I vini di Alcamo, le olive di Campobello. Dietro i prodotti d’eccellenza della provincia di Trapani ci sono ancora le storie estreme di chi dorme in piazza o in una baracca di cartone. E lotta per pochi euro al giorno
Uno taglia a cubetti l’agnello, l’altro prepara la padella, il terzo accende il fornello da campo. Il tè
alla menta bolle in un angolo. Piazza Renda, pieno centro di Alcamo. Un gruppo di tunisini si attrezza per la cena. Quel quadrato di asfalto è la loro casa: cucina e camera da letto. L’armadio è una specie di gabbia metallica dove i vestiti sono stesi ad asciugare.
I migranti che dormono sull’asfalto sono la parte meno presentabile della catena di produzione dei vini bianchi Doc. I prodotti che hanno reso famosa quest’area e creato lavoratori usa e getta per la vendemmia.
Più in là ci sono gruppi di subsahariani. E coperte, sacchi a pelo e materassi appesi agli alberi. Li stanno recuperando in vista della notte. Al centro della piazza, intorno a un tavolino, un gruppo di vecchietti del paese gioca a carte come se nulla fosse.
Tutti sono qui per lo stesso motivo: mettere soldi da parte. Meglio dormire all’aperto che cedere due monete preziose.
Ci sono arabi ormai coi capelli grigi e giovani richiedenti asilo in attesa dei documenti. E c’è anche una terza categoria: africani da tempo in Italia impegnati nella “transumanza”, si spostano seguendo il ritmo delle raccolte e delle stagioni. Sono sempre di meno, decimati dai dolori alle ossa e da un lavoro che ti invecchia a vent’anni. Stanchi di essere braccia senza diritti. Stanchi della fatica bestiale per rinnovare il permesso di soggiorno e racimolare qualche euro. Stanchi di sognare diritti come la disoccupazione agricola. Distrutti dalla sensazione – uguale ogni anno – di ricominciare sempre da zero.
L’alba sorprende i lavoratori che dormono in piazza. È tempo di svegliarsi in fretta e correre al bar. Non per colazione, per vendersi. In breve arrivano i furgoncini con i padroni dei campi e li portano a vendemmiare. “È una situazione che dura da 17 anni”, dice un cronista del luogo.
La baraccopoli è in piena costruzione. Un’anima di pallet, uno strato di cartone e una protezione di plastica per impermeabilizzare. Ecco pronta un’altra baracca. Intorno due asini, cumuli di spazzatura, auto scassate, macerie e residui di un tetto in amianto. “Is it poison?”, chiede un carpentiere ai medici che gli dicono di stare lontano.
Nel 2013 Ousmane Dialle, un giovane senegalese, morì per l’esplosione di una bombola a gas. Un anno più tardi l’ex oleificio Fontane fu attrezzato a centro di accoglienza e intitolato alla sua memoria. Si tratta di un bene confiscato ai clan locali: pare che da lì siano passati i pizzini per Messina Denaro, il boss fantasma che nessuno riesce ancora a catturare. Anche quest’anno il centro dovrebbe riaprire, ma solo per chi è in regola con il permesso di soggiorno.
Nel bar di Goodluck incontriamo Santiago, viene dal Gambia e ha un nome spagnolo perché il padre ha vissuto 25 anni a Barcelona. “Sono contento di vedere dei bianchi, che si siedono qui dentro e parlano con noi”, dice. “Non succede mai”.
Nessuna presa elettrica, per caricare i telefoni si va al centro di fronte; una sola fontana a intermittenza, ma l’acqua la comprano al supermercato perché questa non è potabile.
Incontriamo altri migranti. “In paese c’è chi ci insulta, tornate in Africa, ragazzi con lo scooter che urlano e scappano”. I gambiani parlano inglese, vivono nei Cas, sono in attesa dei documenti o (più frequentemente) dell’esito del ricorso. “I’m waiting for my chance”, dice un ragazzo che faceva il pescatore. Lavora saltuariamente con uva e olive ma non rivela alla famiglia dove sta vivendo: “Siamo in contatto ma non voglio che sappiano in che condizioni sono”.
Un giorno arriverà il suo momento. Molto probabilmente lontano da qui. Qui sei solo braccia a costo zero.
Più in là ci sono gruppi di subsahariani. E coperte, sacchi a pelo e materassi appesi agli alberi. Li stanno recuperando in vista della notte. Al centro della piazza, intorno a un tavolino, un gruppo di vecchietti del paese gioca a carte come se nulla fosse.
