Riportiamo le orribili notizie di
questo dossier sulle donne che lavorano nelle serre della Sicilia, ma con la
puntualizzazione che queste necessarie denunce, se non lette nella maniera
corretta, finiscono però per “legittimare” le istituzioni, rendendole al
massimo “neutre”, come se la colpa fosse del caporale o del padrone di turno
(la giornalista lo scrive con le virgolette, forse perché non le piace la
parola mentre effettivamente si tratta di padrone nel senso giuridico e nel
pieno senso di classe!)
E invece le istituzioni sono direttamente
o indirettamente coinvolte (che cosa sono i “padroni” se non quelle stesse
persone che partecipano alle elezioni locali o nazionali, fanno parte di enti
ecc. ecc.) quando non fanno controlli seri, non fanno leggi e le fanno
applicare veramente… se fossero onesti, e non lo sono, direbbero che non
possono fare tutto questo perché appunto fanno parte del sistema!
Violenze e sfruttamento
Le donne fantasma delle serre
Marina di Acate
Alina trasporta due cassette di
melenzane alla volta con il suo enorme pancione. Ha 25 anni, è al nono mese di
gravidanza, non ha mai fatto un’ecografia né un controllo e continua a lavorare
senza tregua. Lili di anni ha 46, la schiena piegata in due dal dolore, ha
imparato in fretta a stare in equilibrio su quella sorta di carrello “a pedali”
che le serve per raccogliere i prodotti in alto della serra. Mariana, invece,
non riesce più a trovare un contratto. Lei è una delle epoche che ha osato
denunciare quel “padrone” che la faceva lavorare senza pagarle quanto pattuito,
se n’è andata e adesso nessun altro la vuole. Di Valentina invece non si sa più
niente. È la più giovane di loro, ha solo 19 anni.
Nove ore al giorno nelle serre e
poi, dal tardo pomeriggio alla era, in un casolare a soggiacere ai piaceri del
padrone e dei suoi amici. Gratis, o quasi, naturalmente. Il suo fidanzato, un
bracciante tunisino, ha provato a difenderla, a tirarla fuori da lì, ha chiesto
aiuto agli operatori di una associazione onlus di cui ha deciso di fidarsi, ma Valentina
non ha voluto sentirne, terrorizzata di paura. Lui lo hanno massacrato di
botte, lei è sparita, portata via in un’altra 2campagna”, lontano da occhi
indiscreti.
Benvenuti nell’inferno di
Macconi, un triangolo di terra tra Acate Vittoria e Scoglitti, decine di
chilometri di “plastica”, una sconfinata distesa di serre, zona franca, un Far
west assoluto che è diventata allo stesso tempo terra promessa e prigione delle
schiave romene del terzo millennio.
Sfruttate, picchiate, violentate,
costrette a vivere in condizioni disumane nell’assoluta (o quasi) indifferenza
della popolazione locale e, soprattutto, rassegnate ad una condizione
drammatica dalla quale difficilmente accettano di essere aiutate ad uscire
perché il loro unico scopo è quello di guadagnare quel che serve loro per
mantenere i loro figli rimasti in patria o per ricostruirsi una casa nel loro
paese dove comunque intendono tronare.
Il miraggio delle tante Alina,
Cornelia, Mariana sono le 52 giornate di lavoro, naturalmente
contrattualizzato, che servono loro per poi ottenere l’indennità di
disoccupazione agricola. Poco importa se poi le giornate di lavoro effettivo
sono più del doppio, se non vengono pagate più di venti euro al giorno per
dieci, dodici ore di lavoro, e seppur di avere quel maledetto contratto a
condizioni falsate devono sopportare di tutto. Anche di esser violentate sotto
la minaccia di una pistola o di essere costretta a improvvisarsi ballerine di
lap dance e prostitute in una delle discoteche della zona.
Il martedì, all’ospedale di
Vittoria, è giorno di aborti. Qui sono quasi tutti obiettori di coscienza e
così l’equipe medica arriva dagli ospedali vicini. C’è una domanda altissima da
soddisfare, Vittoria (in percentuale rispetto al numero degli abitanti) ha il
più alto numero di interruzioni di gravidanza d’Italia, più di cento all’anno
di queste il 40 per cento riguardano donne romene.
