Per conoscere questa posizione pubblichiamo la Relazione introduttiva al convegno di Eurostop a Bologna “Stop Minniti: Ordine pubblico o giustizia sociale?"
il modello repressivo di Minniti, più “sabaudo” che fascista di Sergio Cararo.
A maggio di quest’anno Eurostop proprio da Bologna, ha lanciato un appello contro la repressione e per la difesa delle libertà democratiche, un appello che ha raccolto in pochi giorni decine di adesioni di giuristi, sindacalisti, accademici, attivisti sociali e politici.
In questi mesi, i fatti si sono incaricati di confermare l’allarme contenuto in quell’appello e l’urgenza di sbarrare la strada a misure che stanno configurando nel nostro paese uno stato di polizia. Il modello Minniti questo sta realizzando.
Abbiamo scelto di fare questo convegno proprio a Bologna il 23 settembre, non solo perché da qui è partito l’appello di maggio, ma perché in questa città esattamente quaranta anni fa si svolse il “convegno contro la repressione” organizzato dal movimento del ’77.
Quel convegno fu anticipato da un dibattito dentro il movimento sul pericolo della “germanizzazione”, ossia un modello che coniugava repressione e redistribuzione tramite il welfare,
caratteristico delle socialdemocrazie europee.
A Bologna dunque, quel modello trovava la sua conferma: da un lato il modello emiliano del Pci attento ad assicurare servizi, welfare, pace sociale e dall’altro, dentro questo modello, si videro un manifestante ucciso dai carabinieri, i carri armati nelle strade, centinaia di arresti e il ministro degli Interni (quel Cossiga che in una foto abbraccia quasi paternamente il suo erede Minniti) pianificare il fatto che a quel movimento bisognava spezzare le reni, con ogni mezzo.
Ma perché scatenare una repressione frontale, anche sul piano ideologico e culturale, contro il movimento del ’77? Perché in qualche modo esso intuì il modello sociale che si voleva imporre al nostro paese fondato sulla precarietà, la flessibilità e la restaurazione del comando capitalistico nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. La repressione contro il movimento fu il presupposto per l’azzeramento materiale ed ideologico delle conquiste politiche e sociali del movimento operaio e democratico dal dopoguerra fino agli anni ’70 di cui la sconfitta alla Fiat nel 1980, preceduta dai blitz di Dalla Chiesa e della magistratura, fu lo snodo strategico che ha cambiato una intera fase storica.
Ma in questo convegno non vogliamo parlare di storia e di quaranta anni fa, lo faranno alcuni interventi di storici bolognesi come Sassi e Gattei, perché avere memoria delle cose serve a lottare meglio oggi.
Il problema è capire con cosa abbiamo a che fare oggi sul piano del modello repressivo e come affrontarlo. Innanzitutto, a differenza degli anni ’70 – e se volete anche del ventennio fascista – non è più un modello repressivo/redistributivo, oggi insomma c’è poca o niente carota e tanto bastone. Le classi dominanti oggi non hanno e non vogliono redistribuire niente, al contrario concepiscono l’impoverimento e le disuguaglianze come una necessità per l’accumulazione delle risorse nei settori economici più integrati nel mercato, per sopravvivere dentro la crisi e la competizione globale. Siamo in presenza di un processo di concentrazione e centralizzazione brutale delle ricchezze ispirato apertamente dalle classi dominanti che hanno dato vita all’Unione Europea.
Queste classi dominanti non hanno più la preoccupazione di contrastare un movimento operaio e sociale emergente che rivendica spazio politico e potere, al contrario è un modello repressivo si abbatte contro chi si oppone ma in una fase di fortissimo arretramento dei conflitti sociali e sindacali.
L’economista Geminello Alvi alcuni anni fa, diceva che il livello di disuguaglianza della ricchezza nel nostro paese, era tornata ai livelli del 1881. In tal senso il modello Minniti somiglia in molti aspetti più al modello autoritario sabaudo (quello della monarchia dei Savoia che impose la spoliazione del resto del paese per favorire l’accumulazione capitalistica nel Nord) piuttosto che al ventennio fascista. Diciamo che in esso c’è più il codice penale di Zanardelli (1889-1930) che il Codice penale fascista di Rocco. E la monarchia oggi non è quella sabauda ma quella europea.
