In Svizzera centinaia di richiedenti asilo vivono sottoterra, nei rifugi della protezione civile. Restano lì anche per sette mesi. Mentre crescono le proteste delle associazioni
Venti scalini. Ogni giorno, i trentotto richiedenti asilo alloggiati a Coteau-Fleuri, a circa cinque chilometri dal centro di Losanna, devono percorrerli almeno due volte. Questi venti scalini conducono sottoterra, in un bunker antiatomico o, come viene chiamato in Svizzera, un rifugio di protezione civile. È in queste strutture che centinaia di richiedenti asilo sono alloggiati in tutto il Paese. Nel cantone di Vaud, sono sedici i rifugi antiatomici utilizzati per accogliere i migranti. Dei 5.380 richiedenti presenti nel cantone, 657 sono costretti a passare la notte in questi spazi sotterranei. Sono tutti uomini. Dentro l’aria è pesante. Non ci sono finestre. L’odore di chiuso ti si appiccica
addosso. Dopo aver superato i controlli all’ingresso, si accede alla struttura. A fare da guida è Pascal Rochat, responsabile del settore Losanna per l’Evam (Etablissement Vaudois d’Accueil des Migrants), l’ente pubblico incaricato di gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo nel cantone vodese che ha dato il permesso per visitare il rifugio.
All’ingresso del bunker ci sono una decina di tavoli con delle panche. Un minuscolo corridoio conduce ai bagni mentre sulla sinistra, in due stanze, sono disposte due file di letti a castello da tre piani ciascuno. Sono le otto e mezza. Il bunker si sta svegliando. Qualcuno si fa la doccia, altri sono già usciti. Intanto fuori, i bambini, accompagnati dai loro genitori, stanno andando a scuola. Il rifugio, infatti, è quello della scuola primaria di Coteau-Fleuri a Losanna. «In Svizzera – spiega Rochat - la maggior parte dei bunker è stata costruita per paura di una minaccia atomica durante la Guerra Fredda. Ancora oggi, ogni abitazione deve esserne dotata di almeno uno da usare in caso di calamità naturale».
Non sono neanche le dieci e i migranti arrivano in massa alla struttura diurna di Boveresses, poco lontano da Coteau-Fleuri. Karimi, un trentaduenne di origini curde iraniane dice che «non è vita, quella nei bunker. Neanche gli animali vorrebbero vivere in queste condizioni». È stato in prigione per quattro anni e che hanno cercato di ucciderlo due volte. Mi mostra i segni delle torture. «Non ho paura di dire il mio nome –spiega - vorrei solo una vita migliore».
Tra i migranti sono pochi quelli che hanno voglia di parlare. Lo faranno più tardi in una delle strutture diurne messe a disposizione dall’Evam. Qui i migranti vanno ad ingannare il tempo durante il giorno. Il bunker deve essere lasciato entro le 9.45 e bisogna farvi ritorno prima della 18. «È una scelta che abbiamo fatto – aggiunge Rochat - per garantire una migliore gestione di queste strutture. Senza orari, qualcuno non usciva più e questo comportava una degenerazione fisica e psichica».
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