Culto della tecnologia o decrescita felice? Meglio la lotta di classe
di Coniare Rivolta*
L’introduzione delle macchine e la disoccupazione
Il progresso tecnologico è un fenomeno per sua natura complesso e controverso. Nonostante la vulgata mainstream tenda a presentarlo come un fenomeno meramente tecnico, neutrale e quasi salvifico, ha ovvie implicazioni politiche e sociali. Già alcuni tra i fondatori dell’economia politica si interrogavano sul ruolo che meccanizzazione dei processi produttivi, introduzione delle macchine e possibile sostituzione del lavoro umano avrebbero avuto nel disciplinare ed orientare il conflitto di classe a favore delle classi dominanti. Si può tracciare infatti una linea ideale che parte da David Ricardo – il quale notava come l’introduzione delle macchine potesse al contempo “rendere esuberante la popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori” – ed arriva a Marx, per il quale le macchine possono risultare funzionali al disegno dei capitalisti di comprimere “il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore”. In questa maniera, ci dice Marx, la sovrappopolazione relativa “forma un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera assoluta come se fosse stato allevato a sue spese”.
I movimenti dell’esercito industriale di riserva
L’utilizzo delle macchine, all’interno di un sistema capitalista, è d’altro canto uno dei terreni di lotta sui quali il conflitto distributivo prende forma. L’introduzione delle macchine nel processo produttivo rende momentaneamente superflua una parte della popolazione, ingrossando le fila dell’esercito
industriale di riserva. Come conseguenza, aumenta la concorrenza all’interno della forza lavoro, con ripercussioni negative sui salari e sulle condizioni lavorative.
Tuttavia il processo di creazione di ‘disoccupazione tecnologica’ (la disoccupazione creata dalla sostituzione di lavoratori con macchine all’interno del processo produttivo) non è lineare nel tempo e nello spazio. Se l’espansione dell’esercito di riserva è tale da comprimere in maniera rilevante il livello medio dei salari, il capitalista sceglierà processi produttivi ad alta intensità di lavoro. Questo dà vita ad un processo ‘a fisarmonica’, caratterizzato da un’alternanza di fasi di espansione e di contrazione dell’esercito industriale di riserva, dettato dal rivoluzionamento dei metodi di produzione e strutturalmente “assoggettato alla sete di sfruttamento e alla bramosia di dominio del capitale”, nelle parole di Marx – che in merito ai cambiamenti dei metodi di produzione fa riferimento ad una sovrappopolazione fluttuante. Il capitalista, infatti, non persegue innovazioni tecniche per un desiderio intrinseco di contribuire al progresso ed all’avanzamento tecnologico della società. Cerca invece, semplicemente, la maniera più profittevole di produrre. Se, grazie alla creazione di disoccupazione, il lavoratore è disposto ad accettare una remunerazione sufficientemente bassa da soddisfare le brame del capitalista, quest’ultimo accetterà di buon grado di tornare ad usare relativamente più lavoratori e meno macchine.
Con riferimento alla composizione organica del capitale, si può quindi dire che per Marx i cambiamenti nei metodi di produzione non seguono un’unica direzione. Questo perché la trasformazione dei metodi di produzione è “rivoluzionaria”, dettata dalla concorrenza stessa tra i capitalisti. È utile ribadire però che tale rivoluzione dei metodi di produzione non è caotica, bensì è assoggettata alla legge fondamentale di funzionamento di un sistema capitalista, che ha per ragione d’essere l’ottenimento di un tasso di profitto quanto più alto possibile. L’intento dei capitalisti è quello di comprimere il più possibile il costo del lavoro e dunque i salari, i cui movimenti “sono esclusivamente regolati dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva” (Marx). Una volta che i salari vengono spinti sufficientemente al ribasso, grazie anche all’introduzione delle macchine, per i capitalisti potrebbe diventare più conveniente impiegare un numero maggiore di lavoratori. Si assiste dunque ad una alternanza di fasi di espansione e di contrazione dell’esercito industriale di riserva, dettata dal rivoluzionamento dei metodi di produzione. Una alternanza che tuttavia va distinta da un andamento (anti)ciclico della disoccupazione, che tenderà ad aumentare in periodi di crisi ed a diminuire in fasi di sostenuta crescita della domanda aggregata.
