giovedì 5 gennaio 2017
pc 5 gennaio - PERCHE' LA CRISI DELL'ACCIAIO, NON CE LA SPIEGANO GLI ECONOMISTI BORGHESI, MA IL COMUNISTA MARX - Da "La crisi mondiale della siderurgia" del Gruppo di lavoro 21 febbraio 1848 - IV PARTE
Le cause prime della crisi dell’acciaio
Per capire perché in tutto il mondo si stia verificando un drammatico arretramento della produzione in primis manifatturiera, e dunque anche nel comparto dell’acciaio, ma anche nel settore minerario, in quello dei trasporti o in quello delle costruzioni e delle infrastrutture, dobbiamo prendere in esame innanzitutto come funziona il modo di produzione capitalistico, quali leggi specifiche determinino il suo sviluppo. Per prima cosa, occorre tenere ben presente che il capitalismo è innanzitutto concorrenza e non solamente concorrenza tra il capitale e la classe operaia, ma anche concorrenza tra gli stessi capitalisti. E i capitalisti conducono questa lotta tra di loro, questa lotta fratricida, ciascuno ricercando costantemente nuovi metodi di produzione che gli permettano innanzitutto di abbassare il prezzo della merce che produce. La legge che sta alla base del modo di produzione capitalistico, scoperta e descritta da Marx, è quella secondo la quale il valore delle merci corrisponde alla quantità di lavoro che viene speso, impiegato, per produrle. Di conseguenza, il valore di una merce corrisponde alla quantità di lavoro speso in un primo tempo per produrre i mezzi di lavoro più la quantità di lavoro che viene consumata per la fabbricazione del prodotto finale. E proprio perché
nella società capitalistica il valore delle merci viene misurato in base alla quantità di lavoro che contengono (lavoro che, a sua volta è misurato in tempo, in ore di lavoro), abbassare il prezzo di una merce vuol dire ridurre il più possibile la quantità di lavoro contenuta in ciascuna singola merce. Si tratta, come vedremo, di un metodo contraddittorio perché, a lungo andare, finisce per ridurre a un limite estremo quella che è l’unica fonte del profitto stesso, la forza lavoro, in proporzione ai mezzi di produzione che essa metta in movimento.
“Non esiste un capitalista il quale applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo metodo, pur essendo assai più produttivo ed aumentando considerevolmente il saggio del plusvalore (il grado di sfruttamento della forza lavoro) provoca però una diminuzione del saggio di profitto. Ma un tale metodo di produzione fa diminuire il prezzo delle merci. Il capitalista vende in un primo tempo le merci al di sopra del loro prezzo di produzione….egli intasca la differenza fra il costo di produzione ed il prezzo di mercato delle altre merci prodotte a costi di produzione più elevati e può fare questo perché il tempo medio necessario alla produzione di tali merci è superiore al tempo di lavoro del nuovo metodo di produzione” (Marx Il Capitale L III cap 15).
La continua, incalzante, introduzione di nuovi metodi di produzione ha come risultato una costante crescita del volume dei mezzi di produzione impiegati nei processi lavorativi in rapporto alla forza lavoro impiegata. Ed anzi, proprio la proporzione tra mezzi di produzione e forza lavoro, esprime più di ogni altra cosa il grado di sviluppo raggiunto dal capitale industriale, il grado di sviluppo della sua forza produttiva e dunque del modo di produzione capitalistico in generale.
“Il grado sociale di produttività del lavoro si esprime nel volume della grandezza relativa dei mezzi di produzione ……la crescente grandezza del volume dei mezzi di produzione, rispetto alla forza lavoro ad essi incorporata, esprime la crescente produttività del lavoro. L’aumento di quest’ultima si manifesta nella diminuzione della massa di lavoro paragonata alla massa dei mezzi di produzione da essa messa in movimento…….”
