A TUTTE LE REALTA' DI LOTTA POLITICHE E SINDACALI, COLLETTIVI E RETI SOLIDALI
DOCUMENTO- APPELLO
PER UN ASSEMBLEA NAZIONALE IL 29 SETTEMBRE A NAPOLI
L'anno che ci siamo appena messi alle spalle non è certo passato invano, né per quanto riguarda le nostre battaglie, né tantomeno riguardo agli assetti interni alla classe dominante e alle sue espressioni politico-istituzionali.
Malgrado la fase persistente di riflusso delle mobilitazioni in larga parte del movimento proletario, l'elemento di controtendenza che negli ultimi anni ha contraddistinto le lotte nelle logistica ha conosciuto in questi ultimi mesi non solo un estensione significativa in temini quantitativi, ma anche un allargamento della mobilitazione in altre categorie (in primis nella filiera alimentare modenese e in quella delle tintorie nel distretto pratese) e in altri settori sociali (come nel caso dei disoccupati e dei licenziati a Napoli e nel Meridione). Ma quel che più è importante, ha conosciuto un significativo consolidamento dal punto di vista politico, in primo luogo nei legami che negli ultimi mesi si sono sviluppati con altre esperienze di lotta.
Negli ultimi scioperi generali del sindacalismo di base e nelle manifestazioni nazionali del 24 febbraio e del 27 ottobre 2018 abbiamo sottolineato con forza come la spinta proveniente da queste lotte, e la loro stessa natura, tendeva inevitabilmente a porre all'ordine del giorno una serie di nodi che andavano ben al di là dell'ambito strettamente sindacale.
I fatti di questi mesi hanno confermato e per certi versi accentuato questa tendenza: le lotta in Italpizza e nella filiera alimentare di Modena, quella delle tintorie di Prato e quella di disoccupati e licenziati sul tema del RdC sono solo alcuni esempi che, da angolature diverse e solo apparentemente distanti tra loro, fotografano in maniera nitida come le lotte per il salario e i diritti siano capaci di scoperchiare una molteplicità di contraddizioni e di piani di conflitto tali da trascendere il livello della mera lotta economico-rivendicativa e caratterizzarsi a pieno titolo sul piano più complessivo della lotta politica al regime di accumulazione capitalistico e all'odierno sistema di sfruttamento del lavoro salariato.
Crisi, lotte e repressione
Di fronte al ciclo di lotte della logistica, nato (non a caso) proprio in concomitanza con l'esplodere della crisi internazionale e degli sconquassi sociali e politici che al principio di questo decennio hanno attraversato gran parte del Nordafrica, i padroni e lo Stato (a differenza dei residui della sinistra nostrana) hanno fin da subito compreso come gli scioperi e le lotte in un settore sempre più strategico per il capitalismo internazionale, nel cuore di un sistema, quello delle finte cooperative, che da sempre è in Italia uno dei pilastri essenziali per il flusso di profitti e sovraprofitti del capitale, e per giunta con una composizione di manodopera a netta prevalenza immigrata, costituissero un fattore di potenziale destabilizzazione del clima pluridecennale di pace sociale loro garantito a seguito del lungo ciclo di sconfitte patito dal movimento operaio e proletario.
Stato e padroni fin dal principio hanno fronteggiato queste lotte non solo con le armi “convenzionali” dei ricatti e dei licenziamenti, ma anche con quelle della repressione, dei manganelli, dei fogli di via, dei processi e dei teoremi giudiziari.
Contrariamente a quanto vorrebbero farci credere i giornali e i politicanti “democratici”, la repressione e la criminalizzazione delle lotte sindacali e sociali, come evidenzieremo in seguito, non è certo una novità prodotta da Salvini e dal governo attuale, il quale casomai, sta producendo una generalizzazione dei dispositivi repressivi già esistenti a ogni aspetto della vita sociale, e una loro ulteriore radicalizzazione in funzione di prevenire sul nascere ogni possibile forma di dissenso e di opposizione.
Il quadro internazionale di questi mesi da un lato conferma le enormi difficoltà della classe dominante e dei suoi stati di venire a capo della crisi esplosa sul finire dello scorso decennio e mostra crescenti turbolenze negli equilibri interimperialisti dovute al progressivo venir meno della supremazia USA e alla contestuale crescita di peso di nuove potenze su scala globale o regionale (su tutte la Cina e, in parte, la Russia di Putin), dall'altro mette sempre più a nudo l'assenza di forme di coordinamento e di collegamento internazionale delle lotte operaie e proletarie.
