Per approfondire che cos’è
il plusvalore assoluto e quello relativo Marx mette a confronto la sua prima
formulazione del processo lavorativo che considerata astrattamente diceva così:
“Se si considera l’intero processo
lavorativo dal punto di vista del suo risultato, mezzo di lavoro e oggetto di
lavoro si presentano entrambi come mezzi
di produzione, e il lavoro stesso si presenta come lavoro produttivo”. E aggiunge, però, che ciò non è sufficiente e che
questo concetto deve essere sviluppato ulteriormente quando si parla di “processo di produzione capitalistico”, perché,
dice: “Finché il processo lavorativo è mero processo individuale, lo stesso lavoratore riunisce in sé tutte
le funzioni” che invece nel
capitalismo si separano. “Nell’appropriazione individuale di oggetti dati
in natura per gli scopi della sua vita, il
lavoratore controlla se stesso.” Nel
capitalismo, invece, egli viene
controllato. E ancora: “L’uomo singolo non può operare sulla natura senza
mettere in attività i propri muscoli, sotto il controllo del proprio cervello.
Come nell’organismo naturale mente e braccio sono connessi, così il processo lavorativo riunisce lavoro
intellettuale e lavoro manuale.” Nel
capitalismo invece, lavoro intellettuale e manuale “si scindono fino
all’antagonismo e all’ostilità.”
Nella trasformazione del
tipo di produzione poi è molto importante notare che il prodotto da individuale diventa sociale: “prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale
da lavoro combinato, le cui membra hanno una parte più grande o più piccola nel
maneggio dell’oggetto del lavoro. Quindi col carattere cooperativo del processo
lavorativo si amplia necessariamente il
concetto del lavoro produttivo e del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più
necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una
qualsiasi delle sue funzioni subordinate.”
Se da una parte quindi il
concetto di lavoro produttivo si amplia, “dall’altra
parte il concetto del lavoro produttivo si restringe.” Perché “La
produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore.
L’operaio non produce per sé, ma per il
capitale. Quindi non basta più che l’operaio
produca in genere. Deve produrre
plusvalore. È produttivo solo
quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve
all’autovalorizzazione del capitale.”
Per chiarire ancora meglio Marx fa un esempio e dice: “Se ci è permesso scegliere un esempio fuori della sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola.” E che questo capitalista “abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale.” È proprio per questo dice Marx che “esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia.”
Dopo questo
importantissimo chiarimento, Marx ripuntualizza cos’è il plusvalore assoluto: “Prolungamento
della giornata lavorativa oltre il punto fino al quale l’operaio avrebbe
prodotto soltanto un equivalente del valore della sua forza-lavoro, e appropriazione di questo pluslavoro da
parte del capitale”. Questa produzione
di plusvalore assoluto “costituisce il fondamento generale del sistema
capitalistico e il punto di partenza della produzione del plusvalore
relativo.”
Per analizzare la
produzione del plusvalore relativo
poi bisogna dividere la giornata lavorativa in due parti: lavoro necessario,
cioè, per così dire, il tempo dell’operaio, e pluslavoro, il tempo del padrone.
Qui “Per prolungare il pluslavoro, il
lavoro necessario viene accorciato con metodi che servono a produrre in
meno tempo l’equivalente del salario.” E abbiamo visto che “Per la produzione
del plusvalore assoluto si tratta soltanto della lunghezza della giornata
lavorativa” mentre per la produzione del
plusvalore relativo si devono rivoluzionare “da cima a fondo i processi tecnici
del lavoro e i raggruppamenti sociali.”
Questa rivoluzione, che continua
ininterrottamente e in maniera straordinaria, è stata possibile solo perché si
è sviluppato “un modo di produzione
specificamente capitalistico” in tantissimi anni “spontaneamente, coi suoi
metodi, coi suoi mezzi e le sue condizioni” prima sottomettendo al capitale formalmente il lavoro, poi con la sottomissione reale di tutto il processo.
Era “sussunzione formale”, come la
chiama Marx, per esempio, quando il capitalista comincia ad avere sotto il suo
comando, a controllare, direttamente, in cambio di un salario, “artigiani i
quali prima lavoravano per se stessi o anche come garzoni di un maestro
artigiano”, quindi pezzi dopo pezzi della produzione, da cui estrae plusvalore
assoluto. Quando poi il capitale si impadronisce di tutte le branche della
produzione: “diventa forma generale,
socialmente dominante, del processo
di produzione” e qui si ha “sussunzione
reale”. Cioè nessun “lavoro” sfugge
più al suo comando e controllo!
Come già detto, nel suo processo
di sviluppo, il capitale ha dovuto trovare il modo di estrarre plusvalore sia
assoluto che relativo dagli operai, ma quando si afferma definitivamente come modo
di produzione, le due forme sembrano confondersi, cioè sembra difficile
distinguere in che modo, sotto quali forme, il capitalista allunga la giornata
di lavoro, oltre all’uso degli altri mezzi come la tecnologia. “Ma se si tiene
presente il movimento del plusvalore”
dice Marx “questa parvenza di identità scompare. Appena il modo di produzione
capitalistico, una volta per tutte, si è insediato ed è divenuto modo di
produzione generale, la differenza fra
plusvalore assoluto e plusvalore relativo si fa sentire, appena si tratta di far salire il saggio del
plusvalore in genere.”
