La patrimoniale, il lato fiscale della lotta di classe

di Alberto Ferretti

C’è un pezzo di lotta di classe da sempre sottovalutato se non dimenticato in Italia, in nome del quale sarebbe giunto il momento invece di ingaggiare una decisa battaglia politica: quello fiscale, con particolare riguardo, viste le circostanze, all’urgente introduzione di una imposta patrimoniale.

Questa pandemia ha infatti messo in luce le crepe dovute al sottofinanziamento cronico della sanità che ne hanno amplificato a dismisura l’impatto sulle classi lavoratrici e sui ceti popolari. Sottofinanziamento e tagli che hanno da un lato disarticolato la capacità di

risposta del sistema sanitario nazionale, dall’altro indirizzato le risorse verso il privato, a misura dunque di chi se le può permettere e a gran danno di quei lavoratori obbligati a usufruirne a caro prezzo. Per di più, servono ora le coperture al fine di garantire reddito adeguato, e non mera elemosina, ai dipendenti impossibilitati a lavorare a causa delle chiusure di molte attività per ragioni di forza maggiore.

Per far fronte alla crisi sanitaria e sociale servono soldi dunque – tanti maledetti e subito. Dove prenderli? Perché non da coloro che non hanno visto intaccati, se non addirittura aumentati, i propri patrimoni nel corso di questi mesi? Sarebbe ora, in parole povere, di tassare i ricchi. In tal senso, lottare per una patrimoniale sulle grandi ricchezze è più che mai necessario.

E non ce ne vogliano i benestanti, gli industriali e i proprietari d’Italia, di cui sentiamo già le strida contro lo “stato tassatore e comunista”, ma da trent’anni almeno viviamo in un regime di privilegio fiscale per i ricchi, dove le imposte sul capitale, redditi d’impresa e patrimoni diminuiscono, mentre le entrate dello Stato si rifanno sui salari; dove i capitali favoriti dalla tassazione di comodo prendono la via dei mercati finanziari per riconvertirsi in crediti agli Stati stessi, che si legano così mani e piedi all’andamento del mercato e agli interessi dei soggetti – grandi banche, fondi speculativi e società d’investimento – che lo controllano.

Invertire la rotta è una necessità vitale. Al livello sistemico solo il rovesciamento del capitalismo e l’instaurazione di una pianificazione socialista garantirebbero la repressione/gestione di tale processo. Al livello congiunturale tuttavia, la battaglia verte sulle risorse immediatamente disponibili, e i capitalisti conoscono bene le insidie che possono celarsi in un contesto teso come quello odierno. Tanto è vero che hanno già sguinzagliato giornalisti d’accatto, politicanti ed economisti di corte al fine di inquinare il dibattito con la proposta, indecente, di un “contributo di solidarietà” da chiedere ai lavoratori dipendenti, dipinti come privilegiati, percettori di salari fissi che non meritano (in particolare i pubblici, “fannulloni” per definizione).

Come se i lavoratori dipendenti non fornissero già e da sempre quel contributo, ordinario e ineludibile, avendo tutto tassato alla fonte. Come se i salari italiani non fossero poi – come abbiamo avuto modo di analizzare in precedenza nel nostro articolo sulla necessità di introdurre un salaro minimo legale – di gran lunga i più bassi tra quelli dei paesi industrializzati.

Insomma, insieme alla questione salariale e a quella dell’organizzazione dei tempi di lavoro, anche la questione fiscale si configura come campo di battaglia primario e oggetto di aperta contesa nel capitalismo. Non è stata forse la soppressione della patrimoniale e l’instaurazione di una flat tax sui redditi da capitale la prima misura presa dal governo Macron dopo il suo insediamento nel 2017 in Francia? Col logico risultato di far esplodere la distribuzione di dividendi e le ricchezze dello 0,1% dei francesi più ricchi, mentre contestualmente aumentavano a milioni i poveri nel paese.  E in Italia non era forse il leader del  campo dei conservatori, Salvini, a fare della flat tax il cavallo di battaglia elettorale un anno fa? Come si vede, le fazioni della borghesia, superficialmente in contrasto, hanno invece idee chiare sul che fare.