Abbiamo di fronte un sempre più palese modello politico autoritario di società in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità, colpendo preventivamente e repressivamente chi ritiene che l’ordine di tali priorità vada rovesciato e quindi oppone resistenza. L’Italia emersa in questi anni di restaurazione autoritaria sul piano sociale, giuridico, politico si va conformando come una vera e propria vendetta “di classe” contro ciò che rappresentano lavoratori e classi popolari, intellettuali progressisti e attivisti politico/sociali.
Il problema con cui dobbiamo misurarci è fare in modo che tale modello politico-repressivo venga contrastato e se possibile costretto alla ritirata. Con questo convegno vogliamo discutere il come mettere in campo un percorso inclusivo ed efficace a tale scopo.
A questa logica di guerra contro i poveri sono state conformate le nuove leggi in materia di ordine pubblico, decoro urbano, immigrazione. Le scene che abbiamo visto questa estate ne sono la conferma più brutale. E fino ad adesso dobbiamo solo alla vergogna delle “tre scimmie” – non vedo, non sento, non ne parlo – il fatto che non si abbia consapevolezza di quanto sta avvenendo ai migranti sull’altra sponda del Mediterraneo, dove tra l’altro ben presto vedremo in azione il colonialismo del XXI Secolo con i soldati e le multinazionali europee che si stabiliranno in Africa con il pretesto di “aiutarli a casa loro”. Una vergogna di cui, se non agiremo per tempo e con forza, dovremo sentire vergogna per le generazioni a venire.
Abbiamo l’ambizione di volerci opporre a questa situazione, a cominciare dalla denuncia del carattere anticostituzionale delle Leggi Minniti di cui chiediamo l’abrogazione, per finire con la richiesta di una amnistia per i reati commessi durante le lotte e le manifestazioni in difesa della giustizia sociale.
Dal 2011, l’anno in cui è diventato operativo il “pilota automatico” cioè il commissariamento della Bce e delle istituzioni europee sul nostro paese, il numero di attivisti sociali, sindacali, politici, lavoratori, occupanti di case colpiti da provvedimenti repressivi, ha subito una impressionante escalation.
Questi sono i dati tra il 2011 e la prima metà del 2017:
in manifestazioni, picchetti, resistenza a sfratti e sgomberi, azioni di protesta, blocchi stradali, ci sono stati 852 arresti; 15.602 denunce; 385 fogli di via; 221 decreti di sorveglianza speciale; 139 obblighi di firma; 71 obblighi di dimora. Sui decreti di condanna penale, praticamente senza processo, i dati della sola prima metà del 2017 parlano di 46 attivisti condannati. Tra gli attivisti colpiti troviamo soprattutto molti disoccupati organizzati napoletani, attivisti del movimento No Tav, lavoratori dei servizi e della logistica, occupanti di case, attivisti No Border, attivisti del No Muos e antimilitaristi sardi.
Si tratta di un carico penale enorme accumulatosi sulle spalle di migliaia di attivisti che sta diventando una ipoteca pesantissima sulla agibilità politica e le libertà democratiche nel nostro paese. Il problema di una amnistia per i reati connessi e commessi nell’esercizio di conflitti politici, sindacali, sociali va messo all’ordine del giorno.
Come è stato scritto anche di recente dal costituzionalista Paolo Maddalena in occasione degli sgomberi delle case occupate a Roma, i diritti sociali costituzionali sono prevalenti rispetto agli interessi privati, ma solo questi ultimi hanno creato a propria tutela una legalità che si vuole imporre con ogni mezzo. Minniti ha ribadito questa linea anche in una recente conferenza stampa.
Questa contraddizione tra la legalità che invoca l’ordine pubblico e le esigenze naturali – addirittura previste dalla Costituzione – di giustizia sociale contro cui si va impattare quasi quotidianamente, merita di diventare una battaglia generale, politica, ideologica, culturale e diffusa nei sindacati e nelle organizzazioni sociali.
Quindi cominciamo a confrontarci su come agire nel paese gli obiettivi dell’amnistia per i reati sociali, l’abrogazione delle Leggi Minniti-Orlando, le dimissioni dell’uomo forte del dispotismo europeo in Italia, cioè il ministro Minniti.