Con buona pace dei padroni e della stampa al loro servizio, in questi mesi abbiamo assistito a scioperi generali imponenti a latitudini diverse e in risposta allo sfruttamento, alle politiche di austerity o alla mille forme di dominio neocoloniale: dall'America latina ai docenti statunitensi, dai milioni di scioperanti in India al movimento dei gilet gialli che ha infiammato la Francia, dallo sciopero transnazionale dei dipendenti Amazon a quello delle donne che l'8 marzo ha attraversato quasi ogni angolo del globo: questi sono solo alcuni esempi di come a livello internazionale la lotta di classe sia tutt'altro che sopita, e di come sia sempre più necessario un lavoro di ricongiungimento di queste lotte da un versante chiaramente classista e internazionalista.
Il governo gialloverde: tra propaganda populista e odio antiproletario
L'Italia, fatte salve la nostra e poche altre esperienze in controtendenza su scala nazionale, è invece ancora attraversata da un clima di generale riflusso. I trent'anni di ristrutturazioni e di politiche “lacrime e sangue” operate dai governi di centro-destra e centrosinistra con la complicità di Cgil-Cisl-Uil, hanno spianato la strada a un governo “trumpista” capace di deviare in chiave reazionaria il forte malcontento di ampi strati della popolazione.
Ed è proprio in relazione al governo gialloverde che riteniamo di poter affermare, come detto in apertura, che quest'anno non è affatto passato invano.
Come SI Cobas siamo stati tra i pochi che nel panorama del sindacalismo di base e degli stessi movimenti fin dall'insediamento di Conte abbiamo denunciato a chiare lettere la forte pericolosità di un governo Lega-5 Stelle e la necessità di costruire un forte movimento di opposizione pienamente autonomo e indipendente dall'ipocrita ed inconcludente “brusio” dei sindacati di stato, del PD e dei cascami della sinistra di stato. Una pericolosità legata in primo luogo al brand “nazionalpopolare” con cui quest'esecutivo è riuscito ad accreditarsi presso larghe fasce di popolazione, presentandosi come quello che “finalmente, invece di togliere, dà qualcosa ai settori proletari e popolari più in difficoltà”, ai precari con contratti a termine (Decreto dignità), ai poveri (Reddito di cittadinanza), anziani stanchi del lavoro (quota 100), salariati a sotto-minimo (salario minimo), flat tax (detassazione di tutti i salari): misure attuate attraverso una serie di partite di giro (su tutti i pesanti tagli alla spesa sociale, come vedremo in seguito) che poco o nulla hanno in realtà lasciato nelle tasche dei “poveri”, ma che sono state percepite come misure “di cambiamento” rispetto alla rigida austerity dei governi precedenti. In secondo luogo, il frutto più velenoso di questo esecutivo sta nell'avere approfondito la spaccatura tra lavoratori immigrati e autoctoni, indebolendo l'intera classe lavoratrice a favore del capitale.
In questi mesi tanti anche nel sindacalismo di base e nella cosiddetta “sinistra” si sono lasciati attirare dalle sirene del populismo e del sovranismo, chi in maniera velata (secondo la logica opportunista del “né aderire né sabotare” o del ”per ora stiamo fermi, in attesa che maturino le condizioni...”), chi strizzando apertamente l'occhio al governo, in particolare alla sua componente pentastellata.
La realtà di questo anno e passa di governo ci ha dato ragione, svelando da un lato tutta la pericolosità del duo Salvini-Di Maio, dall'altro ricoprendo di ridicolo tutti coloro che, illudendosi di poter cavalcare o mettersi in scia dell'ondata populista e “antiestablishment” emersa dalle urne dello scorso anno, si sono rivelati nient'altro che degli utili idioti al servizio di un esecutivo di destra, filopadronale, razzista e integralmente antiproletario.
D'altronde, l'esito delle recenti elezioni europee ha definitivamente frantumato ogni illusione: il tracollo del Movimento 5 Stelle e il boom della Lega eliminano ogni vero o presunto equivoco sulla tendenza politica e sociale in atto nel nostro paese.
Milioni di lavoratori e disoccupati che dopo anni di mazzate avevano dato fiducia a Di Maio nell'illusione di un generico cambiamento o spinti dalla promessa di un Reddito di Cittadinanza per uscire dalla povertà, nel giro di soli 12 mesi di governo del “Cambianiente”, di voltafaccia su Ilva, ambiente, Tav, Tap, di impegni mancati sul rilancio dei servizi pubblici e sulla lotta alle disparità e alle discriminazioni salariali (vedi la non abolizione del Jobs Act e delle agevolazioni fiscali alle finte cooperative) hanno abbandonato in massa i 5 Stelle per finire nelle braccia della Lega o ripiegare nell'astensione: riguardo a quest'ultima, la crescita costante seppur non esponenziale dei non votanti, pur essendo tutt'altro che un indice di radicalità o di rifiuto attivo del sistema, è senz'altro in primo luogo il sintomo (non solo in Italia) del crescente scollamento di un settore crescente della popolazione verso i rituali e le liturgie di una “democrazia” sempre più autoritaria e blindata, in secondo luogo un fattore di cui tener conto anche nell'analisi dei risultati, e che ridimensiona non di poco la reale portata dello stesso boom leghista.
