di Luca Cellini,
.....per pochi spiccioli, gli uomini e le donne siriani scampati
all’inferno e rifugiati in Turchia, ma anche i loro bambini (il capitale non
pone limiti d’età), continuano a lavorare per dodici ore al giorno alla
confezione di abiti dei prestigiosi marchi della moda occidentale. Alcune
significative testimonianze dell’ultima frontiera di uno dei business più
indecenti sono state rivelate, con prove inoppugnabili, da un’inchiesta della
televisione britannica. Vista la portata delle fonti, le notizie sono circolate
molto anche da noi ma per lo più restano offuscate nel rumore di fondo della
guerra e nella distrazione generale che accompagna l’abitudine al dominio.....
Il più giovane di loro ha 15 anni,
e lavora più di dodici ore al giorno per guadagnare ancora meno
degli altri. Tutto il giorno stira vestiti, prima che questi vengano spediti nel Regno Unito, per poi essere distribuiti nelle grandi catene di distribuzione commerciale. Comincia così il servizio d’inchiesta di Darragh MacIntyre, reporter della BBC che rende pubblico, come vengano sfruttati i rifugiati di guerra siriani insieme ai loro bambini. Costretti a lavorare duramente in cambio di pochissimi spiccioli, per alcuni dei migliori marchi di moda del Regno Unito, senza rispetto alcuno per i loro diritti.
degli altri. Tutto il giorno stira vestiti, prima che questi vengano spediti nel Regno Unito, per poi essere distribuiti nelle grandi catene di distribuzione commerciale. Comincia così il servizio d’inchiesta di Darragh MacIntyre, reporter della BBC che rende pubblico, come vengano sfruttati i rifugiati di guerra siriani insieme ai loro bambini. Costretti a lavorare duramente in cambio di pochissimi spiccioli, per alcuni dei migliori marchi di moda del Regno Unito, senza rispetto alcuno per i loro diritti.
E’ questa l’ultima frontiera del
business “Made in Occidente”, sfruttare
donne e bambini, rifugiati di guerra, in fabbriche che producono vestiti per
marche famose, come ad esempio, Mango, Zara, Marks and Spencer,
Asos, ecc.. E’ questa la dura realtà di centinaia di siriani,
prima costretti ad abbandonare il loro paese per scappare dalla disperazione e
dalla guerra, e che adesso risiedono in Turchia in condizioni precarie e di
assoluto sfruttamento. ...
Ovviamente, tutte le marche
accusate nel servizio, negano ogni forma di responsabilità, si sbracciano a
spiegare che loro avrebbero monitorato accuratamente le loro catene di
produzione ed i loro fornitori, eppure, su quei prodotti pagati a suon lacrime,
sudore e sangue, campeggia bello chiaro il loro logo.
Si nega, anche di fronte
all’evidenza, pure quando la fonte giornalistica citata che ha investigato,
mostra chiaramente le immagini rubate dalle telecamere nascoste, riporta
conversazioni e testimonianze di
decine
di lavoratori siriani, che tutt’ora vengono usati illegalmente in fabbriche
tessili, compresi minorenni, che vengono pagati meno di un dollaro
l’ora, attraverso un intermediario clandestino, ripreso
anch’egli per strada, mentre mercanteggia per il lavoro di queste persone. Uno
di loro, con coraggio racconta persino dei maltrattamenti subiti, arrivando a
dire che “se succede qualcosa ad un siriano, magari si fa male lavorando, lo
buttano via, come uno scarto di un tessuto”.
Eppure è da tempo che molte
organizzazioni di attivisti che si battono per i diritti umani, continuano a
denunciare quotidianamente che questo
tipo sfruttamento lavorativo, è in costante aumento, specie dopo l’arrivo di
milioni di rifugiati siriani, e di altri paesi in guerra, una sorta di atroce e
cinico plusvalore aggiunto, che si nasconde opportunisticamente
dietro le più famose marche di moda, intanto i governi che finanziano le guerre,
continuano a chiudere entrambi, gli occhi da tutte le parti, permettendo questo,
e ben altro. Molti vestiti che noi compriamo, oggi vengono
realizzati in Turchia, perché è vicina all’Europa, e perché oltretutto
la Turchia è
abituata a trattare con gli ordini dell’ultimo minuto. Questo
consente ai rivenditori di non tenere di fatto il magazzino, consentendo loro
sempre più guadagni, in nuovi e scintillanti negozi del centro città oppure in
outlet che sorgono rapidamente in limitrofe aree periferiche
urbane.
L’inchiesta giornalistica mostra
anche, come i minori siriani rifugiati, siano stati impiegati nella produzione
di jeans per marchi come Mango e Zara, fa vedere ragazzini che senza nemmeno una
maschera, spruzzano pericolose sostanze chimiche, tossiche e nocive, per
sbiancare i jeans.
Il marchio inglese Marks
and Spencer dopo l’inchiesta ha dichiarato: “Tutti i nostri
fornitori sono contrattualmente tenuti a rispettare i nostri standard e i nostri
principi etici generali”, che a loro dire comprendono anche un trattamento
“etico e rispettoso” dei lavoratori, aggiungendo a voce alta: “Non tolleriamo
tali violazioni di questi principi, e faremo tutto il possibile per assicurare
che questo non accada di nuovo”.
Peccato sia difficile credergli,
specie perché sorge una domanda, senza questa inchiesta giornalistica, quanto
sarebbero andati ancora avanti permettendo la produzione dei loro capi a quelle
condizioni di sfruttamento? L’inchiesta
di denuncia giornalistica della BBC è stata condotta in un’area d’Istanbul dove
insistono molte lavanderie industriali, una zona fortemente inquinata della
città dove sono state trovate queste fabbriche tessili che si avvalgono appunto,
dello sfruttamento lavorativo di molti rifugiati di guerra dalla
Siria.
Sempre in una di queste fabbriche
tessili di Istanbul, dove vengono prodotti i capi d’abbigliamento per queste
grandi marche, insieme ai rifugiati siriani, sono stati trovati sul posto di
lavoro persino
bambini turchi di età inferiore ai 10 anni. Questo purtroppo è
un racconto incompleto, è solo un piccolo pezzetto della storia, quella che
corre per il mondo e unisce in tanti puntini, sfruttamento selvaggio,
disperazione, imbarbarimento e impoverimento con guerre e distruzione che come
effetto collaterale producono appunto tutto questo.....
Tutto permesso in nome della
“legge di mercato”, e ormai proprio più niente in favore dei diritti della
gente.
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