(Riprendiamo stralci da due recenti articoli di Tommaso Di Francesco, apparsi sul Manifesto, che mostrano non la forza dell'imperialismo, ma il suo incatenamento nelle sue stesse contraddizioni).
L’attentato
di Istanbul è stato troppo paragonato ad altri efferati e siccome ha
avuto di mira la discoteca lussuosa Reina ha indubbiamente ricordato
il Bataclan di Parigi, per modalità e natura del bersaglio colpito.
Ma
quella strage e le altre di quel periodo rappresentavano ancora la
fase predicatoria-criminale dello Stato islamico, una sorta di
offensiva nei luoghi dell’Occidente, subito in Europa.
Ma
erano e sono gli stessi Paesi che avevano attivato in Siria la guerra
per procura insieme alle petromonarchie del Golfo; e che avevano
visto partire, senza commento, migliaia di foreign fighters. Una scia
di sangue di rientro in casa.
Stavolta
c’è una novità. L’attentato avviene a poche ore dal voto al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite che ha approvato
all’unanimità con il voto positivo degli Stati uniti ancora a
presidenza Obama le condizioni della tregua trattate da una parte da
Russia, Turchia e Iran e dall’altra dal fronte dell’opposizione
siriana, non solo quella moderata ma anche dei salafiti, escludendo
naturalmente Isis e qaedisti.
Proprio
quando Ankara sembra volgere lo sguardo dalla Nato, l’alleanza
militare di storica appartenenza per rivolgere invece attenzione
all’iniziativa della Russia. Con la quale ha fatto un voltafaccia
di 360 gradi, tagliando con le milizie dell’Isis che fino
all’ultimo ha protetto in traffici di armi, petrolio, finanziamento
e addestramento.
Il
fianco debole della tregua di pace votata all’Onu è proprio la
Turchia. Che è in guerra con una parte del suo popolo nel Kurdistan
interno; e che finora è stata il santuario del fronte.
Questo
è il fianco debole esposto alla vendetta, che lo Stato islamico in
ritirata vuole e, vista la recente connivenza, può colpire.
L’Europa
si augura che la Turchia resista. Questo
accadrà nella ferocia della cancellazione ulteriore di diritti,
libertà e democrazia. Con tanti, troppi silenzi che copriranno,
insieme alla difesa e salvaguardia contro l’Isis, la repressione di
tante, troppe libertà per le quali le capitali occidentali sono
state taciturne e complici.
La
guerra, in Siria e prima in Libia e Iraq, è stata solo seminazione
d’odio. La scia nefasta che «ci torna a casa» non è solo quella
degli attentati sanguinosi.
Diventa
normalità essere costretti ad una democrazia blindata, sul chi vive,
fittizia, affidata a protezioni eccezionali, magari militari.
Ci
si è riempita la bocca delle «stragi di Aleppo» in questi ultimi
giorni, dispensando la chiacchiera della scoperta a
destra e peggio ancora a sinistra, dopo ben cinque anni di massacri
veri che hanno fatto «semplicemente» 200 mila morti e 7 milioni di
profughi. Senza capire che in questa ultima settimana è cominciata
invece, con la disfatta delle milizie integraliste e delle forze
combattenti ad esso legate, l’evacuazione di decine di migliaia di
civili ostaggio del doppio assedio dell’intera città e bersaglio
di bombardamenti micidiali a est come a ovest.
Ora
c’è la reazione rabbiosa dello jihadismo. Che di fronte alla
perdita di Aleppo e verso le «vie di ucita» di Idlib e Raqqa,
dall’irachena Mosul – che prenderà a modello le stesse
distruzioni e propaganda – chiama alle armi: «Moltiplicate gli
sforzi, colpite i crociati: americani, europei, traditori turchi,
comunisti russi, tiranni arabi». Ed è partito l’assalto ai
turisti in Giordania, l’uccisione dell’ambasciatore russo, la
strage di Berlino. Il timore è che non sia finita qui. Il messaggio
è indirizzato anche alle leadership, politiche e militari,
occidentali. A chi finora li aveva usati per destabilizzare il Medio
Oriente, perché dopo la riuscita impresa della Libia doveva toccare
alla Siria.
La
guerra che abbiamo aizzato altrove – ma Aleppo, ridotta in rovine,
è il cuore del Medio Oriente esattamente come Berlino lo è
dell’Europa – ci ritorna in casa con il gesto individuale
criminale e con i foreign fighters di ritorno e sconfitti.
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