Quanto alla sedicente opposizione piddina e dei suoi satelliti (cui fanno parte a pieno titolo gli apparati burocratici di Cgil-Cisl-Uil), l'operazione di maquillage operata col “nuovo corso” di Zingaretti è apparsa fin dal primo momento talmente sbiadita e incolore da non riuscire neanche a capitalizzare il meccanismo del “voto utile” in chiave antisalviniana.
D'altra parte, va rilevato che il PD in quest'anno e mezzo di governo gialloverde ha mostrato una coerenza e una continuità d'intenti rispetto al suo precedente operato che non ha paragone in nessun'altra forza parlamentare. Pur in un contesto che vede da tradizione il fronte padronale schierarsi al fianco del governo in carica, il PD è stato anche in questi mesi il più fedele interprete dei desideri e dei programmi del padronato e della grande borghesia, come testimoniano, su tutti, le dure prese di posizione sulla Tav, sull'Ilva, sull'ipotesi pentastellata (subito archiviata) di chiudere i centri commerciali la domenica, sulla difesa intransigente di Jobs Act e Riforma Fornero, sul Reddito di Cittadinanza, sul Salario minimo e finanche sul tema dell'immigrazione, laddove rivendicano fieramente la “maggiore efficacia” delle loro politiche su espulsioni e respingimenti...
L'escalation dei decreti-sicurezza e l'urgenza di una risposta immediata
Il Decreto sicurezza dello scorso autunno e il Decreto Sicurezza bis in corso di approvazione proprio in queste settimane sono la riprova di come su questi temi l'operato del governo gialloverde, partendo da una sostanziale continuità con le misure securitarie dei precedenti esecutivi di centrodestra tecnici e a guida PD (Decreti Pisanu, Lupi e Minniti), operi un notevole salto di qualità, da un lato con l'introduzione di nuove fattispecie di reato, dall'altro con l'inasprimento di quelle già esistenti.
Se è evidente a chiunque come il bersaglio principale di queste misure siano gli immigrati e in particolare i richiedenti asilo, a passare pressochè sotto silenzio, sia sulla stampa che negli stessi ambiti di movimento, è invece il corpus complessivo dei dispositivi contenuti nei decreti-sicurezza.
L'ampliamento abnorme dei poteri e della discrezionalità di sindaci e prefetti nel comminare i Daspo urbani, l'espulsione di immigrati con regolare permesso anche nel caso di condanne lievi, l'aggravamento delle pene per resistenza a pubblico ufficiale, blocco stradale, occupazione di suoli o di uffici pubblici e persino per l'utilizzo di un semplice fumogeno a una manifestazione sono segni tangibili di come, in nome della “sicurezza” e dietro la demagogia squallida e razzista della “chiusura delle frontiere”, si stia in realtà tentando di assestare un colpo durissimo a ogni ambito delle lotte sociali, politiche e sindacali.
La crociate contro le Ong e il “pugno duro” contro gli sbarchi sono solo uno specchietto per le allodole utile al bieco tornaconto elettorale di chi, come la Lega, ma anche FdI e gli stessi 5 Stelle, in questi anni ha sistematicamente e scientemente iniettato dosi massicce di veleno nazionalista, sovranista e razzista nelle vene dei lavoratori e dei proletari italiani.
Un veleno utile a sedare e addomesticare le coscienze in modo da colpire più facilmente il vero bersaglio di padroni e governo: la lotta di classe.
Come lavoratori e militanti del SI Cobas stiamo sperimentando sulla nostra pelle gli effetti di questt'escalation: Daspo, fogli di via, arresti e manganellate fuori ai cancelli e procedimenti penali e amministrativi non si contano neanche più, in un contesto che vede la controparte sempre più agguerrita sul fronte della criminalizzazione politica e della gogna mediatica.
Salvini e compagnia non temono tanto gli emigranti che si ammassano sui barconi e sulle navi delle Ong (per ogni sceneggiata mediatica contro la Sea Watch vi sono almeno 2-3 sbarchi fantasma col silenzio-assenso del governo e la complicità della malavita interna e internazionale che ringrazia Salvini per i servigi resi con le sue leggi), quanto quegli immigrati che in Italia già ci vivono e ci lavorano sottopagati e supersfruttati, e che in questi anni hanno dimostrato di essere capaci di ribellarsi all'oppressione di padroni e governi più dei lavoratori e dei proletari italiani: è innanzitutto contro di loro che si concentrano i nuovi dispositivi repressivi.
