo – nel quale i governi degli Stati sono solo degli amministratori, degli incaricati – il Wallmapuche è un’area di servizi che fornisce risorse, materie prime, mano d’opera a basso prezzo, mercati, occasioni di investimento.
“E siamo, ancor di più, spazi nei quali esportare inquinamento, spazzatura nucleare ed altri servizi simili” [Map, 14]. Sono le parole di Veronica Huillipan, attivista Mapuche.
“I popoli indigeni vedono con molta preoccupazione e con allarme gli accordi economici multilaterali che i governi dell’America e del mondo vanno adottando.
Ci riferiamo al Trattato di libero commercio, al Patto andino, al Mercosur: accordi adottati senza tener conto della situazione di oppressione politica e marginalità economica” afferma la Carta dei popoli indigeni redatta in occasione di un ‘controvertice’ opposto al secondo Vertice delle Americhe, tenuto in Cile [Avm, marzo-aprile-maggio 1998, 3].
I Mapuche andrebbero benissimo per un melenso manifesto “antirazzista”, ma non devono azzardarsi a mettere in discussione i piani mercantilisti che regalano il loro territorio ai nuovi padroni coloniali.
Da El Maitèn, Patagonia, a Bronte, Sicilia, fino a Istanbul, Turchia, un salario da fame è meglio di niente: qui antiche culture sono svendute ogni giorno e l’elemosina delle multinazionali viene persino invocata.
Il sopruso si chiama scelta strategica, lo sfruttamento diventa investimento.

interviste
[Interv1]Intervista di Antonello Mangano all’ingegnere Giuseppe Linguaglossa, consulente della Bronte jeans, Bronte, 16 aprile 1998.
[Interv2]Intervista di A.M. a Gino Mavica, sindacalista della Cgil di Bronte, Catania, 17 aprile 1998.
[Interv3]Colloquio di A.M. con Enzo Rossi, responsabile dei “Giovani Comunisti” di Bronte, 16 aprile 1998.
[Interv4]Intervista ad un’operaia della Bronte jeans (“Lindbergh”, Radio Popolare, 17 dicembre 1997).
[Interv5]Intervista di Nicola Atalmi a Luciano S., Treviso, 30 aprile 1998.
[Interv6]Intervista di Nicola Atalmi a Sergio P., Treviso, 5 gennaio 1998.
[INTERV7]Intervista di Nicola Atalmi a A.L. funzionario Questura di Treviso, 24 settembre 1998.

documenti
[Auk]“Benetton – los colores unidos de la explotaciòn“, documento diffuso internazionalmente a partire dal 1997 dal gruppo Aukache (Equipo de Antropologia Forense), Moròn – Buenos Aires, Argentina.
[Bnt1]“Edizione Holding” – Cartella informativo-promozionale distribuita alla stampa in occasione dell’inaugurazione del punto vendita Benetton di Messina, l’8 novembre 1997.
[Bnt2]“La pubblicità Benetton: storia, premi e censure”: cartella informativo-promozionale di Benetton group distribuita alla stampa in occasione dell’inaugurazione del punto vendita Benetton di Messina, l’8 novembre 1997.
[Bnt3]Dichiarazioni di Umberto Dardi, direttore relazioni industriali di Benetton, in occasione dell’incontro fra il “Coordinamento lombardo Nord/Sud del mondo” e Benetton, presso la sede Federtessili di Milano, Martedì 7 aprile 1998.
[Bnt4]Lettera inviata da Luciano Benetton al “Coordinamento lombardo Nord/Sud del mondo” e p.c. ad ACU, Adiconsum, Adusbef, Codacons, Movimento difesa del cittadino, Segreterie nazionali CGIL, CISL, UIL; Filta, Filtea, Uilta nazionali, 30 gennaio 98.
[Cnms]“Perché è necessario introdurre dei sistemi di controllo indipendente”, documento del Centro nuovo modello di sviluppo distribuito a Roma il 18 aprile 98, in occasione del convegno “Diamo un calcio allo sfruttamento – codici di condotta e sistemi di controllo a difesa dei bambini e dei diritti dei lavoratori nell’epoca della globalizzazione”.
[Ctn]Colloquio telefonico tra una esponente del “Coordinamento lombardo Nord/Sud del mondo” e l’onorevole Franco Catania della Bronte jeans, 10 aprile 98, ore 18.
[Esp]Esposto-denuncia di diciotto lavoratrici della “Faby confenzioni” all’Ispettorato del lavoro ed alla Procura della Repubblica di Catania. Bronte, giugno 1994.
[Map]“Argentina – la lotta del popolo Mapuche” – raccolta di comunicati a cura (tra gli altri) del SIMA (Solidarietà italiana con le madri argentine di Plaza de Mayo), aprile 1997.
[Map2]Incontro pubblico tenuto a Milano, il 24 settembre 1998, presso la sede delle Acli, a cura dell’associazione “Specchio del mondo”. Le citazioni sono tratte dall’intervento di Domingo Raìm, delegato dell’organizzazione Mapuche Consejo de todos las tierras.
[Om]
Corte di assise di Catania, sentenza contro Aiello Giuseppe + 94, n.20/96 reg. (1997). Sentenza del processo “Orsa maggiore” contro la mafia catanese.
[Rial]Disposizioni in materia di contratti di riallineamento retributivo, art. 23 l.196/97 e successive modifiche (pacchetto Treu).
[Rial2]Accordo di riallineamento ai sensi delle leggi 608/96; 196/97; l.reg.30/97 tra Cna – Claai – Confartigianato – Casa e Cgil – Cisl – Uil; 15 luglio 1998.
[Tab]Dati sulle imprese tessili nell’area di Bronte forniti dalla Cgil su informazioni dell’Ufficio provinciale per il lavoro.
[Vis1]Visura della Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Catania, relativa alla Bronte jeans srl, 2 ottobre 97.
[Vis2]Visura della Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Catania, relativa alla “Artigianato tessile” ditta individuale, 28 ottobre 97.
[Vis3]Visura della Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Catania, relativa al “Consorzio siciliano manifatturiero”, 16 marzo 98.
[Viva]Camilo Sanchez – Mariano Thieberger, La Patagonia alambrata, in “Viva – la revista del Clarìn”, 22 marzo 1998.
[Viva2]Alejandro Rotman, El nuevo desembarco, in “Viva”, 22 marzo 1998.
[Viva3]Carlos Maestro, Como proteger nuestra Patagonia, in “Viva”, 22 marzo 1998.

quotidiani e riviste

AvmAukiñ – Voz Mapuche
ClaClarìn
ClsColors – magazine di Benetton
CorCorriere della Sera
EspL’Espresso
G&PGuerre & Pace
GazGazzetta del Sud
GdsGiornale di Sicilia
GztIl Gazzettino – edizione di Treviso
IcI Care – Equonomia
IcsIl chicco di senape – Pisa
LibLiberazione
LmdLe monde diplomatique
MndIl mondo
MnfIl manifesto
PanPanorama
Repla Repubblica
Rafla Repubblica Affari & Finanza
SicLa Sicilia
SttSette, settimanale del Corriere della Sera
TriLa Tribuna di Treviso
VidVida cotidiana

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