Bologna, 23 settembre 2017
il modello repressivo di Minniti, più “sabaudo” che fascista di Sergio Cararo.
A maggio di quest’anno Eurostop proprio da Bologna, ha lanciato un appello contro la repressione e per la difesa delle libertà democratiche, un appello che ha raccolto in pochi giorni decine di adesioni di giuristi, sindacalisti, accademici, attivisti sociali e politici.
In questi mesi, i fatti si sono incaricati di confermare l’allarme contenuto in quell’appello e l’urgenza di sbarrare la strada a misure che stanno configurando nel nostro paese uno stato di polizia. Il modello Minniti questo sta realizzando.
Abbiamo scelto di fare questo convegno proprio a Bologna il 23 settembre, non solo perché da qui è partito l’appello di maggio, ma perché in questa città esattamente quaranta anni fa si svolse il “convegno contro la repressione” organizzato dal movimento del ’77.
Quel convegno fu anticipato da un dibattito dentro il movimento sul pericolo della “germanizzazione”, ossia un modello che coniugava repressione e redistribuzione tramite il welfare,
caratteristico delle socialdemocrazie europee.
A Bologna dunque, quel modello trovava la sua conferma: da un lato il modello emiliano del Pci attento ad assicurare servizi, welfare, pace sociale e dall’altro, dentro questo modello, si videro un manifestante ucciso dai carabinieri, i carri armati nelle strade, centinaia di arresti e il ministro degli Interni (quel Cossiga che in una foto abbraccia quasi paternamente il suo erede Minniti) pianificare il fatto che a quel movimento bisognava spezzare le reni, con ogni mezzo.
Ma perché scatenare una repressione frontale, anche sul piano ideologico e culturale, contro il movimento del ’77? Perché in qualche modo esso intuì il modello sociale che si voleva imporre al nostro paese fondato sulla precarietà, la flessibilità e la restaurazione del comando capitalistico nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. La repressione contro il movimento fu il presupposto per l’azzeramento materiale ed ideologico delle conquiste politiche e sociali del movimento operaio e democratico dal dopoguerra fino agli anni ’70 di cui la sconfitta alla Fiat nel 1980, preceduta dai blitz di Dalla Chiesa e della magistratura, fu lo snodo strategico che ha cambiato una intera fase storica.
Ma in questo convegno non vogliamo parlare di storia e di quaranta anni fa, lo faranno alcuni interventi di storici bolognesi come Sassi e Gattei, perché avere memoria delle cose serve a lottare meglio oggi.
Il problema è capire con cosa abbiamo a che fare oggi sul piano del modello repressivo e come affrontarlo. Innanzitutto, a differenza degli anni ’70 – e se volete anche del ventennio fascista – non è più un modello repressivo/redistributivo, oggi insomma c’è poca o niente carota e tanto bastone. Le classi dominanti oggi non hanno e non vogliono redistribuire niente, al contrario concepiscono l’impoverimento e le disuguaglianze come una necessità per l’accumulazione delle risorse nei settori economici più integrati nel mercato, per sopravvivere dentro la crisi e la competizione globale. Siamo in presenza di un processo di concentrazione e centralizzazione brutale delle ricchezze ispirato apertamente dalle classi dominanti che hanno dato vita all’Unione Europea.
Queste classi dominanti non hanno più la preoccupazione di contrastare un movimento operaio e sociale emergente che rivendica spazio politico e potere, al contrario è un modello repressivo si abbatte contro chi si oppone ma in una fase di fortissimo arretramento dei conflitti sociali e sindacali.
L’economista Geminello Alvi alcuni anni fa, diceva che il livello di disuguaglianza della ricchezza nel nostro paese, era tornata ai livelli del 1881. In tal senso il modello Minniti somiglia in molti aspetti più al modello autoritario sabaudo (quello della monarchia dei Savoia che impose la spoliazione del resto del paese per favorire l’accumulazione capitalistica nel Nord) piuttosto che al ventennio fascista. Diciamo che in esso c’è più il codice penale di Zanardelli (1889-1930) che il Codice penale fascista di Rocco. E la monarchia oggi non è quella sabauda ma quella europea.