Divisione internazionale del lavoro
Il processo di creazione di disoccupazione tecnologica ha anche una dimensione spaziale e si interseca con la divisione internazionale del lavoro, che da un lato vede deindustrializzazione e terziarizzazione dei paesi più ricchi, ma dall’altro vede un incremento dell’occupazione nella manifattura e nell’industria nei paesi in via di sviluppo, dove salari vergognosamente bassi rendono il lavoratore umano molto più conveniente del robot o della macchina che dovrebbero sostituirlo. Senza andare troppo lontani, il caso di alcuni paesi dell’Est Europa è paradigmatico: il costo orario del lavoro in Bulgaria è pari 3,93€, in Ucraina 2,49€, in Moldavia 1,45€. Allargando il nostro orizzonte, in Costarica è pari a 3,98€, in Ecuador 2,78€, in Argentina 0,65€ e in Malesia 0,0162€ (fonte: ILOSTAT).
Questa fase avanzata del capitalismo, come dicevamo, trova una delle sue fondamenta nella divisione internazionale del lavoro. “Non che cosa si fa, ma come e con quali mezzi di lavoro la si fa, distingue le epoche economiche”, sottolinea giustamente Marx. Per questo osserviamo una crescita esponenziale del terziario nei paesi più sviluppati, parallelamente ad una crescita notevole dell’industria nei paesi in cui il salario è una miseria. E nonostante percepiamo nei nostri paesi una crescente disoccupazione, abbinata ad una costante precarizzazione dei rapporti di lavoro, il numero di lavoratori nel mondo è cresciuto sensibilmente, dai 2,25 miliardi del 1991 ai 3,27 miliardi del 2017. Nello stesso arco temporale, nonostante la marcata flessione della produzione indotta dalla crisi economica iniziata nel 2007, la quota di occupati sulla popolazione è solo marginalmente diminuita, passando dal 60,7% del 2000 al 58,5% del 2017, in aperta contraddizione con la tesi di una presunta tendenza alla scomparsa del lavoro.
In ogni caso, quello che è importante sottolineare è come il progresso tecnologico sviluppato dal capitalismo serva a suddividere la produzione in operazioni elementari, tali da non richiedere manodopera qualificata. Nel momento in cui adempie a questo compito, il progresso tecnico rende possibile un grado di divisione internazionale del lavoro – che si estrinseca attraverso delocalizzazioni selvagge della produzione – che consente di sfruttare in maniera sempre più estensiva i bassi salari dei paesi meno sviluppati.
In questo contesto, la terziarizzazione dei paesi occidentali è principalmente il risultato della divisione internazionale del lavoro. Alla luce di ciò, non troviamo invece del tutto convincente una chiave di lettura che interpreta queste dinamiche nelle strutture produttive in termini di progresso tecnico in senso stretto, ossia di sostituzione dell’uomo con la macchina. Secondo questa linea di ragionamento, in alcune fasi della produzione – quelle a monte: progettazione, ingegnerizzazione, scrittura software; quelle a valle: stoccaggio, packaging, distribuzione, vendita, manutenzione, pubblicità – l’uomo semplicemente non è sostituibile da una macchina. Questo spiegherebbe perché l’occupazione nei paesi più ricchi tenda a concentrarsi in queste branche del terziario. Troviamo che questa chiave interpretativa possa essere in un certo senso arricchita ed integrata: nelle fasi a monte è richiesto un insieme di conoscenze e di infrastrutture di difficile reperibilità nei paesi più poveri. Da qui la divisione internazionale del lavoro. Le fasi a valle, invece, hanno necessità di prossimità geografica con il mercato di destinazione del prodotto. Inoltre, non è possibile sopprimere la forza lavoro in quanto fisicamente necessaria. Ci sarà sempre qualcuno che deve distribuire, vendere e occuparsi della comunicazione e della pubblicità. È al riguardo interessante notare come il capitale, nella sua ricerca continuata del profitto, riesca ad effettuare una sorta di divisione internazionale del lavoro anche dentro i confini di un singolo Paese, come ci racconta l’altissima concentrazione di lavoratori migranti, sfruttati e sottopagati, in determinati segmenti del processo produttivo come la logistica.
