Piazza Fontana. La strage è di Stato
- Odradek
Pubblichiamo qui la nota editoriale di Odradek, casa editrice militante che ancora oggi ristampa il libro La strage di Stato, opera collettiva di soli 15 compagni. Un miracolo d'altri tempi.
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La strage di piazza Fontana ha cambiato la storia d'Italia. Su questo non esiste praticamente difformità di opinione tra nessuno dei principali o secondari soggetti politici, osservatori, politologi, storici attendibili o contafrottole di bassa lega. Le bombe esplose il 12 dicembre inaugurarono la “strategia delle stragi”, prolungatasi fino al 1980 – quella con il bilancio più alto di vittime, il 2 agosto, alla stazione di Bologna. Tutte incontrovertibilmente stragi di Stato, ovvero stragi compiute da uomini facenti parte direttamente degli apparati più “coperti” dello Stato, oppure da fascisti da loro personalmente organizzati, indirizzati, finanziati, protetti – senza alcuna eccezione – fino al momento di andare in tipografia con questa nuova edizione.
Il libro La strage di Stato ha a sua volta cambiato la storia di questo paese. Non la “mentalità della sinistra”, ma proprio la Storia in senso stretto. Ha infatti impedito che la strage di piazza Fontana raggiungesse il suo scopo: far scattare un “riflesso d'ordine” nel paese, chiudere il biennio rosso '68-'69, rinchiudere nuovamente gli studenti nel ghetto delle scuole e gli operai nell'inferno delle fabbriche, senza più resistenze, contestazioni, antagonismo.
Come è potuto riuscire un libretto scritto da 15 anonimi compagni qualsiasi, alcuni dei quali allora praticamente bambini (con il metro attuale), a fare tanto?
Con l'inchiesta, attenta e non indulgente alle facili suggestioni. Una controinchiesta, più precisamente.
Ma andiamo con ordine.
Lo scopo politico della strage di Milano poteva essere realizzato soltanto se tutta l'Italia fosse rimasta convinta che i responsabili fossero alcuni di quegli “estremisti di sinistra” che quotidianamente attraversavano in corteo le strade della penisola. I più deboli tra quegli “estremisti” – sul piano politico, delle allenze o anche solo nell'immaginario sociale – erano gli anarchici. Loro – fu deciso nelle segrete stanze dei palazzi governativi e di quelli della cospirazione governante – dovevano essere indicati come i responsabili di una mattanza tanto truce quanto ingiustificabile. Non un’azione di guerriglia, per quanto poco comprensibile potesse essere. Una strage casuale, invece, indifferente nella scelta delle vittime. C'è un legame di continuità – ma anche una decisa rottura – con la strage di Portella delle Ginestre, compiuta il primo maggio del '47. Quella infatti aveva preso di mira una manifestazione sindacale, “i comunisti” in festa sotto le bandiere rosse. Troppo facile individuarne i mandanti politici. A Milano nel '69 si prova a rovesciare le parti vittima-carnefice, ma ad esclusivo beneficio dell'immaginario popolare.
Il gioco, si diceva, non riesce grazie alla resistenza del movimento degli studenti, che istintivamente non accetta l’idea stessa che gli anarchici possano essere responsabili di una strage del genere. Ma un ruolo enorme, decisivo, va al movimento operaio, che fin dal primo momento si slega dalla tutela idiota del Pci – altrettanto immediatamente aggregatosi, tramite il proprio quotidiano, l'Unità, al coro dei reazionari che gridavano al “mostro Valpreda”.
Il gruppo di compagni che ha redatto questo libro, giorno dopo giorno, dà corpo alla convinzione di tanti. La strage è di Stato. E lo provano proprio smontando pezzo pezzo l'"inchiesta" poliziesca che per mano del commissario Calabresi, del questore Guida e del capo della squadra politica, Allegra, si erano indirizzate "a colpo sicuro" sugli anarchici.