La strategia di questo governo è chiarissima: spingere nella clandestinità masse sempre crescenti di proletari immigrati e costringere all'”illegalità” migliaia di proletari autoctoni a cui è negato persino un tetto, al fine di poter estorcere condizioni di lavoro sempre più schiavistiche e colpire in maniera spietata ogni forma di resistenza o di riappropriazione di diritti.
L'impressionante militarizzazione degli scioperi e dei picchetti operai e la scure contro le occupazioni a scopo abitativo sono due facce della stessa medaglia. D'altronde il recente sgombero di più di trecento famiglie dall'occupazione di via Cardinal Capranica a Roma ha svelato, oltre al cinismo arrogante e spietato del governo, anche l'ipocrisia dei leghisti e dei pentastellati riguardo a quel “business dell'accoglienza” contro il quale hanno costruito le loro fortune elettorali, dal momento in cui gli sgomberati, con buona pace di Salvini, sono stati cacciati da un ambito autogestito per finire, ancora una volta, all'interno di “residence” gestiti dalla cooperative sociali e pagati profumatamente dal comune di Roma...
Il fumo per il “popolo”, l'arrosto per i padroni
D'altra parte, le paranoie e i deliri securitari di Salvini sono funzionali a distogliere l'attenzione dal totale fallimento delle tanto strombazzate promesse di “cambiamento” sul versante sociale.
L'operato del governo gialloverde in questo primo anno ha confermato pienamente le previsioni da noi effettuate già all'atto del suo insediamento: dietro la maschera del “cambiamento” e del populismo anti-UE e “antiestablishment” si nasconde un piano di ristrutturazione capitalistica non meno prono agli interessi della grande borghesia di quanto lo fossero i governi precedenti: nessuna rottura con le politiche di austerity imposte dalla BCE e dal capitale finanziario internazionale, un po' di fumo e qualche briciola per tenere buoni i proletari (vedi Reddito di Cittadinanza e “quota 100”) e tanto arrosto per i padroni con nuovi, pesanti tagli alla spesa sociale (in primis alla già disastrata sanità pubblica), e soprattutto il regalo della flat tax al 15% (già erogato alla piccola borghesia che ne ha ricavato uno sgravio fiscale fino a 10 mila euro e che ora vogliono estendere a impiegati e dirigenti) che a dispetto dei boatos governativi sarà con ogni probabilità finanziata per mezzo di un inasprimento dell'Iva sui beni di prima necessità così come imposto dai “tanto odiati” burocrati dell'UE...
In realtà, la prosopopea e la demagogia di Salvini sulla flat-tax è tutta funzionale ad oscurare il vero tema-cardine della questione, ossia il gigantesco travaso di ricchezza operato da decenni attraverso la leva fiscale e il ricatto del debito pubblico.
Per troppo tempo anche all'interno della sinistra di classe e del sindacalismo di base il tema della tassazione e del debito di stato sono stati elusi o trattati con superficialità, ignorati sull'altare di generici appelli alla “redistribuzione delle ricchezze” o distorti in nome di suggestioni sovraniste quali l'uscita dall'Euro.
I fatti ci dicono invece che da decenni siamo assistendo in tutto l'occidente capitalistico a un ingigantimento senza limiti dei debiti di stato a fronte di una costante detassazione dei profitti.
Solo per restare in “casa nostra”, se nel 1974 in Italia esistevano 32 diversi scaglioni fiscali con aliquote che andavano da un minimo del 12% per i redditi più bassi a un massimo del 72% per i più alti (dunque una differenza del 60% tra aliquota minima e massima) oggi abbiamo solo 5 scaglioni ristretti in una forbice di appena il 20% (23% la più bassa, 43% la più alta).
E' dunque evidente come in aggiunta all'attacco senza sosta alle tutele e ai livelli salari per mezzo di contratti-bidone, leggi precarizzanti e tagli al salario indiretto (cioè ai servizi sociali), in questi decenni si è operato un enorme (e per certi versi occulto) travaso di ricchezza dai salari ai profitti attraverso la leva delle imposte dirette e indirette, per non parlare poi degli innumerevoli canali di evasione e di elusione fiscale di cui i padroni possono beneficiare e il cui esempio più lampante è il sistema di frodi e ruberie attuato delle false cooperative e smascherato grazie alle imponenti lotte degli operai della logistica: un sistema che, dopo anni di proclami demagogici dei 5 Stelle, il Governo Conte non solo non ha minimamente colpito, ma ha addirittura premiato ed incenticato con nuovi condoni.
Lo spauracchio del debito pubblico è il più facile dei pretesti per giustificare nuovi tagli alla spesa sociale e un'ulteriore compressione del salario diretto e indiretto.
