Perplessità anche nel suo campo ?
Nel retropalco dispensano invece dichiarazioni personalità e personaggi che guardano a questo universo di invisibili con intenzione non del tutto nitide e con la coscienza non del tutto a posto. Prevedibili il direttore de L’Espresso, Marco Damilano, e il conduttore Diego Bianchi, che da tempo sponsorizzano e hanno dato visibilità ad Aboubakar. Su quel retro, a caccia di giornalisti disponibili a raccoglierne la voce, si agitano anche personaggi politici a nostro avviso decisamente fuori luogo, come la vicepresidente dell’Emilia Romagna Eli Schlein e la presidente del Pd Valentina Cuppi.
Gli Stati Popolari e il controverso appello di Aboubakar - di Sergio Cararo- Contropiano
Ed anche il tono e i contenuti di molti interventi che si sono susseguiti era assai diverso da quello che in quella stessa piazza, quella volta decisamente gremita, avevamo sentito nelle manifestazione delle Sardine. A chi pensava ad una replica di quella piazza è stato dunque smentito sia nei numeri che nei contenuti.
Certo, il riccioluto e sempre sorridente Sartori si aggirava dietro al palco, ma il clima era piuttosto diverso. In mezzo ci sono stati i mesi della quarantena, dell’emergenza sanitaria Covid-19 ed ora le loro pesantissime conseguenze sociali che spostano l’asticella dei problemi e li rendono più drammatici.
Stavolta è ben più visibile sia in piazza che negli interventi dal palco la presenza di migranti, braccianti, rifugiati.
I braccianti, arrivati numerosi dalle campagne del foggiano e della Calabria, depositano cassette di frutta e verdura sul palco a ricordare visibilmente a tutte e tutti che molti degli alimenti che acquistiamo e mangiamo – magari cercando quelli a minor prezzo – sono sempre più il prodotto del bestiale sfruttamento e del lavoro sottopagato di migliaia di persone nelle campagne.
Sul palco si alternano gli invisibili, cioè i portatori di quell’ormai insopportabile condizione che attanaglia lavoratori, lavoratrici, abitanti.
E’ toccato a Francesco Rizzo (delegato Usb all’Ilva di Taranto) ribadire che occorre
mettere fine alla contrapposizione tra lavoro e salute, che a Taranto produce morte e malattia sia tra chi lavora all’Ilva sia tra chi abita in quella città avvelenata dalla fabbrica.
E prima e dopo di lui parlano l’operaio della Whirlpool e l’operatrice del call center, precari dello spettacolo, riders, insegnanti precari, giornalisti precari, diversamente abili e ragazze di Friday for Future. Ed ancora braccianti, rifugiati, migranti e lavoratori senza permesso di soggiorno e cittadini nati e cresciuti qui in Italia, ma ai quali si nega ancora cittadinanza, esponenti del mondo Lgbt, attivisti del sindacato e del movimento per il diritto alla casa.
Scuote la piazza Mariema Faye, giovane donna del movimento migranti e rifugiati (e che sarà anche candidata di Potere al Popolo in Campania, ndr), mentre Ascanio Celestini e Cosmo danno voce a chi vive di spettacolo in un momento in cui gli spettacoli non si fanno più.
Nel retropalco dispensano invece dichiarazioni personalità e personaggi che guardano a questo universo di invisibili con intenzione non del tutto nitide e con la coscienza non del tutto a posto. Prevedibili il direttore de L’Espresso, Marco Damilano, e il conduttore Diego Bianchi, che da tempo sponsorizzano e hanno dato visibilità ad Aboubakar (dimenticando, ogni volta che è possibile, di dire che è sì un sindacalista, ma dell’Usb, cioè di un sindacato fuori dal “consorzio” consociativo e ostacolato con ogni mezzo).
Su quel retro, a caccia di giornalisti disponibili a raccoglierne la voce, si agitano anche personaggi politici a nostro avviso decisamente fuori luogo, come la vicepresidente dell’Emilia Romagna Eli Schlein e la presidente del Pd Valentina Cuppi.
Ma l’attesa più grande era evidentemente per le conclusioni di Aboubakar Soumahoro. Abou, come lo conosciamo da anni, esordisce mettendo in guardia dall’individualismo e dall’egocentrismo sui quale si basa l’egemonia di chi rende invisibili le figure sociali chiamate in piazza dagli Stati Popolari. Chiama ad una riscossa dell’anima e invoca anche il tema della felicità. Invita a non chiudersi dentro i social network, che sono anche utili, ma poi servono le persone in carne ed ossa.
Abou spiega anche che da questa piazza si è voluti tenere fuori la politica (in realtà circoscritta al diniego di intervenire alle organizzazioni politiche e dal portare bandiere) perché la politica ancora non è adeguata a cogliere le istanze nè dà risposte al grido degli invisibili.