L'altro elemento che scombina il “piano” di incriminazione di Valpreda e compagni è la morte di Giuseppe Pinelli all'interno dalla questura di Milano. Per giustificare questa morte gli “inquirenti” milanesi fanno ricorso a una massa di “giustificazioni ad hoc” che, nel loro insieme, compongono un quadro senza senso, una massa di contraddizioni che è da sola una ammissione di colpevolezza. Smagliature nella trama della “verità di Stato” che doveva seppellire gli anarchici – e con loro il '68-'69 – sotto l'infamia e la condanna popolare. Dentro queste smagliature gli autori della controinchiesta infilano il robusto cuneo dell'intelligenza politicamente orientata ma niente affatto cieca o preconcetta. Fino a smontare completamente la versione della polizia sia in merito alla strage di piazza Fontana, sia alla morte di Pinelli. I due fatti stanno insieme, indissolubilmente. Se gli anarchici sono innocenti, la polizia è colpevole per la morte di Pinelli. E anche per la strage (sa chi sono i responsabili, o chi l'ha ordinata, ma si muove consapevolmente e volontariamente all'interno dello stesso “disegno criminoso”, indirizzando le indagini nella direzione voluta da chi ha compiuto la strage).
Di qui non si esce. La versione finale della procura di Milano sulla morte di Giuseppe Pinelli (un “malore attivo”; non proprio un suicidio, ma quasi) è un monumento all'impunità dei funzionari dello Stato, all'ipocrisia del potere, alla mai abbastanza riconosciuta dipendenza della magistratura dal potere politico. Il fatto che l'archiviazione delle indagini sulla morte di Pinelli porti la firma di Gerardo D'Ambrosio è la chiusura di un cerchio – logico e politico -, non un “incidente di percorso”. Certo, oltre D’Ambrosio, alcuni altri “santi” dell‘iconografia ufficiale escono male da queste pagine. Lo stesso Calabresi, credibilmente raggiunto da un attentato di sinistra, e Occorsio, ucciso dal neofascista Concutelli, non fanno una gran figura di “democratici”. Ma questo è un problema di chi nel “doppio Stato” crede. Non degli antagonisti.
La controinchiesta non si limita a demolire quella poliziesca. Va un attimo più in là, individuando nei fascisti i possibili “manovali” di una strage decisa “nelle alte sfere”. È straordinario come in questa autentica inchiesta non venga mai smarrito il senso della realtà, della misura, l'attenzione alla verità per come è.
Questo, infatti, non è un libro dietrologico. Non ricostruisce fatti trascegliendo solo gli avvenimenti che possono far comodo alla versione che si intende sostenere. Non chiude gli occhi di fronte alla violenza dicendo – cioè mentendo – che “la violenza è solo fascista”. Sa vedere e distinguere la violenza dei fascisti, quella dello Stato e anche quella del movimento antagonista. Se c'è conflitto – sembra banale dirlo, ma a molti suona oggi quasi come un'eresia – i colpi si prendono, ma si danno anche. Questo libro non ha insomma nulla a che spartire con quella subcultura della “teoria del complotto universale” fiorita negli anni successivi. Gli autori non cadono mai nella trappola della teoria del “doppio Stato”, cara ai dietrologi (pseudo-storici) di ascendenza Pci che si sono, al massimo, limitati a definire le stragi come semplicemente fasciste. Non credono insomma che in Italia sia mai esistito uno “Stato buono” che conviveva conflittualmente con quello “cattivo”. Lo Stato era ed è soltanto uno: l'apparato (i servizi, la polizia, i carabinieri, la magistratura, ecc.) non si muove indipendentemente dal potere politico. Ma lo Stato non è neppure la riproduzione organizzata delle molteplici presenze politiche in parlamento. Esistono anche nell'apparato i “sinceri democratici” o semplicemente i funzionati onesti. Ma la controinchiesta svela senza possibilità di errore come i secondi vengano sempre rimossi, sostituiti, allontanati, quando la loro opera non coincide con le finalità dell'azione generale dell'apparato.
