(da Osservatorio repressione)
Egitto. Oltre 1700 casi nel 2015: attivisti, giornalisti, semplici cittadini.
L’accusa delle ong: «I servizi godono di impunità quasi assoluta»
L’accusa delle ong: «I servizi godono di impunità quasi assoluta»
Asma’a Khalaf, Islam Atito, Esraa al-Taweel, Omar Ali, Souhaib Sa’ad. Sono solo alcuni, pochissimi, nomi dei desaparecidos egiziani. Studenti, giornalisti, attivisti, medici, sostenitori dei Fratelli Musulmani, semplici cittadini scomparsi mentre andavano al lavoro, sotto casa, tra le mura domestiche, mentre camminavano per la strada con gli amici.
A raccogliere alcune delle loro storie sono organizzazioni indipendenti egiziane o internazionali, che tentano un monitoraggio che non potrà mai essere completo. Perché i numeri sono esorbitanti, un flusso ininterrotto che collega con un filo invisibile il regime di Mubarak a quello del generale golpista al-Sisi, passando per i pochi mesi di governo della Fratellanza Musulmana del presidente Morsi.
«Limitiamoci» al 2015: secondo l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf), organizzazione indipendente egiziana ideatrice della campagna «Stop Enforced Disappearance», i primi quattro mesi dell’anno sono stati teatro della sparizione di 1.250 egiziani. Ne sono seguiti 163, scomparsi tra aprile e giugno, e altri 340 tra agosto e novembre. Per un totale di oltre 1.700 persone in undici mesi, una media che supera i quattro al giorno. Nessuna coincidenza, ma un fenomeno radicato, politico.
Asma’a Khalaf faceva la ginecologa all’ospedale universitario Assiut. È scomparsa nell’aprile del 2014 mentre usciva di casa. Di lei da allora non si hanno più notizie. Islam Atito studiava ingegneria all’Ain Shams University: è sparito a maggio dello scorso anno, secondo le autorità egiziane ucciso in una sparatoria a cui avrebbe preso parte insieme ad un cellula armata dei Fratelli Musulmani, versione smentita dai familiari che lo ritengono vivo, ma dietro le sbarre di una prigione.
Esraa, Omar e Souhaib, tutti ventenni, sono scomparsi il primo giugno al Cairo mentre andavano a cena insieme. Dopo complesse ricerche, le famiglie li hanno rintracciati: sono tutti in carcere. In questo caso, notizie frammentarie sono riuscite a rompere il muro di gomma governativo, goccia nel mare del silenzio delle autorità nonostante le pressioni di organizzazioni come Amnesty e Human Rights Watch.
Si tace perché quella della «scomparsa forzosa», come viene definita negli ambienti degli attivisti, è una chiara politica del regime militare di Abdel Fattah al-Sisi, sinistro lascito della dittatura trentennale di Mubarak e subito ampiamente ripresa durante la rivoluzione di Piazza Tahrir. Poco dopo le elezioni che assegnarono la vittoria ai Fratelli Musulmani, il presidente Morsi creò una commissione di inchiesta sui desaparecidos della rivoluzione: almeno 1.200 casi documentati nel solo 2011, molti arrestati dalle forze armate, tanti altri uccisi e finiti in fosse comuni.
Attivisti dei diritti umani, avvocati, giornalisti indipendenti – scrive sul sito di Amnesty Mohamed Lofty, direttore di Ecrf – sono soggetti ad «arresti arbitrari, detenzioni prolungate, sentenze brutali dopo processi farsa, torture, scomparse forzose nelle mani dello Stato, decessi in carcere». E, aggiunge, teme per se stesso e per chi lavora per la sua organizzazione, in prima linea nel fornire aiuto legale alle famiglie dei desaparecidos.
A volte riescono ad entrare nelle stanze del potere: a gennaio il National Council for Human Rights, ente statale, è stato costretto a presentare al Ministero degli Interni 191 casi. E il Ministero ha dovuto rispondere, almeno in parte: la polizia ha svelato il destino di 117 di quei 191 casi. Di questi, dicono, 99 sono in carcere, 15 sono stati rilasciati e 3 sono evasi. Ma, insiste il Ministero, nessuno è stato oggetto di «sparizione forzosa».
Eppure degli oltre mille casi del 2015 non si sa quasi nulla. Le famiglie tentano di muoversi per i canali informali, pagando mazzette a funzionari che vendono informazioni o vagando di ufficio in ufficio alla caccia di notizie che non arriveranno; le organizzazioni per i diritti umani provano con gli ex prigionieri. Ma sono tutti convinti del destino di buona parte di loro: se non sono già morti, sono illegalmente detenuti dalla polizia, dai sevizi segreti interni, dall’esercito.
Detenuti senza processo né accuse pubbliche in carceri diverse, tra le quali spicca la famigerata prigione militare Azouli. Di quel carcere aveva parlato Amnesty un anno e mezzo fa: dentro il campo di Al Galaa, a Ismailiya, ci sarebbero 400 prigionieri, mai accusati ufficialmente di alcun crimine, mai portati di fronte ad una corte, mai autorizzati a vedere un avvocato. Catturati sotto casa o per la strada e poi torturati, privati di cure mediche, costretti a confessare crimini mai commessi, raccontano all’organizzazione internazionale ex prigionieri.
«Le forze di sicurezza egiziane hanno apparentemente fatto sparire decine di persone senza dire una parola su dove siano o su cosa sia accaduto loro – spiega Joe Stork, vice direttore di Human Rights Watch in Medio Oriente – Il fallimento della magistratura nell’indagare seriamente rafforza la quasi assoluta impunità di cui godono i servizi sotto il presidente al-Sisi». Un fallimento figlio degli stretti legami su cui, secondo gli attivisti, si fonda l’autoritarismo egiziano, uno Stato di polizia in cui forze armate, servizi segreti e magistratura sono parte dello stesso ingranaggio che stritola la libertà di espressione e critica.
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