Anche in quest'ottica il governo gialloverde si muove in perfetta continuità con chi l'ha preceduto, l'unica differenza consiste nell'astuzia demagogica con cui Salvini e Di Maio (quest'ultimo in realtà con esiti disastrosi alla luce dei risultati delle ultime europee) riescono a spacciare per “politiche di cambiamento” quelle stesse misure che fino a ieri contestavano al PD.
Quel che i precedenti governi definivano “contenimento della spesa” vengono oggi presentati come “razionalizzazioni” o “eliminazione degli sprechi”, ma la musica non cambia: già nella scorsa legge di bilancio sono scomparsi ben 4 miliardi di fondi per l'istruzione nel triennio 2019-2021 attraverso un taglio pesante ai fondi per i docenti di sostegno, nella nuova finanziaria è previsto un taglio di 2 miliardi al fondo sanitario, il che porterà all' ulteriore smantellamento di un sistema sanitario nazionale già messo in ginocchio da anni di tagli e di malasanità: il tutto ovviamente a vantaggio dei pescecani e degli speculatori privati.
Nel frattempo, non un solo euro di tagli è stato previsto per le spese militari e per i programmi destinati all'acquisto di armamenti, tuttaltro: con buona pace della retorica pentastellata, lo scorso 13 giugno il MISE e il Ministero della Difesa hanno annunciato un nuovo impegno di spesa pluriennale di circa 7,2 miliardi per investimenti nel settore militare e degli armamenti, che si andrebbero a sommare ai 13 miliardi già previsti negli ultimi anni dal fondo di investimenti MEF a favore della difesa, ivi compresa la conferma già dallo scorso anno dei programmi di acquisto dei nuovi caccia F-35. Il tutto, come rivendicato pubblicamente dallo stesso ministro Trenta, al fine di allinearsi agli obbiettivi fissati dalla NATO di destinare entro il 2024 almeno il 2% del Pil di ogni paese membro alle spese militari: tradotto in numeri assoluti, ciò significherebbeaumentare di circa un terzo i 25 miliardi di euro spesi nel 2018 (pari all' 1,4% del PIL), che a sua volta già hanno rappresentato un aumento del 4% rispetto al 2017, confermandola tendenza di crescita costante avviata dal governo Renzi (+8,6 % rispetto al 2015)e in perfetta coerenza con la dinamica incrementale delle ultime tre legislature (+25,8% dal 2006)precedente la crisi del 2008.
Per rendere l'idea di questa tendenza alla militarizzazione, basterebbe solo considerare che in Italia l'intera spesa pubblica per l'edilizia e le politiche abitative è inferiore all'1% del PIL...
Alcune autorevoli ricerche condotte in queste settimane hanno svelato che, solo con l'introduzione di una minipatrimoniale pari all'1% del PIL sull'1% più ricco degli italiani, lo Stato incasserebbe immediatamente 20 miliardi, mentre nell'ipotesi più ambiziosa di una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, lo stato incamererebbe addirittura 400 miliardi. Ma Salvini e Di Maio si guardano bene dal prendere anche lontanamente in considerazione una tale misura, l'unica che davvero potrebbe essere definita “di cambiamento”, poiché per loro è molto più comodo sciacallare sul razzismo, sul pericolo sicurezza e su fantomatiche “emergenze-sbarchi” e lasciare intatti i privilegi e le ruberie di quella classe dominate di cui il loro governo è espressione.
Questi pochi e semplici spunti di riflessione sono già ampiamente sufficienti a smontare la strumentalità dei dogmi sulla “sacralità” dei conti pubblici e dei vincoli di bilancio, e a svelare come dietro lo spauracchio del debito pubblico si nasconda un cappio perennemente teso attorno al collo dei lavoratori e delle classi oppresse: un cappio stretto non da un singolo governo, ma dalla borghesia a livello continentale e internazionale, a cui nessun governo europeo, tantomeno quello gialloverde, intende sottrarsi.
Per questo riteniamo che le forze anticapitaliste, che per troppo tempo hanno trascurato questo tema o lo hanno considerato secondario, abbiano il dovere di assumere una posizione chiara e sviluppare un'azione conseguente sul piano politico, sindacale e sociale.
Per noi il debito pubblico è un debito di classe, funzionale all'accumulazione di plusvalore e sovraprofitti, e come tale dev'essere la borghesia a pagarselo.
Di converso, ogni analisi o campagna che metta in secondo piano il carattere classista e antiproletario del debito pubblico e va alla ricerca di illusorie panacee sovraniste (come l'uscita dall'euro e dall'UE), non solo è fallace e fuorviante, ma anche dannosa nella prospettiva di un rilancio del conflitto e dell'indipendenza di classe.
