Emanuele Giordana da il manifesto
I sindacati locali e
il Forum internazionale per i diritti sul lavoro richiamano in causa
Benetton: contrariamente a quanto ha finora sostenuto, nello scorso
marzo l'azienda produceva ancora in quelle fabbriche. Nuovi documenti
sulle forniture recuperati tra le macerie del Rana Plaza.
C'è una data che incastra un pezzo di Italia
nel crollo del palazzo di Dhaka dove dieci giorni fa più di 550 persone
sono morte e dove alacri fabbriche tessili lavoravano al servizio della
moda di regioni lontane. C'è una data, il 23 marzo del 2013 - un mese
esatto prima del crollo del Rana Plaza - che inchioda il Gruppo Benetton
alle sue responsabilità. Una data su una nuova bolla commerciale che,
accanto ad altri nuovi documenti, si aggiunge a quella che fu trovata
giorni fa tra le macerie del palazzo imploso ma che Benetton aveva
liquidato come «one shot», acquisto spot dalla New Wave, fabbrica
bangladeshi di indumenti. Anzi, Benetton dichiarava che quella ditta, su
cui si erano già addensate nubi e dubbi, non era più tra quelle di cui
si serviva. Una presa di distanze sbugiardata due volte. Col primo
documento dopo che Benetton aveva negato di aver mai lavorato con le
fabbriche coinvolte nel crollo. Una seconda volta - dopo la prima
ammissione - ora che sono emersi nuovi documenti, chissà se gli ultimi
di una brutta vicenda cui ora l'azienda trevigiana è chiamata a
rispondere: ai lavoratori del Bangladesh, che la pubblicistica più
moderata definisce «schiavi», e ai clienti degli oltre 5 mila negozi di
un colosso noto per le pubblicità con bimbi multietnici stretti
felicemente negli United Colors of Benetton, marchio diventato
provocatoriamente famoso con gli scatti di Oliviero Toscani (che ha
interrotto la collaborazione nel 2000). Quei documenti li hanno trovati
gli uomini della Bangladesh Garments and Industrial Workers Federation e
del Bangladesh Centre for Worker Solidarity, due sigle sindacali (la
prima del Bangladesh, la seconda che fa capo all'American Federation of
Labor-Congress of Industrial Organizations) che ancora stanno
scandagliando le macerie. Una delle foto mostra chiaramente un foglio
nel quale vengono contestati alcuni capi: bottoni, strappi, sporco. In
alto a sinistra il nome dell'azienda fabbricante, la New Wave, e il nome
del cliente, Benetton. A destra la data, il 23 marzo del 2013, 7 del
pomeriggio. Negli altri documenti, ci sono bolle col nome Benetton o
intestate alla società indiana Shahi Exports Pvt che citano Benetton,
una «scheda controllo misure produzione» (in italiano) con alcune
indicazioni per la manifattura di magliette riconducibile a Benetton e
altro ancora. Nell'insieme dei documenti (l'ordine di cui il manifesto
ha scritto il 30 aprile e quelli odierni), il coinvolgimento di Benetton
è evidente. E la data di uno dei documenti che riproduciamo rivela
quanto negato dalla società: se il 23 marzo, a un mese dal crollo, si
contestava la fattura di certi abiti, come può dire l'azienda trevigiana
che New Wave era ormai fuori dalla lista dei fornitori? Quelle
fotografie sono state passate all'International Labour Rights Forum,
un'organizzazione con base a Washington che difende i diritti dei
lavoratori nel mondo e con meno peli sulla lingua dell'Ilo, l'agenzia
dell'Onu per il lavoro. È stato il Ilrf a passarli a sua volta a un
giornalista dell' International Business Times e a farli così arrivare
anche sul tavolo della campagna Abiti Puliti, che in Italia ha per prima
sollevato il caso Benetton e reso noto il primo documento che la
coinvolgeva. Ora le immagini di quei documenti sono a disposizione dei
lettori de il manifesto e indicano chiaramente date, ordini, tipo di
confezione. Carta, come si dice, che canta e che canta una brutta
musica. Una musica cui Benetton dovrebbe rispondere con un controcanto
meno equivoco rispetto a quanto fatto sinora, prima negando, poi
parlando di uno, massimo due ordini forse addirittura da addebitare a
una sussidiaria. Un modo per stare lontani da una responsabilità che
chiede due risposte: se Benetton non debba concorrere al fondo di
solidarietà che alcune aziende hanno già sottoscritto che ripaghi almeno
in parte le famiglie delle vittime. Se non debba spiegare chiaramente
se intende firmare e quando il Bangladesh Fire and Building Safety
Agreement promosso dall'International Labor Rights Forum e da Abiti
puliti in Italia. Un accordo che impegna le aziende straniere al
controllo sulla salute e la sicurezza degli stabili con verifiche pagate
di tasca propria. In Bangladesh la magistratura va avanti con le
indagini mentre le piazze si riempiono di una nuova fiumana di persone
(
Lettera22
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