Ha presentato poi un manifesto su cinque proposte largamente condivisibili: un piano di emergenza per il lavoro, un piano per l’emergenza abitativa con la richiesta di rilanciare l’edilizia sociale, un organismo per affrontare sia l’emigrazione italiana all’estero che l’immigrazione in Italia, mettere mano contro lo sfruttamento nella filiera alimentare, l’abrogazione dei decreti sicurezza, un piano per l’accoglienza e un piano per l’ambiente con una declinazione importante: non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale.
Ma da questo punto in poi sono emerse aspettative e intenzioni che qualche perplessità non possono che suscitarla. Abou ha insistito molto nell’affermare che “questa è la piazza della proposta e non della protesta, che non è la piazza dei No ma quella dei Si”, in sostanza che gli Stati Popolari hanno una visione per l’azione (citando Nelson Mandela) e che se il Palazzo non aprirà le porte si porteranno queste proposte dentro il Palazzo.
Come ce le porteranno non è indifferente. Qualcuno ancora immagina, e lo preferisce, che questo “ingresso” possa avvenire sulla spinta di una mobilitazione popolare che diventa potere decisionale e priorità delle scelte; qualcun altro, più banalmente, può immaginarlo con la messa a disposizione di una candidatura in Parlamento o al governo, magari con una aggregazione “di sinistra” che, come sempre, tiri per la giacca il Pd.
E’ un po’ la solita idea di entrare lì dove si suppone ci siano le leve di comando per guidare la barca verso l’armonia e non lo scontro. E’ evidente che non si tratti delle stesse opzioni, anzi.
Sull’Espresso, nel suo editoriale domenicale, Abou ha concluso con due paragrafi che non hanno convinto molto chi scrive questo articolo. A suo avviso l’unione degli invisibili sarà longeva se riuscirà a:
“1) perseguire la coerenza dei valori (perché la coerenza è la valuta della fiducia) e non inseguire la convenienza dell’opportunismo;
2) perseguire l’egemonia culturale e non inseguire la contrapposizione sociale. Riusciremo a superare quest’ultima, se sapremo domare le nostre disarmoniche discordie per creare armoniose sinfonie d’unione”.
Sulla coerenza dei valori ci siamo, ma occorre sempre rammentare che è il loro diventare contenuti che fa la differenza. Chi è contrario alla pace o alla giustizia o alla difesa dell’ecologia? Pochi o nessuno. Ma se si declinano le scelte per mantenere la pace, affermare la giustizia, riconvertire ecologicamente un modello produttivo, difficilmente i semplici valori potranno creare comunità di interessi lì dove essi divengono materialmente contrapposti.
E da qui quel “non inseguire la contrapposizione,” ma la “creazione di armoniose sinfonie di unione”, diventano materia difficile da digerire.
Chi è stato in piazza San Giovanni ha fatto bene ad esserci, sotto molti aspetti è stato un momento di rappresentazione di contraddizioni e conflitti veri. La traiettoria sindacale di Abou in questi anni ha dato indubbiamente ai braccianti e ai migranti una visibilità politica che non avrebbero mai avuto.
Ma la sfida è ancora aperta sul come costruire il blocco sociale, anzi il blocco storico, capace di sintetizzare un mondo e portarlo sulla strada dell’emancipazione collettiva in uno scenario di conflitto di classe dall’alto sempre più cinico e spietato (come ci ha dimostrato la gestione dell’emergenza coronavirus).
Idealizzare una comunità di valori “di per sè” contiene elementi di misticismo che, sulla base della loro forza oggettiva, dovrebbero tenere insieme un sindaco manager come Sala e il riders che si sfianca sulla bicicletta o il bracciante sottopagato nelle campagne. L’evocazione del sogno, molto americana come quella della felicità, ci porta obiettivamente sul terreno di una sorta di predicazione e di profezia. E questo è un terreno che maneggiano meglio i guru che le istanze collettive.
Per quanto abbiamo provato a mettere alla prova la nostra duttilità, è uno scenario che non riusciamo a vedere come praticabile. Soprattutto in una situazione sociale che si annuncia pesantissima già dai prossimi mesi e da una determinazione di chi detiene materialmente privilegi, ricchezze e apparati di potere a non voler cedere nulla, anzi a voler utilizzare lo shock dell’emergenza coronavirus per spingere ancora più a fondo i settori popolari e gli invisibili.
Se vuoi delle soluzioni devi diventare un problema.
Siamo sicuri che, come avvenuto anche in altre occasioni, questa nostra lettura in controluce non farà piacere a tante e tanti. Ma qualcuno che si assuma la responsabilità di farlo è bene che ci sia.
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