L'autonomia “differenziata”, ovvero l'eterna tentazione del ritorno alle gabbie salariali
Ciò vale tanto più a fronte del tremendo colpo che questo governo sta tentando di assestare con la cosiddetta “autonomia differenziata”. Questa misura, soprattutto nella versione “hard” gradita a leghisti e governatori delle regioni del Nord (cui si è aggiunto, e non a caso, il piddino De Luca in Campania), porterebbe a un mastodontico travaso del gettito fiscale dello stato verso le regioni “più virtuose” a danno di quelle più povere e arretrate, dunque determinerà da un lato un ulteriore allargamento del divario tra Nord e Sud nella spesa sociale, e dall'altro spalancherà le porte a quello che è da sempre uno dei più grandi desideri del fronte padronale: la reintroduzione delle “gabbie salariali” e la distruzione definitiva dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro.
Si tratta quindi di una riforma dai connotati di classe chiarissimi, ed è contro questi connotati che occorre lottare e mobilitarsi.
Se il PD, i suoi cespugli e le stesse Cgil-Cisl-Uil strizzano l'occhio all'autonomia differenziata coerentemente con il loro operato degli ultimi decenni e con quella riforma-Bassanini che sul finire del secolo scorso introdusse le prime forme di discriminazione fiscale su base regionale, occorre prendere atto che anche su questo tema appare evidente lo stato confusionale di una certa “sinistra” sindacale e di movimento, la quale, come contraltare alla Lega, non sa far altro che rispolverare la bandiera di un “meridionalismo” d'accatto che in nome di un generico “interesse del Sud” rimuove non solo ogni riferimento allo “sviluppo ineguale e combinato” del capitalismo quale causa ultima dell'arretratezza del meridione, ma giunge al punto di negare la necessità di una mobilitazione che su scala nazionale veda i proletari del Sud uniti a quelli del Nord nella lotta contro i piani leghisti, preferendo trastullarsi in un “regionalismo dei poveri”, finendo nei fatti al carro degli interessi particolaristici di pezzi di rendita parassitaria refrattaria al regionalismo differenziato solo nella misura in cui vengono toccati i loro affari e i loro privilegi.
Il nostro no deciso ai piani di accentuazione delle disuguaglianze territoriali di Lega, 5 Stelle e PD si muove in una prospettiva radicalmente opposta: chiama a una mobilitazione unitaria gli operai e tutti i lavoratori subordinati, i disoccupati, gli studenti e tutti i ceti oppressi in quanto gli effetti di queste misure oggi servono a dividere i proletari su base territoriale, e domani, attraverso il ricatto dei differenziali salariali, colpiranno tanto i proletari del Nord quanto quelli del Sud.
La definitiva capitolazione dei 5 Stelle sulla Tav
Come oramai risulta chiaro a tutti, l'esperienza di governo dei 5 Stelle, al di la dei suoi esiti strettamente istituzionali, si sta sempre più rivelando come il più clamoroso bluff nella storia parlamentare dell'intero dopoguerra.
Un “movimento” nato e cresciuto facendo leva su tutti i temi più cari alla pancia dell'elettorato deluso da centro-destra e centro-sinistra, e diventato a furor di popolo il primo partito italiano grazie ai propositi di grillini di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno”, in un solo anno di potere è riuscito nell'impresa di fare l'esatto contrario di quanto promesso su ogni punto del loro programma: invocavano a gran voce la chiusura dell'Ilva di Taranto per poi regalarla agli indiani di Mittal garantendogli l'impunità e dunque la libertà di avvelenare e uccidere un'intera città; dicevano No alla Tap e l'hanno rifinanziata; urlavano “onestà” in nome di un legalitarismo intransigente per poi governare con la Lega che ha rubato allo Stato 49 milioni di euro; si sbracciavano contro il privilegio dell'immunità parlamentare per poi votare contro l'autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini indagato per aver impedito lo sbarco a Lampedusa della nave Diciotti; sbandieravano la regola dei due mandati in nome della loro “purezza etica” per poi adeguarsi alla trovata comica di Di Maio sul “mandato-zero”. Questi solo alcuni dei voltafaccia sui “cavalli di battaglia” storici dei 5 Stelle, tralsciando quelli su slario, reddito, fisco, ecc. su cui ci siamo già soffermati ampiamente in precedenza.
C'è un tema che però, più di altri, rappresenta la sintesi più nitida della capitolazione dei 5 stelle in nome delle poltrone e del governo a tutti i costi: la TAV. Ciò non solo in relazione ai consensi oceanici raccolti in questi anni dai 5 Stelle in Val di Susa, dove sono stati percepiti come l'unico partito che aveva nel suo Dna il No all'Alta Velocità, ma anche in virtù della capacità del Movimento No-Tav di rispondere in maniera immediata e decisa al recente voltafaccia di Conte e dei pentastellati.