Abbiamo di fronte un sempre più palese modello politico autoritario di società in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità, colpendo preventivamente e repressivamente chi ritiene che l’ordine di tali priorità vada rovesciato e quindi oppone resistenza. L’Italia emersa in questi anni di restaurazione autoritaria sul piano sociale, giuridico, politico si va conformando come una vera e propria vendetta “di classe” contro ciò che rappresentano lavoratori e classi popolari, intellettuali progressisti e attivisti politico/sociali.
Il problema con cui dobbiamo misurarci è fare in modo che tale modello politico-repressivo venga contrastato e se possibile costretto alla ritirata. Con questo convegno vogliamo discutere il come mettere in campo un percorso inclusivo ed efficace a tale scopo.
A questa logica di guerra contro i poveri sono state conformate le nuove leggi in materia di ordine pubblico, decoro urbano, immigrazione. Le scene che abbiamo visto questa estate ne sono la conferma più brutale. E fino ad adesso dobbiamo solo alla vergogna delle “tre scimmie” – non vedo, non sento, non ne parlo – il fatto che non si abbia consapevolezza di quanto sta avvenendo ai migranti sull’altra sponda del Mediterraneo, dove tra l’altro ben presto vedremo in azione il colonialismo del XXI Secolo con i soldati e le multinazionali europee che si stabiliranno in Africa con il pretesto di “aiutarli a casa loro”. Una vergogna di cui, se non agiremo per tempo e con forza, dovremo sentire vergogna per le generazioni a venire.
Abbiamo l’ambizione di volerci opporre a questa situazione, a cominciare dalla denuncia del carattere anticostituzionale delle Leggi Minniti di cui chiediamo l’abrogazione, per finire con la richiesta di una amnistia per i reati commessi durante le lotte e le manifestazioni in difesa della giustizia sociale.
Dal 2011, l’anno in cui è diventato operativo il “pilota automatico” cioè il commissariamento della Bce e delle istituzioni europee sul nostro paese, il numero di attivisti sociali, sindacali, politici, lavoratori, occupanti di case colpiti da provvedimenti repressivi, ha subito una impressionante escalation.
Questi sono i dati tra il 2011 e la prima metà del 2017:
in manifestazioni, picchetti, resistenza a sfratti e sgomberi, azioni di protesta, blocchi stradali, ci sono stati 852 arresti; 15.602 denunce; 385 fogli di via; 221 decreti di sorveglianza speciale; 139 obblighi di firma; 71 obblighi di dimora. Sui decreti di condanna penale, praticamente senza processo, i dati della sola prima metà del 2017 parlano di 46 attivisti condannati. Tra gli attivisti colpiti troviamo soprattutto molti disoccupati organizzati napoletani, attivisti del movimento No Tav, lavoratori dei servizi e della logistica, occupanti di case, attivisti No Border, attivisti del No Muos e antimilitaristi sardi.
Si tratta di un carico penale enorme accumulatosi sulle spalle di migliaia di attivisti che sta diventando una ipoteca pesantissima sulla agibilità politica e le libertà democratiche nel nostro paese. Il problema di una amnistia per i reati connessi e commessi nell’esercizio di conflitti politici, sindacali, sociali va messo all’ordine del giorno.
Come è stato scritto anche di recente dal costituzionalista Paolo Maddalena in occasione degli sgomberi delle case occupate a Roma, i diritti sociali costituzionali sono prevalenti rispetto agli interessi privati, ma solo questi ultimi hanno creato a propria tutela una legalità che si vuole imporre con ogni mezzo. Minniti ha ribadito questa linea anche in una recente conferenza stampa.
Questa contraddizione tra la legalità che invoca l’ordine pubblico e le esigenze naturali – addirittura previste dalla Costituzione – di giustizia sociale contro cui si va impattare quasi quotidianamente, merita di diventare una battaglia generale, politica, ideologica, culturale e diffusa nei sindacati e nelle organizzazioni sociali.
Quindi cominciamo a confrontarci su come agire nel paese gli obiettivi dell’amnistia per i reati sociali, l’abrogazione delle Leggi Minniti-Orlando, le dimissioni dell’uomo forte del dispotismo europeo in Italia, cioè il ministro Minniti.
Bologna, 23 settembre 2017
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