Questo non vuol dire, spiega Marx, che con lo sviluppo del capitalismo, con il progressivo espandersi di questo modo di produzione su tutto il pianeta fino alla costituzione di un unico mercato mondiale non aumenti il numero assoluto degli operai (il capitale variabile). E’ vero piuttosto il contrario: “Del resto, se il progresso dell’accumulazione diminuisce la grandezza relativa della parte variabile del capitale, esso non esclude affatto per questo l’aumento della sua grandezza assoluta” e “D’altra parte è unicamente nel modo capitalistico di produzione che si riscontra questo bisogno di un aumento assoluto del numero dei salariati nonostante la loro diminuzione relativa”. (ibidem)
Però, spiega ancora Marx, man mano che la produzione industriale capitalistica si sviluppa e che nei processi lavorativi vengono introdotti macchinari più efficienti, i capitalisti si accorgono che la somma di denaro che devono investire complessivamente in mezzi di produzione e salari, è minore se acquistano macchinari che richiedono per il loro impiego meno forza lavoro, che è più vantaggioso per loro spremere plusvalore con queste macchine da un numero minore di operai.
“Ogni capitalista è assolutamente interessato a spremere una determinata quantità di lavoro da un numero minore di operai invece che da un numero maggiore. Nel secondo caso l’esborso di capitale aumenta in rapporto alla massa del lavoro messa in moto mentre nel primo caso aumenta più lentamente. Quanto più larga la scala della produzione tanto più decisivo è questo motivo. Il suo peso cresce con l’accumulazione del capitale”. (Marx Il Capitale L I cap 23) e “Tutti i fattori che hanno come effetto la riduzione del prezzo delle merci prodotte con l’impiego di macchine, si riducono sempre, innanzitutto, alla diminuzione della quantità di lavoro che viene assorbita dalla singola merce e in secondo luogo, alla riduzione della parte che si logora della macchina e il cui valore entra nella singola merce. Meno rapido è il logorio della macchina tanto maggiore è la quantità di merci sulle quali esso si ripartisce, e più considerevole è il lavoro che essa sostituisce prima che giunga il momento di sostituirla”. (Marx Il Capitale L III cap 15).
Dunque, via via che cresce l’accumulazione di capitale, quanto più si allarga la scala della produzione, il numero degli operai si riduce non solo relativamente alla massa dei mezzi di produzione, ma diminuisce anche, per ciascun singolo capitale, in termini assoluti. Anche nella periferia del capitalismo, nelle economie che fino a ieri venivano definite “emergenti”, allo straordinario aumento della forza lavoro operaia, dovuto al moltiplicarsi del numero delle fabbriche e dei cantieri, corrisponde una sua progressiva diminuzione in rapporto alla massa del capitale costante che essa mette in movimento. Man mano che si generalizza l’introduzione dei macchinari più moderni, “il mezzo più potente per aumentare la produttività del lavoro, ossia per accorciare il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce”, anche nella periferia della produzione mondiale si impone la legge dell’aumento crescente della parte costante del capitale rispetto a quella variabile, l’aumento della massa di macchinari, impianti, materie prime etc, in proporzione alla forza lavoro. Ma, come sappiamo da Marx, i macchinari e gli impianti, la materia prima e l’energia, le materie ausiliarie, gli edifici della fabbrica etc, si chiamano capitale costante perché il loro valore trapassa tale e quale nel prodotto finale; la grandezza del loro valore (che deriva a sua volta dal tempo di lavoro che è stato speso in precedenza per estrarle, nel caso delle materie prime, per fabbricarle nel caso delle macchine, per generarla nel caso dell’energia, per costruirli nel caso degli edifici etc, etc ), non cambia con il loro impiego nel processo lavorativo, ma rimane, appunto, costante dall’inizio alla fine del processo lavorativo. Macchine, energia etc, costituiscono, insomma, solamente un costo per il capitalista industriale che le impiega; “Egli le ha pagate per il loro intero valore” non aggiungono al bene finale più valore di quanto ne possedevano quando sono state acquistate per essere impiegate nel processo di lavoro. Invece il denaro che il capitalista spende per l’acquisto della forza lavoro, il capitale che egli spende in salari per gli operai, è capitale variabile perché il suo valore varia, aumentando, nel corso del processo lavorativo. Il capitale speso in salari è capitale speso in lavoro, esso entra nel processo produttivo e ne esce aumentato del plusvalore. E ciò avviene perché nella società capitalistica gli operai non vengono mai pagati per quanto lavoro compiono, cioè per quanto valore aggiungono al prodotto con il proprio lavoro.