“Ma sono molte di più - spiega
Francesca Commissario, una delle operatrici della associazione Proxima che è
riuscita a guadagnarsi un rapporto di fiducia con molte di queste donne – bisogna
considerare che questi numeri riguardano solo chi ha i documenti a posto e può
usufruire dei servizi sanitari. Moltissime donne che restano incinte vengono
messe sul primo autobus per la Romania, mandate ad abortire lì dove tutto è più
facile e con meno regole visto che praticano interruzioni di gravidanza anche
dopo il terzo mese, e poi fatte tornare. Qui, riuscire ad approdare ai servizi
essenziali, per questa gente è una fatica improba. Basti pensare che per molti
dei loro bambini non riusciamo neanche ad ottenere una visita pediatrica, per
altro dovuta per legge”.
I bambini, anche loro qui, tra
questa immensa teoria di serre dove è impossibile orientarsi, dove non esistono
indirizzi, dove se chiami un’autoambulanza non riesce ad arrivare, dove polizia
e carabinieri non entrano e dove, naturalmente, non arrivano i servizi
pubblici, sono dei “fantasmi” che vivono in assoluto isolamento in balia dei “padroni”
delle campagne in cui lavorano i genitori. Pochissimi sono quelli che vanno a
scuola, gli altri aspettano chiusi in questi tuguri che di giorno sembrano
deserti, abbandonati da anni e che solo all’imbrunire si animano con
l’accensione di qualche piccola luce o di un braciere su cui cuocere quel poco
che c’è da mangiare.
Ad aprile, quando finalmente
hanno arrestato il suo padrone-aguzzino, che l’aveva mandata ad abortire be
quattro volte, Lucia, con il pensiero ai sei figli rimasti in Romania pe i
quali ha subito un inferno durato nove anni, ha detto: “io sono convinta che
queste serre molti di ni ci sono morte, tanto qui non se ne accorgerebbe nessuno”.
Come nessuno si è accorto di
alcune terribili morti, di otto braccianti tunisini stroncati giovani da tumori
probabilmente causati dal lavoro a mani nude e senza alcun dispositivo di
sicurezza a contatto quotidiano con sostanze chimiche.
A sollevare il caso la Cgil
tunisina che si è fatta portavoce delle domande delle giovani vedove che ora
reclamano, ovviamente con possibilità quasi nulle, una pensione di reversibilità
all’Italia,
Purtroppo questa è una condizione
che non riguarda solo gli immigrati – dice Peppe Scifo delle Cgil – non
esistono protezioni per i lavoratori né nelle grandi né nelle piccole aziende.
Nel Ragusano la presenza della comunità tunisina è fortissima ormai da 30 anni
e ora, evidentemente, si cominciano a evidenziare le conseguenze di una così
lunga esposizione al rischio. Non abbiamo ancora dei numeri, stiamo cercando di
fare una ricognizione”.
L’emporio su cui sventola la
bandiera romena fino a qualche tempo fa era l’unico punto di aggregazione di
questa comunità che resta sfilacciata. Adesso, però, a Macconi, il presidio
della Caritas due volte la settimana è diventato un riferimento certo. Vengono
a decine, anche facendo chilometri a piedi, per chieder un aiuto nell’ottenere
documenti, per una visita di base con i medici volontari, per chiedere farmaci,
ama anche per u giro alla “boutique”, da cui escono con grandi sacchi pieni di
vestiti domenica c’è un battesimo e bisogna vestirsi eleganti.
“L’invisibilità di questa gente –
dice Ausilia Cosentini, coordinatrice di Proxima – è l’elemento fondante di
questa condizione di schiavitù perché consente alla comunità locale e alle
istituzioni di non occuparsene, il nostro lavoro è quello di inserire le donne
vittime di sfruttamento in programmi di protezione e interazione sociale, ma
facciamo una grande fatica perché il loro stato di vulnerabilità è tale che
quasi sempre preferiscono accettare la condizione di assoggettamento e
continuare a lavorare. I numeri la dicono lunga: in dieci anni ci sono state
solo due denunce di abusi sessuali. E negli ultimi due anni delle 269 persone
che abbiamo contattato con i nostri servizi di emersione solo 23, meno del
dieci per cento, hanno accettato di intraprendere un percorso di salvezza”.
La Repubblica Palermo
20/10/15
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