Un giovane operaio
di Eugenio Bonanata
Per loro non è stato possibile applicare il job act. Se hanno la febbre prendono l’Aulin e vanno in fabbrica, altrimenti sono considerati lavoratori poco affidabili. Quando ricevono la chiamata devono scattare. Operai di serie b. Senza tutele. E con un contratto che può saltare da un momento all’altro
Sono quasi invisibili. E’ la galassia dei lavoratori che gravitano intorno all’indotto Fiat di Melfi. Non fanno capo direttamente alla Fiat, ma alle tante aziende di cui si serve la ‘casa madre’. Quando Renzi ha sottoscritto il job act loro non ne hanno potuto usufruire. I loro contratti vengono confermati di volta in volta. A giugno, visto il leggero calo produttivo, molti potrebbero non essere confermati. Non solo un rinnovo appeso ad un filo, ma anche condizioni di lavoro inique. Sono ‘figli di un dio minore’.
“11 ore di fila sulla linea”. Abbiamo raccolto lo sfogo di uno di loro. “A condizione che non mettete il mio nome – precisa – altrimenti il lavoro da domani me lo posso dimenticare”. La forza del ricatto in fabbrica è forte. “Mi è capitato di attaccare la mattina alle 6 – spiega – e alle 13 ho saputo che il turno sarebbe proseguito fino alle 5 del pomeriggio”. Ad oltranza. “Oppure mi è capitato di fare il turno di pomeriggio e di essere richiamato per la mattina successiva”. Sette ore di break, in sostanza, e poi di nuovo al lavoro. Ma c’è di più. Le chiamate arrivano all’improvviso. Così, oltre “a non poterti programmare le giornate, capita che se hai la febbre, ti tocca prendere un Aulin e scendere a S. Nicola”. E se capita un infortunio? “Meglio non infortunarsi, altrimenti se perdi qualche giorno vieni scavalcato da chi condivide la tua stessa situazione contrattuale, ma fisicamente sta meglio di te”.
“Per i sindacati è come se non ci fossimo”. E i sindacati, tanto bravi a gridare alla vittoria per il job act e il lancio della Renegade, non si sono spesi in modo altrettanto incisivo per questi lavoratori ‘fantasma’. “Per loro noi non esistiamo, anche perché non è chiaro se ci riconfermeranno. Quindi loro non solo non ci rappresentano, ma sono assolutamente distanti da ciò che ci accade tutti i giorni sulla linea”. E aggiunge: “Non possiamo neanche lamentarci, perché se lo facciamo, ci ritroviamo con un piede già fuori”. Meglio tenersi buoni i padroni, quindi. Soffrire. Fingere ottimismo. E sperare. “A giugno non si è ancora capito se continueranno a chiamarci. Ma se i numeri di produzione continuano a rallentare, i primi a saltare siamo noi. Siamo già passati dalle 20 giornate di lavoro del mese dicembre, alle 15 di oggi”. Mancano le tutele, languono le certezze sul futuro. L’operaio dà un’occhiata impaziente al telefonino. Il tempo di salutare e poi corre via. “Se mi chiamano al lavoro devo scattare. Scusa. Ciao”.
Gio, 05/05/2016 – 16:21
da operaicontro
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