pc 8 febbraio - Per Giulio Regeni, No... non bastano le giuste parole alate e la denuncia di tutti. Servono fatti e non parole. Vale per tutti, anche per noi!
(da inventati)
Giulio Regeni era uno studioso scomodo,
da tenere sott’occhio, da sorvegliare, e perfino punire, visto come
sono andate le cose. Era scomodo, dava fastidio, perché si occupava di
quei soggetti di cui nessuno vuole più parlare: i lavoratori.
Sono decenni che, a livello globale, si
producono tonnellate di libri e articoli per convincerci che i
lavoratori non esistono più, che il lavoro è morto, perché ora siamo
tutti “collaboratori” felici dei padroni…pardon, dei “datori di
lavoro”. Scrivere dei lavoratori oggi, dei loro diritti, del loro
sfruttamento e delle loro lotte e scioperi significa, prima di tutto,
essere emarginati dal cosiddetto “mondo accademico” (salvo rare
eccezioni, ovviamente) che preferisce, nella migliore delle ipotesi,
disquisire di aria fritta, piuttosto che contribuire alla comprensione
o alla trasformazione della realtà.
Ma in questo mondo, piombato nella più
grave crisi economica e politica della sua storia, scrivere dei
lavoratori significa anche attirare l’attenzione delle polizie e dai
servizi segreti di mezzo mondo. In Egitto più che altrove. Perché in
nessun altro paese del mondo si sono registrate mobilitazioni operaie
così imponenti e vaste come nell’Egitto degli ultimi anni,
prima, durante e dopo la sollevazione del 2011, fino a quando non è
scesa la notte con il colpo di stato del generale al-Sisi, “amico
personale” di Matteo Renzi.
Checché ne dicano i fan della
“rivoluzione Facebook”, quel che è successo in Nord Africa e in Medio
Oriente, nel 2011, è stata una gigantesca mobilitazione sociale e
operaia per chiedere giustizia sociale, eguaglianza, dignità. Non si
chiedeva cioè soltanto un cambio di governo per far funzionare meglio il
capitalismo (come ci hanno spiegato da questa parte del mondo), si
chiedeva molto di più, si voleva una società e un mondo migliore, più
giusto, a misura di lavoratore.
Per avere una conferma di ciò
basterebbe osservare quel che è accaduto in Tunisia qualche giorno fa,
dove migliaia di giovani, poveri, lavoratori e disoccupati sono tornati a
far tremare le strade e le piazze tunisine, chiedendo giustizia
sociale. Per capire questa banale verità, che viene sistematicamente
occultata dai media e dai politici, basterebbe leggere gli scritti di
Giulio Regeni, in cui si racconta di questa vitalità, di questa voglia
di lotta mai sopita dei lavoratori e delle lavoratrici egiziani,
dittatura o non dittatura, al-Sisi o non al-Sisi.
Giulio è morto per questo, perché era
un vero ricercatore, uno di quelli che vogliono andare a fondo alle
cose, che non si accontentano di argomenti facili per assicurarsi una
carriera sprint, uno di quelli che vogliono essere protagonisti, con i
loro studi, della trasformazione radicale della società. Giulio voleva
rappresentare coloro che vogliono nasconderci, a tutti i costi: i
lavoratori. Pensateci un attimo: come è possibile che ogni volta che in
tv si parla dei paesi arabi non ci mostrano mai i volti delle persone
comuni nel contesto della loro vita quotidiana? Com’è possibile che non
riusciamo mai a leggere articoli sui lavoratori e sulle lavoratrici
in Egitto, in Tunisia, in Siria? Eppure sono milioni. Eppure sono la
maggioranza. Come qui da noi.
Chi ha battuto le strade del Cairo, chi
ha visto all’opera gli apparati di sicurezza egiziani, chi ricorda i
teppisti organizzati e mandati in piazza o nelle fabbriche a picchiare
manifestanti o scioperanti, chi ha amici egiziani che sono scomparsi o
finiti in galera, in Egitto così come in Tunisia o in Yemen, magari dopo
aver subito processi farsa, non ha difficoltà a comprendere quel che è
accaduto a Giulio.
Noi sappiamo chi sono i mandanti del suo assassinio. E sappiamo che hanno amici molto influenti qui da noi.
Ciao, Giulio!
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