Precisamente in questo consiste il “segreto” della produzione capitalistica, nel fatto che il prezzo di mercato della forza lavoro viene mantenuto sempre al di sotto del valore della forza lavoro e ciò avviene con tanti e diversi metodi il più importante dei quali è la creazione, imprescindibile per questo modo di produzione, di una sempre maggiore eccedenza di forza lavoro non occupata o semioccupata, di un sempre crescente esercito industriale di riserva. L’operaio potrà così ricevere un salario che corrisponderà solamente al valore delle merci che gli sono necessarie per vivere e riprodursi e questo valore dovrà essere sempre inferiore al valore della produzione sociale di un’intera giornata lavorativa. In questo modo, l’operaio trascorrerà una parte della giornata lavorativa a produrre l’equivalente del proprio salario (tempo di lavoro necessario alla riproduzione del salario) e nell’altra parte della giornata lavorativa (tempo di pluslavoro), produrrà valore (plusvalore) per il possessore dei mezzi di produzione, per colui che ha comprato la sua capacità di aggiungere altro valore a quello contenuto nei mezzi di lavoro; quel “plusvalore” che diverrà, una volta venduta la merce, il profitto del capitalista. Si rivela così la contraddizione fondamentale del capitale: “Nell’uso del macchinario per la produzione di plusvalore, vi è quindi una contraddizione immanente, giacché quest’uso ingrandisce uno dei due fattori del plusvalore che un capitale di una data grandezza fornisce, e cioè il saggio di plusvalore, soltanto diminuendo l’altro fattore: il numero degli operai”. Perseguendo lo scopo di ridurre costantemente il valore delle merci che produce, il capitale distruggerà altrettanto costantemente quella che è l’unica vera fonte del proprio profitto. Tra tutte le armi che il capitale ha a propria disposizione per contrastare gli effetti contraddittori del proprio modo di svilupparsi, quella decisamente più importante consiste nel riuscire a sfruttare di più gli operai che rimangono a produrre, cioè aumentare la quantità di plusvalore che estorce a questi ultimi.
L’aumento della produttività: l’ossessione dei capitalisti e degli economisti borghesi
Una volta scoperta la legge del plusvalore, è facile dedurne che lo scopo a cui tenderà con ogni mezzo il capitalista, che è il proprietario dei mezzi di produzione e della forza lavoro per tutta la durata della giornata lavorativa, sarà quello di abbreviare il più possibile il periodo della giornata lavorativa durante il quale l’operaio produce l’equivalente del proprio salario e aumentare di altrettanto la parte della giornata lavorativa durante la quale l’operaio produce per il capitale. In altre parole, egli farà di tutto per abbreviare il tempo durante il quale l’operaio lavora per riprodurre il salario che riceve e prolungare in questo modo il tempo in cui l’operaio lavora per lui. In altre parole ancora, accorciare il tempo di lavoro necessario e allungare il tempo di pluslavoro. Il principale mezzo con cui il capitalista raggiunge questo scopo è l’introduzione nel processo lavorativo di macchinari sempre più efficienti che consentano all’operaio di produrre in meno tempo più merci e così “fare prima” a produrre le merci che equivalgono al suo salario e avere più tempo da mettere a disposizione del capitalista, più ore per produrre “gratuitamente” più merci per quest’ultimo. La storia dello sviluppo del processo lavorativo su basi capitalistiche, una volta che le lotte condotte dalla classe operaia hanno portato alla limitazione per legge della durata complessiva della giornata di lavoro, si riduce, in ultima analisi, alla continua trasformazione di tempo di lavoro necessario in tempo di pluslavoro. Naturalmente i capitalisti non cessano mai di tentare di prolungare la durata complessiva della giornata di lavoro attraverso il lavoro straordinario o la riduzione delle pause, ma il metodo più efficace e più utilizzato dal capitale per aumentare l’estorsione di plusvalore consiste ormai da tempo, almeno dall’inizio del secolo scorso nelle nazioni di più antica industrializzazione, nell’appropriazione da parte del capitale di tempo di lavoro necessario e nella