Senza teoria del “doppio Stato” non ci può essere dietrologia. La dimostrazione di una simile affermazione sta tutta nel fatto che quasi quattro anni di governo di centrosinistra (la stessa formula in vigore nel '69, ma con in più una fetta consistente dell'ex Pci) e un ministro dell'interno ex "comunista" non hanno fatto uscire dagli archivi una sola notizia in più sulle stragi e i loro autori. Quando i dietrologi sono andati al governo, insomma, la verità sulle stragi è rimasta occultata esattamente come prima. Il che dimostra non solo la loro malafede, ma l'inattendibilità stessa della “teoria”. In questo senso La strage di Stato è un libro sull'irriformabilità democratica dello Stato, quanto meno di questo paese, sul suo consistere reazionario indipendentemente dal succedersi di governi che se ne servono senza mai metterlo in discussione.
Senza illusioni su una sempre invisibile “parte buona dello Stato”, insomma, ci può invece essere la capacità di vedere le cose come stanno. È questa inchiesta che porta per la prima volta alla ribalta della notorietà nomi che diventeranno tristemente famosi nei decenni successivi: Sindona, Marcinkus, Rauti e tanti altri che ricorreranno come una litanìa in tutti gli scandali a sfondo golpistico tra i '70 e gli '80.
Dopo trent'anni le stragi sono ancora e sempre “impunite”. È un'espressione ormai consunta. Perché mai lo Stato dovrebbe punire se stesso per quello che ha fatto? Perché dovrebbe, se i movimenti che lo misero in crisi, e per la cui repressione la strategia delle stragi prese corpo, non sono più sulla scena politica? Perché dovrebbe criticarsi, se i suoi più accesi critici hanno percorso in pochi anni la via del “pentimento” e l'approdo al liberismo più selvaggio, al bellicismo senza remore, alla distruzione sistematica delle residue garanzie della forza lavoro?
Al contrario, quanti si sono opposti allo Stato stragista – qualcuno anche armi alla mano – sono stati tutti e più che duramente “puniti”. E oltre duecento prigionieri politici di sinistra, e altrettanti esuli, a vent’anni dai fatti, stanno ancora lì a dimostrarlo. Come non mettere a confronto la raffica di assoluzioni nei processi per piazza Fontana, Brescia, l'Italicus, la stessa stazione di Bologna, e i ben trentadue ergastoli dati – e scontati – per il sequestro di Aldo Moro? Come non vedere che i Merlino, i Delle Chiaie, i Tilgher sono tuttora personaggi politicamente attivi, protetti, assistiti, senza aver praticamente mai conosciuto la galera? L'evoluzione degli avvenimenti a partire dal '69 non lascia molti dubbi. Al di là delle diverse teorie e progetti politici dei diversi gruppi armati di sinistra negli anni '70, è storicamente certo – evidente, diremmo – che la straordinaria partecipazione quantitativa alle organizzazioni armate di sinistra trova una delle sue più forti ragioni proprio nella reazione allo Stato delle stragi.
Un libro, dunque, non per “ricordare”. Leggere La strage di Stato serve a capire l'oggi, da dove viene questo paese, da quale storia sorge il presente, di quali infamie sia capace il potere pur di conservarsi. Un libro, ma soprattutto un metodo. Che non è l’esercizio della “memoria” – costa moltissimo e dura sempre troppo poco – ma un modo di guardare il presente. Una diffidenza vigile, una convinzione non contingente nelle proprie ragioni, un’interrogarsi costante. Guardare con gli occhi bene aperti, non credere alle favole dei media, imparare a distinguere sempre (tra il compagno ingenuamente estremista e l'agente provocatore infiltrato, per esempio!). Perché l'antagonismo ha bisogno di intelligenza, soprattutto. Di “rabbia” è fin troppo pieno questo schifo di mondo.