Alcamo
“La doccia”, chiedono tutti. “È vero che si può fare la doccia senza pagare? “A qualche chilometro di distanza c’è effettivamente un centro di accoglienza che ha stabilito regole rigide. Si entra documenti alla mano, che vengono fotocopiati e spediti alle autorità. Molti hanno il permesso di soggiorno e potrebbero almeno lavarsi. Ma l’ostacolo sono i due euro per cena, doccia e letto.Tutti sono qui per lo stesso motivo: mettere soldi da parte. Meglio dormire all’aperto che cedere due monete preziose.
Ci sono arabi ormai coi capelli grigi e giovani richiedenti asilo in attesa dei documenti. E c’è anche una terza categoria: africani da tempo in Italia impegnati nella “transumanza”, si spostano seguendo il ritmo delle raccolte e delle stagioni. Sono sempre di meno, decimati dai dolori alle ossa e da un lavoro che ti invecchia a vent’anni. Stanchi di essere braccia senza diritti. Stanchi della fatica bestiale per rinnovare il permesso di soggiorno e racimolare qualche euro. Stanchi di sognare diritti come la disoccupazione agricola. Distrutti dalla sensazione – uguale ogni anno – di ricominciare sempre da zero.
Si può fare la doccia senza pagare?Al centro di accoglienza – forse anche per l’ora tarda – gli operatori non hanno molta voglia di parlare. Intervista in piedi e durata record di sessanta secondi. I due euro sono un rimborso spese, dicono. Tra tende e tavoli di plastica, si respira la solita aria dell’emergenza. Ancora una volta, raccolte di frutta e vendemmie sono gestiti dalle istituzioni come epidemie e terremoti. Ambulanze, tendoni, pasti precotti.
L’alba sorprende i lavoratori che dormono in piazza. È tempo di svegliarsi in fretta e correre al bar. Non per colazione, per vendersi. In breve arrivano i furgoncini con i padroni dei campi e li portano a vendemmiare. “È una situazione che dura da 17 anni”, dice un cronista del luogo.
Campobello di Mazara
A un’ora di distanza, dall’altro versante della provincia, ancora lavoratori in condizioni estreme. Campobello di Mazara. Oltre cento persone sono in attesa di una essere scelti per raccogliere le olive. Ne arriveranno 1500.La baraccopoli è in piena costruzione. Un’anima di pallet, uno strato di cartone e una protezione di plastica per impermeabilizzare. Ecco pronta un’altra baracca. Intorno due asini, cumuli di spazzatura, auto scassate, macerie e residui di un tetto in amianto. “Is it poison?”, chiede un carpentiere ai medici che gli dicono di stare lontano.
Qui Ousmane Dialle trovò la morte per l’esplosione di una bombola a gasAhmed è tunisino, vive in Italia dal 2009. Documenti in regola tramite contratto agricolo e rinnovo alla Questura di Trapani (“mai un problema”). Vive a Barcellona ed è impiegato nei vivai nella zona di Milazzo. Ma lì c’è poco lavoro, quindi cerca di fare la stagione delle olive. La sua casa? Una baracca di legno. L’arredamento? Un materasso sul pavimento.
Nel 2013 Ousmane Dialle, un giovane senegalese, morì per l’esplosione di una bombola a gas. Un anno più tardi l’ex oleificio Fontane fu attrezzato a centro di accoglienza e intitolato alla sua memoria. Si tratta di un bene confiscato ai clan locali: pare che da lì siano passati i pizzini per Messina Denaro, il boss fantasma che nessuno riesce ancora a catturare. Anche quest’anno il centro dovrebbe riaprire, ma solo per chi è in regola con il permesso di soggiorno.
Buona fortuna
In un angolo estremo c’è il locale di Goodluck. È una donna nigeriana che vive in paese, a Campobello, ma qui ha “creato il suo business”. Vende aranciate ghiacciate, burro d’arachidi e cucina per chi non ha tempo. La ricetta migliore? Riso e montone.Nel bar di Goodluck incontriamo Santiago, viene dal Gambia e ha un nome spagnolo perché il padre ha vissuto 25 anni a Barcelona. “Sono contento di vedere dei bianchi, che si siedono qui dentro e parlano con noi”, dice. “Non succede mai”.
Nessuna presa elettrica, per caricare i telefoni si va al centro di fronte; una sola fontana a intermittenza, ma l’acqua la comprano al supermercato perché questa non è potabile.
Incontriamo altri migranti. “In paese c’è chi ci insulta, tornate in Africa, ragazzi con lo scooter che urlano e scappano”. I gambiani parlano inglese, vivono nei Cas, sono in attesa dei documenti o (più frequentemente) dell’esito del ricorso. “I’m waiting for my chance”, dice un ragazzo che faceva il pescatore. Lavora saltuariamente con uva e olive ma non rivela alla famiglia dove sta vivendo: “Siamo in contatto ma non voglio che sappiano in che condizioni sono”.
Un giorno arriverà il suo momento. Molto probabilmente lontano da qui. Qui sei solo braccia a costo zero.
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