sua conversione in tempo di pluslavoro. Tutte le innovazioni che una dopo l’altra ad un ritmo sempre più travolgente sono state introdotte nel processo lavorativo hanno avuto come ultimo risultato, quale di più quale di meno, quello di spingere all’indietro il tempo che occorre all’operaio per riprodurre il proprio salario. Ma è evidente che dopo ogni innovazione rimaneva sempre meno tempo di lavoro necessario e dunque all’innovazione successiva rimaneva sempre meno tempo di lavoro necessario da trasformare in tempo di pluslavoro, quella parte della giornata lavorativa che si rappresenta come plusvalore. Marx spiega che aumentare la produttività del lavoro vivo, la produttività dell’operaio, per estorcergli maggior plusvalore, consiste nel ridurre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione del salario: “L’aumento della forza produttiva del lavoro vivo accresce il valore del capitale…….perchè riduce il lavoro necessario e dunque, nella stessa misura in cui lo riduce, crea lavoro eccedente o, il che è lo stesso valore eccedente”. (Marx Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica Q III)
“L’aumento……del plusvalore conseguente a una data variazione nella forza produttiva del lavoro risulta tanto maggiore quanto minore era originariamente la parte della giornata lavorativa che si rappresenta in plusvalore e risulta tanto minore quanto maggiore era quest’ultima parte”. (Marx, Il Capitale L I cap 15) e ancora: ”Quanto più è già ridotta la frazione della giornata lavorativa che costituisce l’equivalente dell’operaio, che esprime il lavoro necessario, tanto minore è l’aumento del valore eccedente che il capitale ottiene dall’aumento della forza produttiva. Il suo valore eccedente aumenta, ma in rapporto sempre minore rispetto allo sviluppo della forza produttiva. Quanto più il capitale è quindi già sviluppato, quanto più lavoro eccedente esso ha creato, tanto più deve aumentare in misura formidabile la forza produttiva per valorizzarsi, ossia per aggiungere plusvalore, solo in misura modesta poiché il suo limite rimane sempre il rapporto tra la frazione della giornata lavorativa che esprime il lavoro necessario e l’intera giornata di lavoro”. (Marx Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica Q III)
Facciamo un esempio: un operaio nel corso di una giornata lavorativa di otto ore impiega 4 ore per riprodurre il valore del proprio salario (tempo di lavoro necessario) e nelle altre 4 ore produce plusvalore per il capitalista (tempo di pluslavoro). Ossia, 4 ore di tempo necessario alla riproduzione del salario e 4 ore di tempo di ulteriore lavoro, di cui si appropria il capitalista (in realtà un simile rapporto tra tempo di lavoro necessario e tempo di plusvalore si riscontrava nei primi anni del Novecento; ce ne serviamo per rendere più semplice l’esempio). Immaginiamo che grazie all’introduzione di un nuovo macchinario, il capitalista riesca a ridurre di un quarto il tempo di lavoro durante il quale l’operaio “produce per sé stesso” e che dunque ora l’operaio impieghi solo 3 ore a produrre merci del valore equivalente al proprio salario. Le ore in cui produrrà merci per il capitalista passeranno allora da 4 a 5. Il tempo di lavoro necessario si è ridotto di 1 ora mentre il tempo di pluslavoro è aumentato di 1 ora. Il primo è diminuito del 25% (da 4 ore a 3 ore) e il secondo è aumentato del 25% (da 4 ore a 5 ore) cioè di altrettanto di quanto è diminuito il primo. Diminuendo di un quarto il tempo di lavoro necessario, il capitalista ha aumentato esattamente di un quarto anche il tempo durante il quale l’operaio produce per lui plusprodotto ossia plusvalore. Immaginiamo che un nuovo aumento della forza produttiva del lavoro riesca a diminuire ancora del 25%, ossia di 45 minuti, il tempo di lavoro necessario portandolo da 3 ore a 2 e 15m’. Il tempo di pluslavoro aumenterà di conseguenza di 45 minuti, passando quindi a 5 ore e 45m’. Ma vediamo che mentre il tempo di lavoro necessario è diminuito del 25% il tempo di pluslavoro questa volta non è aumentato di altrettanto quanto sia diminuito il tempo di lavoro necessario ma solamente del 15 % (45 minuti rappresentano appunto il 15 % di 5 ore).