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La strage di piazza Fontana ha cambiato la storia d'Italia. Su questo non esiste praticamente difformità di opinione tra nessuno dei principali o secondari soggetti politici, osservatori, politologi, storici attendibili o contafrottole di bassa lega. Le bombe esplose il 12 dicembre inaugurarono la “strategia delle stragi”, prolungatasi fino al 1980 – quella con il bilancio più alto di vittime, il 2 agosto, alla stazione di Bologna. Tutte incontrovertibilmente stragi di Stato, ovvero stragi compiute da uomini facenti parte direttamente degli apparati più “coperti” dello Stato, oppure da fascisti da loro personalmente organizzati, indirizzati, finanziati, protetti – senza alcuna eccezione – fino al momento di andare in tipografia con questa nuova edizione.
Il libro La strage di Stato ha a sua volta cambiato la storia di questo paese. Non la “mentalità della sinistra”, ma proprio la Storia in senso stretto. Ha infatti impedito che la strage di piazza Fontana raggiungesse il suo scopo: far scattare un “riflesso d'ordine” nel paese, chiudere il biennio rosso '68-'69, rinchiudere nuovamente gli studenti nel ghetto delle scuole e gli operai nell'inferno delle fabbriche, senza più resistenze, contestazioni, antagonismo.
Come è potuto riuscire un libretto scritto da 15 anonimi compagni qualsiasi, alcuni dei quali allora praticamente bambini (con il metro attuale), a fare tanto?
Con l'inchiesta, attenta e non indulgente alle facili suggestioni. Una controinchiesta, più precisamente.
Ma andiamo con ordine.
Lo scopo politico della strage di Milano poteva essere realizzato soltanto se tutta l'Italia fosse rimasta convinta che i responsabili fossero alcuni di quegli “estremisti di sinistra” che quotidianamente attraversavano in corteo le strade della penisola. I più deboli tra quegli “estremisti” – sul piano politico, delle allenze o anche solo nell'immaginario sociale – erano gli anarchici. Loro – fu deciso nelle segrete stanze dei palazzi governativi e di quelli della cospirazione governante – dovevano essere indicati come i responsabili di una mattanza tanto truce quanto ingiustificabile. Non un’azione di guerriglia, per quanto poco comprensibile potesse essere. Una strage casuale, invece, indifferente nella scelta delle vittime. C'è un legame di continuità – ma anche una decisa rottura – con la strage di Portella delle Ginestre, compiuta il primo maggio del '47. Quella infatti aveva preso di mira una manifestazione sindacale, “i comunisti” in festa sotto le bandiere rosse. Troppo facile individuarne i mandanti politici. A Milano nel '69 si prova a rovesciare le parti vittima-carnefice, ma ad esclusivo beneficio dell'immaginario popolare.
Il gioco, si diceva, non riesce grazie alla resistenza del movimento degli studenti, che istintivamente non accetta l’idea stessa che gli anarchici possano essere responsabili di una strage del genere. Ma un ruolo enorme, decisivo, va al movimento operaio, che fin dal primo momento si slega dalla tutela idiota del Pci – altrettanto immediatamente aggregatosi, tramite il proprio quotidiano, l'Unità, al coro dei reazionari che gridavano al “mostro Valpreda”.
Il gruppo di compagni che ha redatto questo libro, giorno dopo giorno, dà corpo alla convinzione di tanti. La strage è di Stato. E lo provano proprio smontando pezzo pezzo l'"inchiesta" poliziesca che per mano del commissario Calabresi, del questore Guida e del capo della squadra politica, Allegra, si erano indirizzate "a colpo sicuro" sugli anarchici.