Quando il capitalista prova ad aumentare lo
sfruttamento dell’operaio, e quindi il profitto “presupponendo che la
forza-lavoro venga pagata al suo valore, ci troviamo davanti alla alternativa: data la forza produttiva del lavoro e il suo grado normale di intensità, il saggio del plusvalore si può far salire
soltanto mediante il prolungamento assoluto della giornata lavorativa”
mentre “d’altra parte, dato il limite
della giornata lavorativa, il saggio del plusvalore si può far salire
soltanto mediante la variazione relativa della grandezza delle parti
costitutive di essa, lavoro necessario e pluslavoro, il che presuppone, qualora il salario non debba scendere al di
sotto del valore della forza-lavoro, una
variazione della produttività o intensità del lavoro.”
Un altro esempio serve a
chiarire questa storia dei tempi del lavoratore e di quelli del capitalista: “Se
il lavoratore ha bisogno di tutto il suo
tempo per produrre i mezzi di sussistenza necessari alla conservazione di se
stesso e della sua specie, non gli
rimane tempo per lavorare
gratuitamente per terze persone. Senza un
certo grado di produttività del lavoro, niente tempo disponibile di quel
tipo per il lavoratore, senza questo
tempo eccedente niente pluslavoro e quindi
niente capitalisti, ma anche niente padroni di schiavi, niente baroni
feudali: in una parola, niente classe dei grandi proprietari.”
Quindi ciò che conta è la
produttività! E questo il capitalista di oggi, se possibile più di quello di
ieri, lo considera vitale! Basta vedere che questo è sempre il punto più
importante quando si tratta del contratto di lavoro, ed è un punto che i
sindacalisti al servizio dei padroni considerano normale “trattare”!
Ma “La produttività
esistente del lavoro che costituisce la base di partenza di quel rapporto
capitalistico, non è dono della natura, ma di una storia che abbraccia migliaia
di secoli.” Questa produttività è legata all’inizio
a condizioni naturali esterne, dice Marx, che “dal punto di vista economico si
dividono in due grandi classi: ricchezza naturale di mezzi di sussistenza, cioè
fertilità del suolo, acque pescose, ecc., e ricchezza naturale di mezzi di
lavoro, come cascate d’acqua sempre vive, fiumi navigabili, legname, metalli,
carbone. Agli inizi della civiltà”, aggiunge Marx, il primo tipo di ricchezza è
quello decisivo; il secondo tipo invece quando l’umanità si trova ad un grado
di sviluppo più elevato. E di questa ricchezza produttiva si appropria il
capitale: “Come le forze produttive del lavoro storicamente sviluppate, cioè
sociali, così anche le forze produttive naturali del lavoro si presentano come
forze produttive del capitale al quale il lavoro viene incorporato.”
La produttività, quindi,
libera tempo perché permette di produrre in meno tempo quanto serve alla
riproduzione sociale, e in questo, come abbiamo visto, la natura aiuta, ma fino
ad un certo punto; dice infatti Marx: “La
madrepatria del capitale non è il clima tropicale con la sua vegetazione
lussureggiante, ma la zona temperata….” Non solo, ma “Le condizioni
naturali favorevoli forniscono sempre soltanto la possibilità, mai la realtà
del pluslavoro e quindi del plusvalore e del plusprodotto.” Perché “Le
differenti condizioni naturali del lavoro fan sì che la stessa quantità di
lavoro soddisfi differenti masse di bisogni in differenti paesi, cioè che il
tempo necessario di lavoro sia differente in circostanze altrimenti analoghe.” E
c’è un limite naturale all’estrazione di pluslavoro, ma “Questo limite naturale arretra nella stessa misura in cui avanza
l’industria.” E i detentori di questa industria, i capitalisti, si
costruiscono pure delle “illusioni” su come si ottiene il prodotto in
eccedenza, come dice Marx: “Nel bel mezzo della società europea occidentale, dove l’operaio soltanto col pluslavoro si
compera il permesso di lavorare per la propria esistenza, ci si immagina
facilmente che fornire un plusprodotto sia una qualità innata del lavoro umano.”
E anche qui fa un esempio concreto di quanto il capitale, per estrarre
plusprodotto, sia una “costrizione esterna”: “Ma si prenda per esempio
l’abitante delle isole orientali dell’Arcipelago asiatico, dove il sago cresce
selvatico nella foresta. «Quando gli indigeni, praticando un foro nell’albero,
si sono convinti che il midollo è maturo, il tronco viene abbattuto, diviso in
vari pezzi, il midollo viene staccato, mescolato con acqua e filtrato: ed è già
farina di sago completamente utilizzabile. D’ordinario, un albero rende
trecento libbre e può darne anche da cinque cento a seicento. Dunque in quelle
isole si va nella foresta e ci si taglia il proprio pane, come da noi ci si
taglia la legna da ardere».” E quindi: “Poniamo che uno di questi tagliapane
dell’Asia orientale abbia bisogno di dodici
ore lavorative alla settimana per soddisfare tutti i suoi bisogni. Quel che
il favore della natura gli dà direttamente, è molto tempo libero. Per
fargli adoprare questo tempo libero in maniera produttiva per sè, è
necessaria tutta una serie di circostanze storiche” cioè, per esempio, lo
sviluppo di tutto ciò che noi oggi chiamiamo “cultura”, mentre “per farglielo spendere in pluslavoro per
persone estranee, è necessaria una costrizione esterna. Se venisse introdotta la produzione capitalistica, quel
brav’uomo dovrebbe forse lavorare sei
giorni alla settimana, per appropriare a se stesso il prodotto di una sola giornata lavorativa. Il favore
della natura non spiega perché ora egli lavori sei giorni alla settimana ossia
perché fornisca cinque giornate di pluslavoro: esso spiega soltanto perché il
suo tempo di lavoro necessario è limitato a una giornata lavorativa alla
settimana. Ma in nessun caso il suo plusprodotto deriverebbe da una occulta
qualità innata del lavoro umano".
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