Come dicevamo, il progresso tecnico non è ovviamente uno spettatore passivo nel processo di divisione internazionale del lavoro. In un report del 1996 la World Trade Organization (WTO) poneva l’attenzione sul crescente ruolo degli investimenti diretti esteri. L’Organizzazione enfatizzava la capacità di questo tipo di investimenti di creare ricchezza e sviluppo per i Paesi più poveri in quanto rappresentano un modo per attirare capitali e tecnologia. Gli investimenti diretti esteri rappresentano infatti l’anello di congiunzione tra la divisione internazionale del lavoro e il progresso tecnico, rendendo possibile la diffusione della tecnologia più avanzata anche nei Paesi meno sviluppati. Infatti l’esternalizzazione, o delocalizzazione, di una fase del processo produttivo avviene solamente quando è possibile usufruire delle condizioni tecniche più vantaggiose. È necessario dunque portare i Paesi meno sviluppati sulla frontiera tecnologica, almeno per quanto riguarda alcune fasi del processo produttivo. Di questo onere se ne fa carico in parte il progresso tecnico, il quale ha il compito di ridurre la conoscenza del processo produttivo richiesta alla forza lavoro – in questo modo è possibile impiegare le masse di lavoratori non qualificati dei paesi più poveri – e introducendo, via via, metodi di produzione sempre più indiretti, isolati uno dall’altro, e che quindi possono essere svolti in diverse zone del mondo. Frammentando il processo produttivo in comparti sempre più piccoli, i lavoratori sono sollevati dall’obbligo di possedere una profonda conoscenza sull’intero processo produttivo poiché devono concentrarsi esclusivamente su poche e ripetitive azioni. Questa parcellizzazione della produzione si ripercuote anche all’interno dei confini nazionali, danneggiando i lavoratori. Quest’ultimi, infatti, perdono forza contrattuale sia a causa della concorrenza dei lavoratori dei Paesi più poveri sia perché subiscono una dequalificazione professionale in seguito alla frammentazione del processo produttivo, diventando più facilmente sostituibili.
La divisione internazionale del lavoro, attraverso il processo di liberalizzazione del commercio internazionale e la libertà di movimento dei capitali, riproduce su scala globale quel movimento ‘a fisarmonica’ dell’esercito industriale di riserva. Anziché essere confinata ad alcune sfere della produzione all’interno di confini nazionali, questa oscillazione della sovrappopolazione deve essere analizzata a livello mondiale, come se vi fosse un unico, immenso e sconfinato esercito industriale di riserva.
Conclusioni
Alla luce di queste considerazioni, si deve quindi concludere che il progresso tecnico vada avversato e considerato inerentemente nemico delle classi lavoratrici? La risposta non può ovviamente essere così semplice. Una società capitalista senza progresso tecnico sarebbe una società ugualmente ingiusta e sarebbe senza dubbio più povera. La disoccupazione tecnologica sarebbe sostituita da disoccupazione strutturale, ma le condizioni delle classi subalterne non sarebbero certamente migliori. È innegabile che il progresso tecnico abbia portato benefici anche ai lavoratori. Questi benefici sono stati assolutamente insufficienti, insoddisfacenti e certamente infinitesimali rispetto ai benefici di cui si sono appropriati i capitalisti. In una società capitalistica, il progresso tecnico è uno degli strumenti attraverso cui la classe dominante si arricchisce più rapidamente, sfruttando in misura più intensa i lavoratori. In questo mondo il progresso tecnico è sempre assoggettato, come abbiamo detto precedentemente, “alla sete di sfruttamento e alla bramosia di dominio del capitale”. La questione da porre, allora, è ancora una volta la stessa di sempre: ciò che rileva è chi si appropria dei benefici del progresso tecnico e chi ne decide gli indirizzi. Andando più a monte, chi detiene i mezzi di produzione e chi controlla il processo produttivo. Durante i cosiddetti “trenta gloriosi” (gli anni del secondo dopoguerra) il progresso tecnico, guidato principalmente dal settore pubblico, ha convissuto con politiche keynesiane volte al perseguimento della piena occupazione. La coscienza di classe, il grado di coesione dei lavoratori ed una conflittualità diffusa hanno fatto sì che l’aumento della produttività del lavoro premiasse anche i lavoratori, sia in termini di remunerazione salariale che di condizioni lavorative, tra cui la riduzione dell’orario lavorativo. Approfondire queste contraddizioni diventa allora di primaria importanza, per rompere un’impossibile alternativa tra una società iper-tecnologizzata e popolata da lavoratori sfruttati ed atomizzati ed una società pauperista della decrescita felice.
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