Marx richiama continuamente il fatto che l’allargamento della produzione dipende innanzitutto dalla possibilità da parte del capitale di appropriarsi di tempo di lavoro necessario per farne tempo di pluslavoro e che soprattutto da questa possibilità deriva l’andamento del saggio di profitto: “ L’estensione oppure la riduzione della produzione non vengono decise in base al rapporto tra la produzione ed i bisogni sociali dell’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione di lavoro non pagato…….o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire, in base al saggio di profitto”. (Marx, Il Capitale L III cap 15)
Non appena il saggio di profitto (il rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione e in salari e il plusvalore) inizia a declinare, a causa del mutato rapporto tra capitale costante e capitale variabile, allora ciascun capitalista industriale si volge nuovamente alla ricerca di un metodo produttivo che gli permetta di abbassare ancora al di sotto del prezzo di mercato, il valore del bene che produce, ripercorrendo per l’ennesima volta il cammino che abbiamo più sopra descritto.
“Quando il saggio di profitto diminuisce, il capitale…… raddoppia i propri sforzi ed ogni singolo capitalista, impiegando metodi migliori, cerca di ridurre il valore individuale della sua merce particolare al di sotto del valore medio sociale, realizzando così, a un dato prezzo di mercato, un sovraprofitto…” (ibidem). Ma, come abbiamo visto, ridurre ancora il valore della merce al di sotto del prezzo del mercato, vuol dire abbassare ancora il valore della forza lavoro riducendo ancora il tempo di lavoro necessario dell’operaio e dunque spingendolo ancora verso il suo limite minimo, raggiunto il quale non saranno più possibili incrementi della produttività sufficientemente grandi da risollevare il saggio di profitto che “costituisce la forza motrice della produzione su base capitalistica”.
In questo, e solamente in questo, consiste quell’aumento della produttività che tanto ossessiona i capitalisti e gli economisti borghesi. In questo e solamente in questo, dal punto di vista del capitalista, consiste lo sviluppo della forza produttiva della società. Da qui lo sgomento dei capitalisti quando ai nostri giorni, dopo che il tempo di lavoro necessario all’operaio per riprodurre il proprio salario è stato letteralmente divorato dalle incalzanti innovazioni dei metodi di lavoro, devono constatare il fatto che le invenzioni che la scienza mette loro a disposizione non sortiscono più gli effetti spettacolari di un tempo. Da qui il loro continuo e vano arrovellarsi su come fare ad abbassare ancora il valore della forza lavoro, a far salire, con i balzi in alto di un tempo, la produttività dei propri operai.
