Vigili aggrediti dai rom? La verità in un video è un'altra!
Tre vigili aggrediti al campo nomadi di lungo Stura Lazio mentre cercano di liberare delle baracche sequestrate e una persona arrestata. È successo il 29 settembre,- così dicevano - ma al processo contro l’aggressore la difesa ha mostrato dei video che contraddicono in parte la versione degli agenti. In particolare i poliziotti hanno negato di aver puntato un’arma ad altezza uomo. Le immagini però sembrano dire il contrario.
Le famiglie sfrattate dal campo non lasciano lungo Stura Lazio
Reti e trincee per fermare il rientro
nelle aree sotto sequestro
«Scusa, ma dove credevate che andassero?» Florin, all’ingresso della sterrata
che porta alle baracche, allunga il braccio verso la destra, dove si sono già
sistemate le ultime famiglie. In fondo alla stradina circondata dai rifiuti c’è
Marta, la madre del bimbo di tre mesi che lunedì si era rifiutata di seguire,
senza il marito, i volontari della Croce Rossa. C’è il furgone di Joan, il rom
di Braila in Italia da 12 anni insieme alla moglie e i quattro figli. Uno dopo
l’altro, compaiono quasi tutti i volti dei nomadi, che l’altro ieri hanno
occupato per due ore gli uffici degli assistenti sociali di via Bologna.
Sgomberati dal campo, hanno trovato tutti un rifugio nell’ultimo lotto rimasto
in piedi.
Le ruspe, però, arriveranno anche qui. Su un fazzoletto di terra di poche decine di metri quadrati, dove adesso sono ammassate un centinaio di persone. L’abbattimento dell’ultimo pezzo di bidonville, quel che resta del più grande accampamento torinese dove una volta si contavano duemila persone, è annunciato entro l’anno: forse già a novembre.
CARTELLI IN DUE LINGUE
Da ieri, lungo Stura Lazio è presidiato giorno e notte dalla polizia. Per evitare nuovi ingressi nell’area sotto sequestro, sono state create delle vere e proprie trincee: buche profonde un metro, protette da delle reti da cantiere. E gli avvisi di sequestro, a scanso di equivoci, sono in due lingue: italiano e romeno.
Per il momento, gli unici che si vedono passeggiare tra quel che resta delle baracche, sono gli uomini della Croce Rossa. Le loro tute sfilano tra le macerie guardate con diffidenza, al di là della rete, dagli ultimi sopravvissuti al programma di demolizione: «Sono poliziotti anche loro – dice un ragazzo –. E, come tutti gli altri, alla fine nemmeno loro ci hanno davvero aiutato».
«QUI LA NOSTRA CASA»
Rodika scarica borsoni di vestiti dal suo furgone. «Siamo arrivati qui 15 anni fa da Timisoara – racconta -, oggi non sapremmo davvero dove spostarci. Abbiamo tre figli: i più piccoli, cinque e dieci anni, vanno a scuola. La nostra casa è qui. Ma nel programma di integrazione, per noi, nessuno ha trovato più spazio».
Tanti «sfrattati» hanno chiesto aiuto all’avvocato Gianluca Vitale, lo stesso legale che aveva seguito il ricorso alla Corte europea presentato da cinque famiglie dopo il primo grande sgombero in Lungo Stura, lo scorso febbraio. «E le ragioni che avevano portato la Corte a sospendere il piano di demolizione – spiega – sono le stesse di oggi. Queste persone chiedono soltanto una soluzione alternativa, non per forza provvisoria, alla vita nel campo. Ritengo sia fondamentale trovare una soluzione, almeno per i nuclei composti da bambini, malati e anziani, prima ancora che le loro baracche siano rase al suolo dalle ruspe».
IL PROCESSO AD ARAMIS
Intanto, nomadi e antagonisti si mobilitano per il processo ad Aramis, il giovane rom che alla fine di settembre aveva aggredito e mandato all’ospedale tre agenti, di cui due donne, del Nucleo Nomadi. La sua famiglia aveva tirato su una baracca nel lotto sgomberato all’inizio dell’anno. Durante il controllo degli agenti li ha colpiti con calci e pugni. Opposta la versione dei nomadi presenti, che dicono che il ragazzo sarebbe stato picchiato senza motivo. Accuse raccolte e rilanciate dall’associazione «Gattonero Gattorosso» che oggi, alle 11 davanti al tribunale, ha chiamato a raccolta «tutti gli antagonisti» in occasione della prima udienza.
Le ruspe, però, arriveranno anche qui. Su un fazzoletto di terra di poche decine di metri quadrati, dove adesso sono ammassate un centinaio di persone. L’abbattimento dell’ultimo pezzo di bidonville, quel che resta del più grande accampamento torinese dove una volta si contavano duemila persone, è annunciato entro l’anno: forse già a novembre.
CARTELLI IN DUE LINGUE
Da ieri, lungo Stura Lazio è presidiato giorno e notte dalla polizia. Per evitare nuovi ingressi nell’area sotto sequestro, sono state create delle vere e proprie trincee: buche profonde un metro, protette da delle reti da cantiere. E gli avvisi di sequestro, a scanso di equivoci, sono in due lingue: italiano e romeno.
Per il momento, gli unici che si vedono passeggiare tra quel che resta delle baracche, sono gli uomini della Croce Rossa. Le loro tute sfilano tra le macerie guardate con diffidenza, al di là della rete, dagli ultimi sopravvissuti al programma di demolizione: «Sono poliziotti anche loro – dice un ragazzo –. E, come tutti gli altri, alla fine nemmeno loro ci hanno davvero aiutato».
«QUI LA NOSTRA CASA»
Rodika scarica borsoni di vestiti dal suo furgone. «Siamo arrivati qui 15 anni fa da Timisoara – racconta -, oggi non sapremmo davvero dove spostarci. Abbiamo tre figli: i più piccoli, cinque e dieci anni, vanno a scuola. La nostra casa è qui. Ma nel programma di integrazione, per noi, nessuno ha trovato più spazio».
Tanti «sfrattati» hanno chiesto aiuto all’avvocato Gianluca Vitale, lo stesso legale che aveva seguito il ricorso alla Corte europea presentato da cinque famiglie dopo il primo grande sgombero in Lungo Stura, lo scorso febbraio. «E le ragioni che avevano portato la Corte a sospendere il piano di demolizione – spiega – sono le stesse di oggi. Queste persone chiedono soltanto una soluzione alternativa, non per forza provvisoria, alla vita nel campo. Ritengo sia fondamentale trovare una soluzione, almeno per i nuclei composti da bambini, malati e anziani, prima ancora che le loro baracche siano rase al suolo dalle ruspe».
IL PROCESSO AD ARAMIS
Intanto, nomadi e antagonisti si mobilitano per il processo ad Aramis, il giovane rom che alla fine di settembre aveva aggredito e mandato all’ospedale tre agenti, di cui due donne, del Nucleo Nomadi. La sua famiglia aveva tirato su una baracca nel lotto sgomberato all’inizio dell’anno. Durante il controllo degli agenti li ha colpiti con calci e pugni. Opposta la versione dei nomadi presenti, che dicono che il ragazzo sarebbe stato picchiato senza motivo. Accuse raccolte e rilanciate dall’associazione «Gattonero Gattorosso» che oggi, alle 11 davanti al tribunale, ha chiamato a raccolta «tutti gli antagonisti» in occasione della prima udienza.
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