La grande e combattiva manifestazione del 27 luglio è stata la dimostrazione più evidente che la lotta della Val di Susa può rappresentare non solo l'inizio di una definitiva Caporetto per Di Maio e compagnia, ma anche e soprattutto la scintilla che, se raccolta a dovere, può innescare una stagione di lotta dura, generalizzata e di massa a questo governo e alle sue politiche.
La compattezza con cui tutti i principali esponenti e tutte le “anime” dei No-Tav hanno chiarito il nodo principale della questione, ossia che “non abbiamo governi amici”, rappresenta per noi un importante e prezioso esempio di cosa intendiamo quando parliamo di autonomia delle lotte in una fase politica che vede tanti reduci del “movimento” che fu impegnati unicamente a cercare una “sponda politica” per preservare i loro miseri orticelli.
E' proprio quest'esempio che ci porta con ancor più determinazione ad affermare che chi per puro opportunismo continua a civettare con i 5 stelle non solo dovrebbe vergognarsi, ma non può a nessun titolo essere considerato parte del movimento di classe, allo stesso modo di chi continua a civettare col PD, i suoi cespugli di sinistra e/o con la triade confederale di Cgil-Cisl-Uil
La lotta paga, le chiacchiere no
D'altra parte, le tensioni e le contraddizioni crescenti tra Lega e 5 Stelle rappresentano in questa fase un potenziale terreno favorevole per un iniziativa volta ad affossare tali manovre.
La stessa proposta di Di Maio di introdurre in Italia un salario minimo legale di 9 euro lorde l'ora, per quanto sia del tutto improbabile che divenga mai realtà in assenza di un ampio movimento di lotta, di fatto evoca un “tasto dolente” (quello dei bassi salari) sul quale il sindacalismo di base e il movimento di classe hanno il dovere di intervenire per far sì che questo tema non venga consegnato alla propaganda dei 5 stelle e alla loro propaganda per arginare il loro tracollo di consensi nei settori operai e dei lavoratori sottopagati.
Nel nostro piccolo, l'indirizzo assunto dal SI Cobas si è già mosso in questa direzione, e non da ieri.
Il collegamento fruttuoso che in questi mesi si è sviluppato tra le lotte dei facchini e dei lavoratori del nord Italia e quelle dei disoccupati, dei licenziati e degli occupanti casa nel meridione è andato ben oltre i confini della mera solidarietà. Quando i lavoratori e i proletari comprendono che la causa della loro oppressione non è circoscritta al singolo padrone o alla singola vertenza aziendale, comprendono facilmente che il loro destino è legato a doppio filo con quello degli operai, dei disoccupati o dei licenziati di altre aziende, altre città, altre regioni e altre nazioni.
Seppur in un quadro che vede il consolidamento delle tendenze reazionarie e razziste, il nostro “toccano uno- toccano tutti”, lungi dal rappresentare un mero slogan, diviene ogni giorno di più una concreta indicazione programmatica per la ripresa di un movimento di classe forte e combattivo.
Le sempre maggiori difficoltà della triplice confederale a gestire la crisi e le ondate di licenziamenti nella tradizionale cornice della concertazione e della pace sociale, e il loro imbarazzo e nervosismo nel vedersi incalzati in diverse loro roccaforti dell'Emilia e della Toscana, sono la testimonianza che esistono spazi fino a poco fa inimmaginabili per un iniziativa di classe, non solo a livello sindacale.
Il clamore mediatico attorno alla vertenza ItalPizza, e la goffagine con cui padroni e sindacati confederali sono stati spinti a chiudere frettolosamente un accordo al ribasso pur di salvare la faccia e allontanare i riflettori dalla brutale repressione delle lotte e degli scioperi del SI Cobas, sono la palese riconferma di tali difficoltà.
In maniera analoga, l'iniziativa dei licenziati FCA e dei disoccupati napoletani contro le discriminazioni e le iniquità nei criteri di gestione e di accesso al Reddito di Cittadinanza, non solo hanno smascherato la propaganda del governo e dei 5 Stelle su questo tema, ma hanno soprattutto costretto quest'ultimo a un dietrofront con la modifica della legge per permettere l'accesso di tutti i licenziati a questa misura: una misura che per quanto resti a nostro avviso nient'altro che un misero palliativo per i poveri e i disoccupati, può diventare (soprattutto alla luce delle suddette contraddizioni) un terreno importante di lotta e di conflitto.