E noi?

Quali sarebbero dunque queste ricchezze da tassare? L’arma retorica usata dai detrattori per spaventare le masse e tentare di alienare l’opinione pubblica dalla patrimoniale è dipingerla come una specie di balzello indiscriminato su ogni casa di proprietà, ogni conto corrente e sulle pensioni, senza soglie. Niente di più falso, è questo un discorso anzi che serve a occultare il punto centrale della questione: ossia che la ricchezza patrimoniale è data da attività reali – immobili, aziende, oggetti di valore, terreni – e attività finanziarie – investimenti in titoli di Stato, azioni, titoli esteri, obbligazioni private, fondi, polizze, depositi-; che questa ricchezza è molto elevata, ma è distribuita in maniera fortemente diseguale, estremamente polarizzata.

Da una indagine condotta a fine 2017, risulta infatti che la ricchezza netta totale delle famiglie italiane è pari a 9.743 miliardi di euro: composta da 5.246 miliardi dalle attività reali e 4.374 miliardi da quelle finanziarie. Il 30% più ricco delle famiglie detiene il 75% del patrimonio netto complessivamente rilevato, con una ricchezza netta media pari a 510.000 euro, mentre la quota di ricchezza netta del 30% più povero è l’1%, in media pari a circa 6.500 euro. Restringendo ulteriormente il perimetro, scopriamo che oltre il 40% di questa quota è detenuta dal 5% più ricco, che ha un patrimonio netto in media pari a 1,3 milioni di euro.

Se è vero d’altronde che quasi sette famiglie su dieci possiedono un’abitazione di residenza, è altrettanto vero che non tutte le case sono uguali: il valore degli immobili posseduti varia enormemente, da una media di circa 70.000 euro nei segmenti più poveri, fino alla media di 800.000 euro per il decimo più ricco della popolazione; solamente un quarto delle famiglie possiede anche altri immobili. La distribuzione delle attività finanziarie riflette la medesima dinamica di polarizzazione: il 30% delle famiglie più abbienti possiede quasi l’80% della ricchezza finanziaria complessiva, di cui oltre metà riconducibile ai nuclei appartenenti al 5% più ricco, che detengono in media circa 220.000 euro in attività finanziarie, allorché il 30% delle famiglie con patrimonio netto più basso ne detiene solo il 4%  (un media di circa 4.000 euro a famiglia).

Le differenze di classe si vedono anche da come è composto il portafoglio finanziario: le famiglie più povere detengono semplici depositi; nelle classi intermedie cresce la quota di titoli di Stato, obbligazioni private e investimenti gestiti da fondi comuni; ma sono soprattutto le famiglie appartenenti al 20 % più abbiente a detenere il grosso, cioè il possesso diretto delle azioni, e ad affidare la gestione delle loro attività finanziarie a operatori professionali. Quelli appunto che operano nei suddetti mercati finanziari.

Ci sarebbe poi da prendere in conto la ricchezza patrimoniale delle società, costituita, oltre che dagli stabilimenti e dai macchinari, dalle azioni e dai conti attivi. Imprese che da tempo approfittano di soglie d’imposizione sempre più basse e sussidi a fondo perduto sempre più consistenti, a cui imporre un aumento straordinario e strutturale della tassazione su dividendi e plusvalenze sembra, di questi tempi, davvero il minimo sindacale.