Anche la massa assoluta del plusvalore finisce per ridursi a un limite minimo man mano che procede la riduzione del numero degli operai non solamente in rapporto alla massa di capitale costante che viene messa in moto, ma anche in assoluto in ciascuna singola fabbrica. Abbiamo già visto come il continuo incremento della composizione tecnica del capitale rappresenti una legge fondamentale dello sviluppo del modo di produzione capitalistico: “Questa legge dell’aumento crescente della parte del capitale costante in proporzione alla parte variabile, viene convalidata ad ogni passo dall’analisi comparata dei prezzi delle merci, sia che paragoniamo epoche economiche diverse in una nazione, sia diverse nazioni in una medesima epoca economica. La grandezza relativa di quell’elemento del prezzo che rappresenta solo il valore dei mezzi di produzione consumati, ossia la parte costante del capitale, sarà generalmente in proporzione diretta del progresso dell’accumulazione; la grandezza dell’altro elemento del prezzo che paga il lavoro, ossia rappresenta la parte variabile del capitale, sarà in proporzione inversa di quel progresso”
Lo sviluppo delle forze produttive attraverso l’aumento del grado di sfruttamento (saggio di plusvalore) può agire come controtendenza a questa riduzione annullandone l’effetto sulla massa del plusvalore (e dunque sulla caduta saggio di profitto). Ma, come abbiamo appena visto, la diminuzione del lavoro necessario, cioè la parte pagata del lavoro dell’operaio, è oramai ridotta a un grado estremo rispetto a quella non pagata.
“Lo sviluppo delle forze produttive fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, esso accresce il plusvalore aumentandone il saggio…………..la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti insuperabili; la caduta del saggio di profitto può essere ostacolata ma non annullata” (Marx il Capitale L III, cap 15)
Ed è venuta ormai meno anche un’altra delle principali controtendenze al declino del saggio di profitto, quella per cui, di pari passo con lo sviluppo delle forze produttive, veniva abbassato costantemente il valore dei beni prodotti e dunque anche quello delle stesse macchine, materie prime e altri mezzi di produzione. All’aumento della massa del capitale costante impiegato nella produzione, poteva in passato non corrispondere un pari aumento del suo valore ossia dei costi per il capitalista che comprava macchinari materie prime etc. In altre parole, il capitale costante, mentre aumentava sempre di più in termini di massa e qualità dei macchinari, di materie prime e ausiliarie, di energia impiegata, poteva non aumentare altrettanto in termini di costo. Se si guardano i dati storici relativi al prezzo di tutte le materie prime, si vede chiaramente come il loro costo, a partire da quello delle materie prime che entrano nel comparto dell’acciaio come il carbone, il ferro, e gli altri metalli, era andato progressivamente aumentando in conseguenza della necessità di estrarne immense quantità e dunque dal doverle cercare ed estrarre da terreni sempre “peggiori” e con tecniche sempre più sofisticate e costose.
La corsa ai terreni “peggiori”, quelli che comportano un prezzo di produzione estremamente elevato, ha assunto proporzioni senza precedenti nella storia del capitalismo solo a partire dalla fine del secolo appena trascorso, coincidendo con l’estensione della produzione capitalistica alla Cina e ad altre nazioni, alcune interessate per la prima volta dall’industrializzazione, altre “rivitalizzate” da nuovo ciclo espansivo e in buona misura come fornitrici di materie prime. Il capitale non aveva mai conosciuto, nei suoi precedenti cicli espansivi una corsa di simile ampiezza alla ricerca di materie prime industriali, energetiche e alimentari. Basti pensare, in relazione all’acciaio, che ancora prima della II Guerra Mondiale la Germania, allora la terza produttrice di acciaio nel mondo, utilizzava nella propria industria siderurgica il ferro che importava dalla Svezia o dalla Spagna e solo durante il conflitto e poi nel secondo dopoguerra iniziò lo sfruttamento intensivo dei giacimenti interni. E quanto detto a proposito del costo delle materie prime vale anche per i macchinari e le attrezzature immesse nel ciclo produttivo, sempre più complessi ed efficienti (anche nel sostituire forza lavoro) e sempre più costosi... (CONTINUA IL 9 GENNAIO)
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