L'altro elemento che scombina il “piano” di incriminazione di Valpreda e compagni è la morte di Giuseppe Pinelli all'interno dalla questura di Milano. Per giustificare questa morte gli “inquirenti” milanesi fanno ricorso a una massa di “giustificazioni ad hoc” che, nel loro insieme, compongono un quadro senza senso, una massa di contraddizioni che è da sola una ammissione di colpevolezza. Smagliature nella trama della “verità di Stato” che doveva seppellire gli anarchici – e con loro il '68-'69 – sotto l'infamia e la condanna popolare. Dentro queste smagliature gli autori della controinchiesta infilano il robusto cuneo dell'intelligenza politicamente orientata ma niente affatto cieca o preconcetta. Fino a smontare completamente la versione della polizia sia in merito alla strage di piazza Fontana, sia alla morte di Pinelli. I due fatti stanno insieme, indissolubilmente. Se gli anarchici sono innocenti, la polizia è colpevole per la morte di Pinelli. E anche per la strage (sa chi sono i responsabili, o chi l'ha ordinata, ma si muove consapevolmente e volontariamente all'interno dello stesso “disegno criminoso”, indirizzando le indagini nella direzione voluta da chi ha compiuto la strage).
Di qui non si esce. La versione finale della procura di Milano sulla morte di Giuseppe Pinelli (un “malore attivo”; non proprio un suicidio, ma quasi) è un monumento all'impunità dei funzionari dello Stato, all'ipocrisia del potere, alla mai abbastanza riconosciuta dipendenza della magistratura dal potere politico. Il fatto che l'archiviazione delle indagini sulla morte di Pinelli porti la firma di Gerardo D'Ambrosio è la chiusura di un cerchio – logico e politico -, non un “incidente di percorso”. Certo, oltre D’Ambrosio, alcuni altri “santi” dell‘iconografia ufficiale escono male da queste pagine. Lo stesso Calabresi, credibilmente raggiunto da un attentato di sinistra, e Occorsio, ucciso dal neofascista Concutelli, non fanno una gran figura di “democratici”. Ma questo è un problema di chi nel “doppio Stato” crede. Non degli antagonisti.
La controinchiesta non si limita a demolire quella poliziesca. Va un attimo più in là, individuando nei fascisti i possibili “manovali” di una strage decisa “nelle alte sfere”. È straordinario come in questa autentica inchiesta non venga mai smarrito il senso della realtà, della misura, l'attenzione alla verità per come è.
Questo, infatti, non è un libro dietrologico. Non ricostruisce fatti trascegliendo solo gli avvenimenti che possono far comodo alla versione che si intende sostenere. Non chiude gli occhi di fronte alla violenza dicendo – cioè mentendo – che “la violenza è solo fascista”. Sa vedere e distinguere la violenza dei fascisti, quella dello Stato e anche quella del movimento antagonista. Se c'è conflitto – sembra banale dirlo, ma a molti suona oggi quasi come un'eresia – i colpi si prendono, ma si danno anche. Questo libro non ha insomma nulla a che spartire con quella subcultura della “teoria del complotto universale” fiorita negli anni successivi. Gli autori non cadono mai nella trappola della teoria del “doppio Stato”, cara ai dietrologi (pseudo-storici) di ascendenza Pci che si sono, al massimo, limitati a definire le stragi come semplicemente fasciste. Non credono insomma che in Italia sia mai esistito uno “Stato buono” che conviveva conflittualmente con quello “cattivo”. Lo Stato era ed è soltanto uno: l'apparato (i servizi, la polizia, i carabinieri, la magistratura, ecc.) non si muove indipendentemente dal potere politico. Ma lo Stato non è neppure la riproduzione organizzata delle molteplici presenze politiche in parlamento. Esistono anche nell'apparato i “sinceri democratici” o semplicemente i funzionati onesti. Ma la controinchiesta svela senza possibilità di errore come i secondi vengano sempre rimossi, sostituiti, allontanati, quando la loro opera non coincide con le finalità dell'azione generale dell'apparato.