I dati riassunti in questa breve panoramica ci illustrano una realtà chiaramente in contrasto con la propaganda ufficiale terroristica sulla “casa”, sul “conto corrente” e sulle “pensioni”. La vera questione è che, semplificando brutalmente e aggregando i dati, il 10% più ricco degli italiani detiene il 55% della ricchezza totale; il 5% più ricco concentra addirittura la stragrande maggioranza delle attività finanziarie, cui il 70% della popolazione non ha minimamente possibilità di accedere né ora né mai. Anche volendo ignorare l’immobiliare, il valore delle attività finanziarie ammonta a circa 4300 miliardi di Euro. Persino la più ridicola delle patrimoniali, come quella proposta in Spagna, sarebbe in grado di fornire quelle decine di miliardi necessari oggi a coprire le spese sociali. Eppure tassare queste ricchezze, ripristinare la logica di un meccanismo progressivo, è tabù.

Perché mai? Perché il discorso è dominato proprio da quel 10% che non intende mollare nulla. Un 10% che abbiamo già incontrato nel corso di una nostra precedente indagine sulla composizione sociale italiana. Si tratta di quella

platea di 6 milioni di indipendenti in cui rientrano i differenti strati delle classi proprietarie, dalla grande e media imprenditoria, al piccolo padronato, ai commercianti, professionisti, autonomi reali. Come si può vedere, fra di essi i professionisti e i lavoratori in proprio (commercianti in primo luogo) assommano insieme, al 2019, circa 3,3 milioni di persone, mentre invece i capitalisti veri e propri, insieme a professionisti e commercianti che sfruttano manodopera salariata, sono 1,4 milioni.

La classe proprietaria nel suo complesso dunque, grandi e piccoli capitalisti (e i loro funzionari e amministratori) sempre in competizione tra loro, ma che agiscono in blocco al livello politico contro l’enorme massa del lavoro dipendente. La loro lotta si riversa su questa classe lavoratrice oggi passiva, non rappresentata, disgregata, alla coda. La classe da cui pretendere allora quel “contributo di solidarietà” che loro intendono invece addossare ai lavoratori per fargli pagare la crisi.

Impugnando questa bandiera, sulle base di queste considerazioni, vola in aria tutta la propaganda populista (e quindi interclassista) incentrata sulla retorica dei blocchi compatti: quella del “basso” verso “alto”, del “noi” contro “loro”, del “popolo” contro “un pugno di ricchi apolidi”, di nazioni contro nazioni o del “siamo tutti sulla stessa barca”. La piramide sociale esiste, le relazioni sono multiformi e complesse all’interno della stessa classe capitalistica che non si riduce alle sue figure apicali, in quanto vige il minimo comun denominatore del possesso di ricchezze e mezzi produttivi pur nella gerarchia di ricchezza, centralità e potere dei suoi vari segmenti.

Non c’è da stupirsi allora che quando si espongono i termini reali della questione la stragrande maggioranza degli italiani – tra il 60 e il 70% secondo un recente sondaggio – sia assolutamente d’accordo con la ex sulle grandi ricchezze. Non c’è da stupirsi altresì, che tali argomentazioni e sondaggi siano perlopiù occultati dai media e dalla politica.

Il capitalismo è talmente scosso che persino gli istituti finanziari un tempo portavoce dell’ortodossia proprietaria, come il FMI, aprono a sorpresa a tali misure, se possono servire a scongiurare quella “catastrofe” sociale ed economica che tutti temono. Sembra una contraddizione, e in effetti lo è. E come abbiamo già avuto modo di dire, sono queste le contraddizioni sulle quali dobbiamo innestare le nostre parole d’ordine unificanti. Nella consapevolzza che dare battaglia politica per una patrimoniale, per la progressività fiscale, è pertanto l’unica opzione realistica in termini di reperimento immediato di risorse necessarie alla difesa dei lavoratori dipendenti, precari e disoccupati, al reddito per tutti, al fine di ricomporre la falsa contrapposizione tra salute e lavoro. Poiché la soluzione non sta nell’essere obbligati a scegliere, ma privare una parte della società dei suoi privilegi per permettere all’altra, maggioritaria, di non doversi sacrificare, di non cadere nel ricatto, di avere entrambi: salute e reddito. Pagati dai ricchi.