domenica 8 maggio 2016

pc 8 maggio - 'La fabbrica della felicità' - un libro di denuncia

E’ meglio morire del male che di fame” oppure “Non fa niente che io crepo ma mio figlio deve lavorare lì” (sottinteso: come “indennizzo”): frasi simili ne ho sentite anche io varie volte da chi è nelle fabbriche della morte o da chi vive nei pressi e “gode” della ricchezza indotta e dei veleni connessi. Ma ne ho ascoltate anche di opposte, per fortuna: “bisogna distruggere un sistema che non mette limiti al profitto anche se questo significa dare ai padroni licenza di uccidere” così mi scrisse anni fa in una lettera/volantino un giovane/vecchio amico “operaiaccio”.

Mi sono fermato più volte a riflettere leggendo il romanzo “La fabbrica della felicità” (148 pagine per 14 euro) appena uscito da Stampa Alternativa, esordio narrativo del giornalista e blogger Giulio Di Luzio. Rivedevo così i volti di amici operai e di persone che ho conosciuto, magari di corsa, quando facevo due strani mestieri cioè il militante (del gruppo Lotta Continua) prima e poi il giornalista. Non credo che si possa essere neutrali neppure facendo il cronista, tanto è evidente che l’intera organizzazione del lavoro si preoccupa di fare risparmiare ai padroni tutti i soldi possibili, persino quelli che dovrebbero servire
per tutelare la salute di chi lavora dentro le aziende o di chi vive lì intorno.
E’ soprattutto la chimica a uccidere come in “La fabbrica della felicità”, basato su una tragica storia vera. Qui il primo veleno è la bugia del padrone buono venuto dal Nord per aiutare i poveri terroni.

E’ bravo Di Luzio a mostrare la strana alleanza fra il giovane medico Nicola La Porta (all’inizio “barricato nel mondo chiuso e ovattato della medicina e del suo potere indiscusso sull’uomo”) e Maurizio Russo, operaio ingenuo, scrupoloso e così stakanovista da esser diventato un capoturno. Impareranno molto l’uno dall’altro.
La voce narrante è spesso affidata al figlio: sono belli alcuni passaggi (i riti della domenica, i “sassi parlanti” gli studi come risarcimento sociale) dove i fatti sono immersi nella sua crescita difficile, nelle ignoranze, incertezze e paure.
Una enorme nube biancastra”; è “l’incidente” del 26 settembre 1976 ma ci vorranno quasi 20 anni perché Maurizio Russo sappia di cosa si è ammalato, come e perché... per poi scoprire anche i medici di fabbrica sapevano, da subito, ma hanno taciuto. A esempio “arsenico” dev’essere una mala parola se nessuno fra quelli in camice bianco o in cravatta la pronuncia mai. Come fra i “tecnici” che sembrano avere una scienza infusa, però nei reparti non vengono.
Non racconterò la storia: anche se non è un “giallo” ci sono molti colpi di scena, psicologie, intrecci che sarebbe sbagliato rivelare. Leggetelo, è un gran libro.
In fabbrica “si parlava di tutto: dalle cosce delle dive... al calcio”. Di tutto “tranne che di salute”; a quella ci pensa “il commendatore”, com’è buono e non bisogna fargli “uno sgarbo” mettendo in giro certe voci.
Chiuso il libro, molte immagini, persone e frasi restano in mente: Renato, “l’operaio topo”; i giornalisti asserviti; “Perché se qualcuno ha sbagliato non deve pagare?”; il medico di fabbrica che fa fortuna e l’altro che carriera non farà ma spiega “il gradino più alto è accanto al paziente”; “la grattatrice”; il sindacato assente quando servirebbe; il coraggio e l’amore di alcune donne; “il male che cammina”; le toghe nere e l’avvocatessa controcorrente; gli interrogativi che ronzavano “come le zanzare ad agosto, ne schiacci due e ne trovi altre dieci”.
Se leggete questo libro fra tutte le infamie quella sui crostacei forse vi sembrerà frutto di pazzia... invece è cronaca “giudiziaria”.
C’è una frase del dottor La Porta che vale citare quasi per intero: “Nella nostra formazione la malattia non ha nulla a che vedere con la storia di chi lavora... E’ questo l’errore”. Negli anni ‘70 molti (relativamente molti, diciamo qualche migliaio di persone) compresero quell’errore cercando, in fabbrica e fuori, di trovare un’altra strada, un diverso sapere, nuove alleanze.

In apertura del romanzo c’è la frase di una canzone di Pierangelo Bertoli: “i crimini contro la vita li chiamano errori”. Teniamole a mente queste poche, chiare parole e soprattutto quando (quasi ogni giorno) ascoltiamo “la voce del padrone” fedelmente amplificata dalla stragrande maggioranza dei media.

Nessun commento:

Posta un commento