Senza teoria del “doppio Stato” non ci può essere dietrologia. La dimostrazione di una simile affermazione sta tutta nel fatto che quasi quattro anni di governo di centrosinistra (la stessa formula in vigore nel '69, ma con in più una fetta consistente dell'ex Pci) e un ministro dell'interno ex "comunista" non hanno fatto uscire dagli archivi una sola notizia in più sulle stragi e i loro autori. Quando i dietrologi sono andati al governo, insomma, la verità sulle stragi è rimasta occultata esattamente come prima. Il che dimostra non solo la loro malafede, ma l'inattendibilità stessa della “teoria”. In questo senso La strage di Stato è un libro sull'irriformabilità democratica dello Stato, quanto meno di questo paese, sul suo consistere reazionario indipendentemente dal succedersi di governi che se ne servono senza mai metterlo in discussione.
Senza illusioni su una sempre invisibile “parte buona dello Stato”, insomma, ci può invece essere la capacità di vedere le cose come stanno. È questa inchiesta che porta per la prima volta alla ribalta della notorietà nomi che diventeranno tristemente famosi nei decenni successivi: Sindona, Marcinkus, Rauti e tanti altri che ricorreranno come una litanìa in tutti gli scandali a sfondo golpistico tra i '70 e gli '80.
Dopo trent'anni le stragi sono ancora e sempre “impunite”. È un'espressione ormai consunta. Perché mai lo Stato dovrebbe punire se stesso per quello che ha fatto? Perché dovrebbe, se i movimenti che lo misero in crisi, e per la cui repressione la strategia delle stragi prese corpo, non sono più sulla scena politica? Perché dovrebbe criticarsi, se i suoi più accesi critici hanno percorso in pochi anni la via del “pentimento” e l'approdo al liberismo più selvaggio, al bellicismo senza remore, alla distruzione sistematica delle residue garanzie della forza lavoro?
Al contrario, quanti si sono opposti allo Stato stragista – qualcuno anche armi alla mano – sono stati tutti e più che duramente “puniti”. E oltre duecento prigionieri politici di sinistra, e altrettanti esuli, a vent’anni dai fatti, stanno ancora lì a dimostrarlo. Come non mettere a confronto la raffica di assoluzioni nei processi per piazza Fontana, Brescia, l'Italicus, la stessa stazione di Bologna, e i ben trentadue ergastoli dati – e scontati – per il sequestro di Aldo Moro? Come non vedere che i Merlino, i Delle Chiaie, i Tilgher sono tuttora personaggi politicamente attivi, protetti, assistiti, senza aver praticamente mai conosciuto la galera? L'evoluzione degli avvenimenti a partire dal '69 non lascia molti dubbi. Al di là delle diverse teorie e progetti politici dei diversi gruppi armati di sinistra negli anni '70, è storicamente certo – evidente, diremmo – che la straordinaria partecipazione quantitativa alle organizzazioni armate di sinistra trova una delle sue più forti ragioni proprio nella reazione allo Stato delle stragi.
Un libro, dunque, non per “ricordare”. Leggere La strage di Stato serve a capire l'oggi, da dove viene questo paese, da quale storia sorge il presente, di quali infamie sia capace il potere pur di conservarsi. Un libro, ma soprattutto un metodo. Che non è l’esercizio della “memoria” – costa moltissimo e dura sempre troppo poco – ma un modo di guardare il presente. Una diffidenza vigile, una convinzione non contingente nelle proprie ragioni, un’interrogarsi costante. Guardare con gli occhi bene aperti, non credere alle favole dei media, imparare a distinguere sempre (tra il compagno ingenuamente estremista e l'agente provocatore infiltrato, per esempio!). Perché l'antagonismo ha bisogno di intelligenza, soprattutto. Di “rabbia” è fin troppo pieno questo schifo di mondo.
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