Indipendentemente dal prosieguo o meno del governo gialloverde, i prossimi mesi saranno un delicatissimo banco di prova sia per gli equilibri interni alla classe dominante, sia per la tenuta e lo sviluppo delle nostre lotte.
Non abbiamo governi amici: per l'indipendenza di classe, per un fronte anticapitalista
Come accennato in apertura, negli ultimi anni le nostre lotte si sono sempre più legate a doppio filo con alcune tra le più importanti esperienze di conflitto a livello nazionale.
A differenza dei molti tentativi di coordinamento politico-sindacale o di intergruppi che si sono prodotti in questi anni, decisi “a tavolino” tra i vertici di questo o di quel movimento e puntualmente naufragati nel giro di pochi mesi, la convergenza tra il SI Cobas e le realtà territoriali di movimento è nata e si è sviluppata quasi sempre dal basso, dentro il conflitto, gli scioperi, i picchetti e le occupazioni: in una fase di bassa conflittualità di classe, quelle minoranze che scelgono come terreno di azione quello della lotta, ci mettono davvero poco a conoscersi e a riconoscersi reciprocamente come accomunati dagli stessi obbiettivi.
E' stato così col Movimento No-Tav, è stato così con i movimenti per il diritto all'abitare, in particolare a Roma dove le lotte per la casa si intrecciano fin quasi a confondersi con quelle dei facchini della logistica; è così in tutte le città (da Milano a Bologna, da Modena a Napoli, da Piacenza a Genova) in cui le nostre battaglie si legano, quasi spontaneamente, alla parte più attiva dei movimenti territoriali, degli studenti, dei centri sociali, delle centinaia di attivisti sindacali e dei militanti politici che non hanno ammainato la bandiera dell'anticapitalismo e continuano ad operare e a lottare quotidianamente, nelle forme più disparate, per una società libera dal profitto e dallo sfruttamento.
Crediamo tuttavia che queste convergenze vadano sviluppate e ampliate non solo sul piano locale, ma anzi debbano assumere il piano nazionale e internazionale quale loro cornice principale.
Da due anni circa stiamo operando convintamente e testardamente in questa direzione, pur nella cosapevolezza che il quadro di polverizzazione attuale delle forze anticapitaliste non si risolve né dando vita a nuovi contenitori per puro atto volontaristico, nè tantomeno scambiando i nostri desideri e le nostre aspirazioni con la realtà.
Siamo però altrettanto consapevoli che la disfatta storica delle sinistre parlamentari, la crisi del sindacalismo di stato e ancor più la recente bancarotta dell'illusione pentastellata ci aprono degli spazi inediti e tutt'altro che testimoniali per una ripresa dell'iniziativa di classe, che sarebbe sciocco ed autolesionistico non cogliere: se non saremo in grado di compiere questo salto di qualità non sarà nessun altro a farlo al posto nostro, e dovremo assistere ancora per anni al circolo vizioso “rabbia-rassegnazione-frustrazione-passività” funzionale ai piani reazionari o al più all'ennesima riedizione di qualche insipida ammucchiata elettorale.
Il prossimo 25 ottobre il sindacalismo di base ha proclamato uno sciopero generale nazionale contro le politiche del governo. Il SI Cobas intende lavorare fin da ora affinchè, come e più dello scorso anno, questa data non rimanga circoscritta nel perimetro delle organizzazioni promotrici, ma divenga il fulcro di un ampia e generale mobilitazione capace di attraversare l'intero autunno e soprattutto di coinvolgere ed intersecare tutta l'opposizione di classe, i movimenti studenteschi come quelli contro le devastazioni ambientali, le lotte per la casa come il movimento femminista, le lotte dei disoccupati come quelle antirazziste, e che sia capace di porre le basi per una mobilitazione internazionalista, dunque non più limitata ai sempre più angusti confini nazionali, bensì capace di muoversi ed agire su scala almeno continentale.
E' questa la prospettiva in cui come SI Cobas ci muoviamo fin dalla nostra nascita: oggi riteniamo che tale prospettiva, che negli scorsi mesi abbiamo sinteticamente denominato “fronte anticapitalista”, per quanto attraversata da innumerevoli ostacoli e forze d'attrito, sia non solo auspicabile, ma anche praticabile qui ed ora.
E' per questo che invitiamo tutte le esperienze di lotta con cui ci siamo relazionati in questi anni, i compagni e le realtà anticapitaliste che dall'esterno hanno sostenuto a vario titolo le nostre battaglie, i lavoratori e i proletari combattivi senza distinzione di appartenenza sindacale o politica e che condividono queste riflessioni, a un momento di confronto assembleare nazionale che si terrà domenica 29 settembre alle ore 10,30 a Napoli (a breve verrà comunicata la sede dell'assemblea).
Solo la lotta paga
28/07/2019
SI Cobas nazionale
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